Tracce n.2, Febbraio 2019

Un filo da riprendere
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Ma ci crediamo veramente che l’altro sia «un bene per me»? Meglio, ce ne rendiamo conto nella nostra esperienza quotidiana? Perché quando lo diciamo di nuovo, ripetendo una frase che i nostri lettori hanno visto comparire spesso su questo giornale, non lo facciamo per articolare teorie sociologiche, né tantomeno per richiamare a uno sforzo morale, un malinteso «vogliamoci bene». È per aiutarci a guardare la nostra esperienza. A giudicare se è vero o no che senza il confronto con l’altro io non potrei mai crescere, prendere coscienza di quello che sono e mettere alla prova ciò che penso. Insomma, senza di te io non sarei me stesso. È così, o no?
E attenzione: non si parla solo dei “lontani”. L’altro è chiunque. Anche quando è vicino, sintonizzato sulle mie idee o magari fa parte da anni della mia storia personale – un amico, un figlio, marito o moglie –, resta irriducibilmente altro da me. Ha la stessa connotazione di fondo di chi incrocio per la prima volta: non è fatto a mia immagine e somiglianza, come vorrei che fosse o come ho in mente io. Mi è dato.

Per questo è essenziale riprendere il filo del dialogo. Lo è di sicuro in un mondo dove alzare steccati tra uomini e popoli è diventata una scorciatoia comune per fuggire da tante paure. Ma lo è ancora di più se guardiamo alla nostra quotidianità, alle nostre vite. E il modo migliore per capire, come sempre, è guardare. Andare a vedere dove nasce, come può fiorire questo strano «rapporto con l’altro, chiunque o comunque sia», indispensabile «perché la mia esistenza si sviluppi, perché quello che io sono sia dinamismo e vita», come diceva don Giussani. Andare e vedere, perché essendo un rapporto reale, e non un’idea –esperienza, non teoria –, il dialogo accade dove meno te lo aspetti.

Il 26 dicembre, nella storica Biblioteca di Alessandria d’Egitto – cuore millenario della cultura islamica –, è accaduto un fatto di questo tipo. È stata presentata la traduzione araba de La bellezza disarmata, il libro di Julián Carrón, guida di CL. Un evento passato un po’ sottotraccia, complici le vacanze di Natale. Ma è utile riprenderlo. Non solo per l’evento in sé (che pure, intendiamoci, è imponente: che il libro di un sacerdote cattolico imperniato sulla proposta cristiana trovi una porta spalancata nel mondo musulmano non è così scontato), ma per il metodo che indica: il dialogo. Un incontro fra persone – un’amicizia – che permette di allargare la ragione e aprire spazi di libertà e arricchimento reciproco dove sembra impossibile.

La scommessa è che quello che è successo lì, come le altre storie raccontate in questo Tracce (dalle parole di Pierre Claverie, vescovo martire in Algeria, al gesto di papa Francesco, che non a caso in queste settimane visita due Paesi di frontiera come gli Emirati Arabi e il Marocco), ci aiuti a fare i conti con la realtà intorno a noi. Che ci faccia intravedere una strada possibile là dove siamo, nei rapporti con tutti gli altri che popolano la nostra vita. Perché ne abbiamo bisogno, più che mai.

Tracce n.11, Dicembre 2023

Qui, ora
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«Nessuna esplosione, dovunque possa rimbombare, sopra la terra, sotto terra, o negli illimitati spazi cosmici, potrà mai assordare il cuore di chi ha sentito queste fulminee parole del Vangelo: “Il Verbo si è fatto carne”». Chi lo scrisse, padre Vsevolod Špiller, sacerdote ortodosso nel regime sovietico, conosceva la persecuzione, il furore ideologico. E quella «tendenza all’estremo» che, come dice in questo numero il sociologo Sergio Belardinelli, «si sta manifestando su scala planetaria» e della quale «la violenza terroristica è soltanto la manifestazione più eloquente».
Eppure Špiller era certo di un evento più potente di qualsiasi altro, l’annuncio di Dio che si fa uomo. Oggi il potere e il male hanno altre facce e la tenerezza del Natale che si avvicina sarebbe un nulla, insopportabile, se non fosse un fatto inaudito, un amore pieno di pietà di cui c’è bisogno più dell’aria.
Il parroco della chiesa cattolica di Gaza, Gabriel Romanelli, racconta nelle pagine che seguono come la fede vissuta renda inattaccabile il cuore della sua gente, quando tutto intorno è disumano. Sembra travolta dalla storia, ma la notizia di quel Fatto silenziosamente continua a cambiare il modo di vivere qualsiasi cosa accada: la fede «non ci separa dalla realtà», ci fa cogliere «il suo significato più profondo», si apre «un nuovo modo di vedere», come dice la frase del Papa nel Volantone di CL.
La “pace” allora non è un silenziatore sul dolore, ma il seme di un’esperienza nuova che permette di stare nelle macerie, di case e di vita, di farsi le domande e capire cosa risponde, guardando in faccia la morte e il male, quello che ha riaperto traumi e ferite profondissime in interi popoli, come quello che esplode in una qualunque famiglia di provincia. Abbiamo raccolto in questo numero lo sguardo di alcuni testimoni che non vogliono voltare la faccia: dal cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, a Maria Ruiz, una giovane donna che a Gerusalemme, nell’ora più buia, dice il suo sì a Cristo come contributo al mondo.

Ricordava don Giussani in altri anni, davanti ad altre guerre: «Quando la società giunge a certi passaggi decisivi, il vero problema è che il giudizio di lode o di condanna dovrebbe mettere in conto innanzitutto la necessità dell’educazione dei giovani e degli adulti, cioè di tutti gli uomini, perché sono gli uomini normali che hanno la necessità di attivare le proprie capacità di giustizia e di bontà. Se l’umanità non è educata a una vera stima dell’uomo, e quindi a una giustizia reale, non può sentirsi libera dai disastri che essa stessa si procura». E aggiungeva che «il vero dramma dell’umanità attuale» è la mancanza di «un’educazione pari alla grandezza e alla profondità della lotta fra gli uomini».
Essere educati, come può solo chi ha un padre. Nel dramma emerge chiaro il bisogno di rinascere che ci attraversa tutti: ce lo ricorda il Patriarca Latino di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa, che mai come in questo frangente dice di sentirsi chiamato «a un alto grado di paternità. Il padre è colui che genera alla vita. E qui, ora, c’è un gran bisogno di generare nuova vita».