Pascal Rambert (Foto: Masiar Pasquali)

Pascal Rambert. Il muro delle mie domande

«Non bisogna rinunciare al desiderio». Parla il grande drammaturgo e regista francese. Nel suo “teatro del conflitto” va in scena il dramma dell’uomo. E la trappola della lingua
Luca Fiore

«Certe volte nel camerino sento che il mento mi cade sul petto e mi dico: chi sei? Quale Sandro sei? Quello pieno di tutti quei gesti e tutte quelle parole? Tutti i testi che hai recitato adesso dove sono nel tuo corpo? Riuscirai a finirla La battaglia di San Romano? Cosa offrirai agli spettatori? Cosa vuoi raccontare con La battaglia di San Romano? Perché continui? Non staresti meglio seduto di fronte a un paesaggio solo e rappacificato? Ma se non sei rappacificato è questo il tuo purgatorio, non puoi abbandonare quel continente che è un palcoscenico di teatro. Non puoi risolverti ad andartene».

Chi parla è Sandro, personaggio della pièce Prima di Pascal Rambert, prodotta dal Piccolo Teatro di Milano e andata in scena lo scorso maggio. Si tratta del primo brano di una trilogia che continuerà nei prossimi anni con Durante e Dopo: un triplice affondo sulla vita di una compagnia teatrale che si agita attorno a un immaginario spettacolo intitolato come il capolavoro di Paolo Uccello, il trittico del 1438, oggi conservato tra National Gallery di Londra, Louvre di Parigi e Uffizi di Firenze. Il racconto di una battaglia campale in cui i fiorentini, in minoranza numerica, sconfissero i senesi. Il quadro, dicono gli storici, appartenne anche a Lorenzo il Magnifico. Rambert ha scelto gli attori prima ancora di scrivere l’opera e ha dato ai personaggi i loro nomi: Sandro Lombardi, autore e regista della pièce immaginaria, e gli interpreti della compagnia Anna Bonaiuto, Anna Della Rosa, Leda Kreider e Marco Foschi. Nella compagnia si intrecciano gli amori. La passione, la nostalgia della giovinezza perduta, i sogni del futuro. C’è poco o nulla di biografico o autobiografico, ma paradossalmente la scelta di far coincidere i nomi dei personaggi con quelli degli interpreti favorisce nello spettatore la “sospensione dell’incredulità”.

Rambert è un drammaturgo, coreografo e regista famoso. Molto famoso. Almeno quanto lo può essere un autore contemporaneo di teatro all’epoca di Netflix e TikTok. I suoi spettacoli vengono messi in scena in tutto il mondo nei festival e nei teatri più prestigiosi. I suoi drammi sono stati tradotti in oltre trenta Paesi. Nato a Nizza 61 anni fa, l’artista francese è celebre per essere un interprete di un particolare teatro di parola. Dove, cioè, il testo – prima scritto e poi recitato – prevale sui virtuosismi delle messe in scena o sull’esasperazione delle performance. La parola di Rambert scava in profondità. La bellezza dei suoi fraseggi ci accompagna nella discesa degli abissi e nella scalata delle vette dei sentimenti e delle domande degli uomini. Lo abbiamo cercato per un’intervista proprio per l’eco che le parole di questo spettacolo hanno suscitato in noi. Un’energia all’altezza della burrasca della vita.

Perché ha scelto di confrontarsi con quest’opera di Paolo Uccello, La battaglia di San Romano?
Il mio è un teatro del conflitto, in cui le persone si confrontano attraverso le parole. Questo trittico rappresenta battaglie in corso oppure appena concluse. Si vedono i cavalli, l’incrociarsi delle lance… Mi è parso che parlasse non solo di ciò che accade tra due eserciti nemici, ma tra un uomo e una donna, tra amici o all’interno di un’équipe che lavora insieme. Per me è la più bella rappresentazione artistica di ciò che caratterizza l’interagire tra le persone. Uno scontro, una lotta. Anche quando parliamo di amore, di amicizia, c’è qualcosa che rimanda al combattimento. E non è una mia invenzione. È così da sempre. Il teatro greco parla di questo. Il teatro è un’arte dello scontro.

Da che cosa nasce questo conflitto?
Nel mio teatro c’è una denuncia verso il linguaggio. Mostro come sia spesso la lingua a essere la sorgente dei conflitti che ci scuotono. E, nello stesso tempo, racconto dei momenti in cui l’amore si trasmette attraverso la bellezza della lingua stessa. Molte volte il linguaggio è una trappola, un buco in cui cadiamo e in cui anneghiamo. La lingua è un po’ come Giano, un dio a due teste: genera paura, incomprensione e, allo stesso tempo, la bellezza di un’altra incomprensione, che è la poesia. Io scrivo di questo equilibrio tra paura e bellezza.

Pensa che sia impossibile comprendersi davvero con il linguaggio?
Per raggiungere la conoscenza, alcune persone credono in Dio, altre leggono intere biblioteche di filosofia. Io credo in un unico dio, che è il dio della conoscenza attraverso l’atto sessuale. Per me è quello il luogo intimo in cui conosciamo il mondo. Capiamo l’altro, un po’ di noi stessi e molto dell’ordine della forza del mondo stesso, che sta al di là delle parole. Fare l’amore significa conoscere. La sessualità è un linguaggio stabile, che ha un suo spazio specifico. È forse meno corrotto di quello verbale, che è una foresta in cui a volte ci si può perdere ma, allo stesso tempo, ci si può orientale come in una selva di delizie. Per me scrivere testi teatrali significa offrire agli attori delle parole come fossero una foresta di delizie. Poi spero che anche gli spettatori, a loro volta, possano gustarla.

''Will bees return after the wildfires?'' (2021) degli artisti bn+BRINANOVARA è una rivisitazione de ''La battaglia di San Romano'' di Paolo Uccello. (Courtesy bn+BRINANOVARA e Crag Gallery)

Nello spettacolo Anna Bonaiuto recita: «Sto con i pugni chiusi le gambe dritte per non vedere non guardare l’ostacolo che sta davanti al mio desiderio. Non ascoltare quella voce interiore». Che ruolo ha il desiderio nel suo modo di concepire i rapporti?
Non bisogna rinunciare al desiderio. Sono figlio del Sessantotto, è un’idea con cui sono cresciuto. Quindi racconto molte storie di questo tipo, in cui le persone si confrontano con le proprie aspirazioni e, dunque, anche con la realtà. E possiamo avere pozzi di desiderio. In questo spettacolo racconto di persone che lo vivono come un tormento. Nessuno è al posto giusto. Anna Bonaiuto desidera Marco Foschi, che non la ricambia. Lui desidera Leda Kreider, che non sa cosa farsene di questo amore. Anna Della Rosa si trova respinta da Marco, che fino a poco prima era il suo amante. E il nostro caro, dolce Sandro Lombardi ha vissuto per anni una sorta di amore incompiuto per Marco. Ci troviamo quindi in una mappa del desiderio in cui niente si sposa con niente.

Perché le interessa questo tormento?
Fin dal tempo dei Greci, è difficile raccontare storie in cui tutti sono felici e pensano che la vita sia bella e che tutto vada bene. Gli spettatori sanno che le cose non vanno così. Dentro di noi lo sappiamo. E allora andiamo a teatro per avere la conferma che non siamo soli nel nostro rapporto con la realtà, dove non va tutto bene. Questo è il grande segreto del teatro. Vogliamo renderci conto del nostro desiderio insoddisfatto, del nostro dolore. È lo stesso dolore che viene condiviso quando si fa l’amore.

L’impressione, guardando il suo spettacolo, è che l’amore impossibile sia una metafora di qualcos’altro che va oltre le dinamiche affettive e che arrivi a toccare la dimensione del senso della vita. Sbaglio?
In questo caso sarebbe la morte di Dio. Perché in effetti, io faccio un teatro pagano, non c’è dubbio.

Pagano?
Sì. Il mio amico drammaturgo Romeo Castellucci (un altro grande del teatro contemporaneo, ndr), che non ho idea se creda in Dio e, se sì, in che modo crede, ha un rapporto molto forte con il sacro. Ma io ho perduto la fede. È successo più di quarant’anni fa e, spesso, nelle mie opere, introduco questo tema. Alcuni dei miei personaggi si confrontano con la domanda sulla fede. Può darsi che quello di cui tu parli sia l’assenza di Dio per me, o la presenza di Dio per altri. In ogni caso, nel mio teatro, in quest’opera specifica, Dio è chiaramente assente. Il mio teatro è un teatro pagano, popolato di mortali, di persone consapevoli che moriranno, che non saranno in nessun caso salvate. Io, che ho perso la fede da giovane, mostro spesso dei personaggi che desidererebbero essere salvati dall’amore, e a volte lo sono. Dopo questo Prima, ci saranno le altre due parti del trittico. In questo momento sto scrivendo la seconda, Durante. E forse ci saranno più possibilità di riconciliazione attraverso l’amore.

Sandro Lombardi, nel monologo finale, dice che non si recita mai per gli spettatori, ma spesso per una persona che non c’è. Anche a lei capita così?
È la verità della mia scrittura. Io non lavoro per il pubblico, non scrivo per piacere o per dispiacere. Faccio ciò che devo fare e basta. Se lo facessi in funzione della reazione del pubblico risulterebbe falso. Ma non scrivo nemmeno per me stesso. Ci dev’essere qualcuno che mi ascolta. Ma questa persona può non essere presente in sala, può non parlare la mia lingua, può anche non essere più in vita. Ma è per lei che sto lavorando. Potrei farti degli esempi di persone del teatro francese del passato, ma per farti capire direi che lavoro pensando di essere visto da Giorgio Strehler. Deve essere una persona importante per me, pensando alla quale posso dire: «Dicendo questa cosa sto dicendo la verità».

Il personaggio di Sandro cita anche sua madre, che diceva: «Gli esseri sono indecifrabili, e si muore dolcemente di fronte un muro di domande». Che cos’è questo muro di domande per lei?
Sono nato nel cattolicesimo e quindi sono delle domande che conosco molto bene. Quando ero giovane volevo diventare monaco benedettino e sono entrato nel seminario minore. Fino a vent’anni mi sono interessato con passione alle questioni filosofiche poste dalla religione. Poi la fede mi ha abbandonato. Ma c’è qualcosa di molto forte nella mia vita. Anche se Dio è assente, non c’è, ci dev’essere sicuramente qualcosa. Anche i grandi religiosi con cui ho avuto a che fare da giovane e con cui mi sono confrontato mi dicevano che la fede non elimina le domande.

Che cosa significa per lei questo?
Noi pensiamo che, invecchiando, saremo in grado di risolvere tutti i nostri problemi. La vita assomiglia a una gita in montagna. Continuiamo a ripeterci: «Ce la farò a raggiungere la cima». E poi, si arriva alla cima e davanti a noi si apre una bellissima valle con un’altra cima più lontana. Ed è così fino alla fine. È questo che non va, l’angoscia di una risposta che non c’è mai. Perché non c’è Dio. Per me non c’è. C’è il fatto di vivere. E per vivere almeno con un po’ di gioia bisogna accettare di vivere senza risposte. E per farlo, bisogna essere un po’ vecchi. Non puoi cominciare a pensarlo a 18 anni. Occorre il tempo per scoprirlo.

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Dopo quarant’anni di teatro, perché per lei vale ancora la pena farlo? Che cosa tiene ancora viva la fiamma?
Samuel Beckett diceva che si è condannati a fallire e a ricominciare. Una volta mi sembrava una civetteria. Ma oggi capisco, perché dopo una vita di teatro, se mi chiedi perché continuo, sono consapevole di non essere mai arrivato al livello che desidero. Non dico di avere fallito, ma penso di non essere mai arrivato al livello di perfezione che cerco. Ma so anche, nel più profondo di me, che se arrivassi a quella perfezione in uno spettacolo, in quel momento smetterei. Spero di continuare ancora qualche anno a scrivere e a mettere in scena delle opere in tutto il mondo. Faccio dieci produzioni all’anno, che sono tantissime. Dieci opere nuove in ambienti diversi, una prima ogni mese in giro per il mondo. È un lavoro che va avanti così da oltre venticinque anni. È la mia vita. E credo che l’unica cosa che fermerà questa impossibile ricerca della perfezione sarà la morte.

Che cosa ha di più caro Pascal Rambert?
I miei due figli. Il primo di trent’anni e il secondo di tre: Lou e Fantin. E mia moglie, Aurélie. Sono sempre in giro per il mondo. Ora mi trovo a Timişoara in Romania, sto facendo una produzione con ventisei attori rumeni. Sarò a Parigi per qualche giorno, per poi ripartire per Hong Kong. E sono felice di tornare a casa perché ci sono loro tre. Questa è la cosa più importante per me.