Tracce N.2, Febbraio 2014

Un amore incrollabile
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È una riga sola, infilata in un passaggio su cui l’occhio corre veloce e rischia di sorvolare per la fretta di arrivare «al dunque». Sta nel paragrafo 3, prima che papa Francesco inizi a prendere di petto i temi che rendono la Evangelii Gaudium quel «documento programmatico» il cui valore emerge in tutta la sua grandezza man mano che la si approfondisce. Scrive il Papa: «Nessuno potrà toglierci la dignità che ci conferisce questo amore infinito e incrollabile». Una riga. Tredici parole in tutto. La si può interpretare come una premessa scontata, in qualche modo dovuta, al “discorso” sviluppato dopo, in cui si parla della Chiesa, della società, dell’economia... Delle “cose concrete”, insomma. Oppure la si può prendere sul serio, fino in fondo. In che cosa consiste la nostra «dignità», il nostro valore? In quello che sappiamo fare, nel risultato delle nostre azioni e capacità? Oppure nel fatto di essere amati «di un amore infinito e incrollabile» da Dio? E se questo è vero, cambia o no il modo di guardare a noi stessi? Incide nella nostra giornata?
Rispondere è decisivo. Non solo perché tutto quello che il Papa dice dopo, in qualche modo, poggia proprio su questa certezza. Ma perché la vita stessa ne ha bisogno. Ha bisogno di una consapevolezza adeguata di cosa siamo, di dove sta il nostro valore. Soprattutto nei momenti in cui questo valore ci appare effimero, precario, in balìa di quello che succede.

C’è un periodo della vita che sembra quasi l’apoteosi di questa precarietà. Ci passiamo più o meno tutti, in modi diversi. E ci passiamo in un momento in cui la domanda su «come si fa a vivere» e su quale sia il nostro posto nel mondo, incalza. È la ricerca del lavoro, da giovani. Per le circostanze che viviamo, è un passaggio sempre più difficile, segnato da un’impotenza diffusa. I risultati sono molte volte sterili. Il nostro “fare” diventa spesso affanno. Le attese, delusioni. Uno tenta tutto il possibile, e sbatte contro un muro. Oppure si ritrova senza sapere da che parte girarsi, e si ripiega su se stesso.
Bene: che valore ha un momento del genere? Cosa può mostrarci della nostra «dignità»?

Essere alla ricerca ha sempre dentro qualcosa di vertiginoso. Perché domandare coincide con la nostra natura, con “come siamo fatti”. «Il vero protagonista della storia è il mendicante», ci ricordava don Giussani: «Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo». Prima di ogni nostra capacità, prima delle cose che conosciamo o sappiamo fare - magari perché ce le siamo conquistate negli anni bellissimi e impegnativi dello studio -, c’è questo dato che possiamo riscoprire di continuo: siamo fatti, voluti, amati da un Altro «di un amore incrollabile». Con i nostri talenti, il nostro temperamento. Persino le nostre debolezze.
La «dignità», il valore nostro, sta in questo. Nell’accorgersi di questo. Quando cerchi lavoro, e tutto sembra contro di te. Quando il fiume ti allaga la stessa casa danneggiata pochi mesi prima da un terremoto (guardate nelle lettere). Quando ti ritrovi nelle trincee dell’Afghanistan (dove, come leggerete, si possono indossare armi e divisa e scoprire di essere uomini proprio nel momento in cui ci si accorge di questa debolezza, nostra e degli altri). O addirittura quando si decide di fare un passo indietro, come ha fatto Benedetto XVI giusto un anno fa. Sembrava un atto di debolezza, ha avuto - e sta avendo - la forza di cambiare la Chiesa intera. Perché poggiava su una consistenza certa, serena. Come dice Francesco, «incrollabile».