Carlo Rovelli e la regista Liliana Cavani

Carlo Rovelli. «Il mio canto all'universo»

Che idea ha di conoscenza uno dei più grandi fisici italiani? Cosa sono i "buchi bianchi" e cosa significa studiare la creazione e darle del "tu"? «Più capiamo, più cresce la meraviglia»
Maria Acqua Simi

Carlo Rovelli, 67 anni, il noto fisico e teorico italiano nativo di Verona, oggi guida l’equipe di gravità quantistica dell’Università di Aix-Marseille in Francia. È autore di cinque libri: uno di questi, L’ordine del tempo, è diventato un film diretto da Liliana Cavani (con Alessandro Gassmann e Claudia Gerini) che sarà presentato nei prossimi mesi e che esplora la complessità e il mistero del tempo. Fisico ed esistenziale. L’ultimo libro, invece, si intitola Buchi bianchi. Dentro l’orizzonte e nasce prefissandosi un compito arduo: scoprire cosa c’è in un buco nero. Ispirandosi a Dante (spesso citato nel volume, edito da Adelphi) Rovelli si lancia nell’avventura della conoscenza con tutti i mezzi a disposizione: il suo Virgilio saranno le equazioni di Einstein, sulle quali lavora da sempre, ma anche le intuizioni di giovani colleghi e un’inesauribile curiosità. Perché, come ci racconta, «la meraviglia non diminuisce con l'aumentare della conoscenza. Al contrario, cresce».

Professore, lei parte dai buchi neri per ipotizzare l’esistenza dei buchi bianchi. Spieghi anche a noi, profani della fisica, di cosa si tratta.
Abbiamo molti buchi neri nel cielo, ma non sappiamo cosa succederà loro nel lontano futuro. Una possibilità è che, a un certo punto, "rimbalzino" e ciò che è entrato possa uscirne. Un "buco bianco" è questa ipotetica fase futura nella vita dei buchi neri. Nel libro racconto come sia nata questa idea e come la stiamo esplorando.

Racconta al lettore che «studiare lo spazio, il tempo, i buchi neri e bianchi, è una delle nostre vie per essere in relazione con la realtà. Che non è “essa”: è “tu”. Come fanno i poeti lirici quando parlano alla luna (…). Penso dovremmo rivolgerci sempre con un “tu” all’universo, per comprenderlo e per comprendere noi stessi, il “tu” che riconosce la nostra identità con le cose». Che cos’è questo “tu”?
Per me questo "tu" è la meraviglia della realizzazione che mi pare emergere via via sempre più chiara dalla nostra esplorazione del mondo: la realizzazione che noi siamo parte integrante di questo mondo, fatti della stessa stoffa di cui sono fatte tutte le altre cose. Non siamo gettati qui stranieri in una realtà diversa da noi. Siamo a casa. Con Frate Sole e Sorella Luna.

Don Luigi Giussani ne Il senso religioso ha scritto che «la conoscenza è un incontro tra un’energia umana e una presenza». Giussani è morto da molti anni, credo vi sareste piaciuti. Ma veniamo alla domanda: che tipo di idea ha di conoscenza? La conoscenza scientifica è una continuazione della tensione umana alla verità?
La conoscenza scientifica è tante cose diverse, come tutte le attività umane. Per alcuni è il risultato di curiosità, per altri uno strumento per fare armi più cattive e ucciderci meglio l’un l’altro, o per avere più sviluppo economico - ahimé la religione imperante -, per altri ancora è un modo per mettersi in contatto con il mondo. Per qualcuno, come dice lei, è la naturale tensione umana verso la verità, o perlomeno quanto di più simile a cui possiamo accedere. La verità con la "v" minuscola. Voler capire come stanno le cose...

Quanto è decisivo che conoscenza razionale e conoscenza affettiva procedano di pari passo?
Credo che non siano separate, possono solo esistere insieme. La ragione è uno strumento, ma quello che ci motiva sono i nostri affetti, sempre tanti e diversi, che vanno da fame e sete al nostro bisogno di amare, di essere riconosciuti, fino alla nostra curiosità, la sete di giustizia... Noi siamo un intreccio continuo di tutto questo.

Si definisce “non credente” eppure dal suo libro traspare un senso religioso spiccato…
La ringrazio. Evidentemente non c'è contraddizione fra quello che lei chiama essere "non-credente" e quello che lei chiama il "senso religioso". Per me sono entrambe espressioni che si possono interpretare in molte maniere diverse.

All’inizio del suo libro cita Einstein: «L’esperienza più bella che possiamo avere è il senso del mistero. (…) Chi non lo sa e non può più meravigliarsi, è come morto, i suoi occhi sono offuscati». Sembra che descriva molto bene i nostri tempi: oggi la tecnologia, con i nuovi
mirabolanti telescopi, ci permette di scrutare le profondità dell’universo, ma la gente ha perso l’abitudine di guardare il cielo stellato. Non ci stupiamo più di quel che ci circonda…

È sicura? Secondo me adesso la gente guarda il cielo stellato quanto prima. Se non altro, se ne stupisce di più, dato che per tutti quelli che vivono in città è uno spettacolo molto più raro. I giovani che incontro sono pieni di senso della meraviglia. Da parte mia, mi piace una cosa del cielo stellato: non si può alzare il telefonino e farne una foto decente... siamo costretti a guardarlo per davvero... con gli occhi... che bello. Spero proprio che i telefonini non diventino così avanzati da riuscire a fotografarlo facilmente.

Il libro di Carlo Rovelli

«Non si diventa Einstein se non si ha il coraggio di pubblicare cose sbagliate». Lei in questi anni di studio, lavoro e ricerca si è mai spaventato dei suoi errori o dei tentativi andati a vuoto?
Si, certo. Spaventato e vergognato. Alcuni anni fa mi ero convinto di avere trovato un risultato matematico mirabolante: la soluzione generale delle equazioni di Einstein. Per fortuna gli amici mi hanno fermato prima che io provassi a pubblicare qualcosa...

Quanto è importante, nel cammino di ricerca, affidarsi a chi ha già fatto un pezzetto di strada prima di noi? Lei cita Einstein, Tonin, Schwarschild... Come si riconosce un maestro, un testimone credibile? Lei che criteri ha usato?
La conoscenza è un’impresa umana collettiva. La grande capacità di trasmettere conoscenza ha fatto della nostra specie quello che è. Ed è la ragione per la quale abbiamo una civiltà, una cultura. Non possiamo che costruire sull’immenso patrimonio che troviamo in eredità. I maestri sono il tramite attraverso cui assorbiamo non solo il sapere ma anche l’arte di farlo crescere. Poi, il sapere cresce sempre criticando e facendo meglio dei maestri, per cui verso i maestri è opportuno avere profondo rispetto e gratitudine, ma non riverenza, perché è facendo meglio di loro che possiamo fare altri passi avanti. Comunque, sceglierli è ancora più difficile che seguirli o criticarli. Da ragazzo, verso i quindici anni, ho comperato un bloc-notes e l'ho riempito interamente di brevi capitoletti, ciascuno dei quali riassumeva un insegnamento diverso che il mondo di allora mi proponeva. Tutti diversissimi e in violenta contraddizione tra loro. Chi insegnava a pensare a sé stessi, chi a occuparsi degli altri, chi predicava la rivoluzione sociale e chi la rivoluzione interiore, chi parlava di Dio, chi di giustizia, chi di amore, chi di successo personale, chi di inutilità di tutto... Il mondo è una cacofonia di maestri. Ma ciascuno di noi trova la sua strada, senza rendersene conto sceglie i suoi maestri, li segue, e continua un percorso.

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«Le ideologie – scriveva Hannah Arendt – non si interessano mai del miracolo dell’essere e svolgono il loro compito così bene da proteggere da ogni esperienza». In poche parole, censurano la meraviglia. Che storture ha visto e vede oggi in ambito scientifico? Cosa permette di non lasciarsi definire dalle ideologie?
Quando ne parliamo, ci riferiamo sempre alle ideologie “degli altri”. Facciamo fatica, sia individualmente sia collettivamente, a riconoscere gli aspetti ideologici delle nostre convinzioni. Le storture che vedo in ambito scientifico sono le stesse piccolezze umane che ci rendono la vita più difficile in tutti gli altri ambiti: ambizioni, gelosie, egocentrismi, meschinità... Ma penso che sia lo stesso in ogni grande impresa umana: oscilliamo fra i grandi sogni e le nostre piccolezze.

Qual è secondo lei il compito della scienza oggi? Il progresso? Risolvere il mistero della vita o mantenere desto quell’istante iniziale di stupore che è motore di tutta la intraprendenza umana da millenni?
Penso che la scienza sia uno strumento formidabile per cercare di capire meglio il mondo, che si è rivelato straordinariamente efficace e utile negli ultimi secoli. E quindi insieme abbiamo deciso di nutrirlo. Se abbiamo una aspettativa di vita che è raddoppiata rispetto a qualche secolo fa, e non moriamo falcidiati dalla mortalità infantile, dalla peste e dal vaiolo, è grazie alla scienza. Se capiamo meglio tante cose che prima non capivamo, è merito della scienza. Quello a cui lei si riferisce – il mistero della vita – è un buon esempio. In gran parte non c’è più un “mistero” della vita perché ne abbiamo decifrato la biochimica, la struttura, il funzionamento. È stato bellissimo scoprire queste cose. Ne restano innumerevoli che ancora non comprendiamo, e più capiamo cose più si aprono altre domande. La meraviglia non diminuisce con l’aumentare della conoscenza. Al contrario: cresce.

Chiudo, mi perdoni. Leggo ancora sul libro: «Tantissimi anni fa, viaggiando da solo in India, mi sono trovato schiacciato e sballottato per lunghe ore in una derelitta corriera, affollata all’inverosimile di esseri umani e animali, che arrancava nel caldo torrido di una campagna senza fine. Schiacciato contro di me e egualmente sballottato era un ragazzetto indiano vestito con una tunica bianca e con l’aria timida. Dopo parecchio tempo, mi ha rivolto cautamente la parola per chiedermi se potesse farmi una domanda. La domanda, senza preamboli, era quale fosse la mia strada per andare verso Dio. Non seppi rispondere, ovviamente. Forse oggi, tanti anni dopo, qualcosa gli potrei dire». Che cosa gli risponderebbe?
Rivolgersi con un canto a ogni cosa che incontriamo.