Giovanni Caccamo (Archivio Meeting)

Giovanni Caccamo. «Non serve un talento per avere desideri»

Dal suo “Manifesto per il cambiamento” è nata una delle mostre più amate al Meeting. «Molti giovani sono spenti, voglio riaprire le grandi domande». Parla il cantautore siciliano
Emmanuele Michela*

Giovanni Caccamo - 33 anni, cantante siciliano, allievo di Franco Battiato - è un uomo in ricerca e arriva da due anni pieni di incontri. A muoverlo, una domanda rivolta a migliaia di giovani in università, carceri, centri d’accoglienza: «Qual è la tua parola di cambiamento?». Il suo “manifesto” oggi è un libro, edito da Treccani, che al Meeting ha trovato spazio nella mostra “La forma delle parole”, nata grazie alla collaborazione con Micol Forti, direttrice della Collezione di arta moderna e contemporanea dei Musei Vaticani, e alla proposta lanciata a 12 grandi artisti italiani chiamati a offrire la loro rappresentazione di alcuni di quei vocaboli. «Un surrogato di futuro», lo ha definito il cantante all’incontro di presentazione a Rimini: sono testi sinceri e urgenti, pervasi da domande profonde, mai rabbiosi o viziati da slogan (molto bella la lettera d’accompagnamento del Papa, «siate persone che cambiano il modo di cambiare»). «Ci tengo a dire che tutto ciò non è mio», precisa Caccamo: «Io mi sento solo un “rappresentante di classe” di migliaia di giovani che hanno un’idea chiara di dove andare, ma hanno sempre meno spazi per esprimersi».

Per la prima volta al Meeting. Che esperienza è stata?
Sono rimasto molto colpito da questo luogo che risponde alla necessità evidente di incontrarsi, che è il medesimo intento del mio progetto. È il desiderio dei giovani di fare rete, sentirsi meno soli. Il progetto è stato un effetto domino di bellezza e luce, e il Meeting ha colto la straordinarietà della mia ricerca.

La mostra ''La forma delle parole'': vocaboli interpretati da 12 grandi artisti italiani (Archivio Meeting)

Si aspettava questo genere di risposte dai giovani incontrati?
All’inizio, a dire il vero, i testi ricevuti erano scarsi. D’altronde, ero partito ottimista, pensando di trovare un fiume di persone con una visione di futuro simile alla mia, del tipo “io sto studiando in università perché voglio fare questo…”. In realtà, ho scoperto come ci siano molti giovani che vorrebbero essere in cammino, ma in realtà sono fermi. Non sanno dove andare, perché non sono abituati ad ascoltarsi, perché non c’è nessuno che li ascolta. Per loro la cosa più semplice è fare ciò che gli altri si aspettano. Ma così finisci per costruire un castello fatto di carte, che alla prima difficoltà crolla, e tu con lui. Manca in molti il coraggio di ascoltarsi e capire qual è il proprio posto nel mondo, e capire che il fallimento è parte del viaggio.

Poi cosa è cambiato?
Non volevo arrendermi al fatto che ci fossero ragazzi di 18-19 anni senza un sogno. Vorrei far intendere loro che non serve un talento per avere un desiderio. La difficoltà, semmai, sta nel chiedersi: io chi sono? Cosa mi fa alzare dal letto al mattino e capire che sono nel posto giusto? Questo manifesto è un volume di orientamento emotivo, è un libro che va incontro a chi può essere in impasse.

Mi colpisce che lei abbia scelto come parola per il cambiamento “gratitudine”. Questo sebbene la sua storia non sia stata semplicissima, a 11 anni ha perso suo padre. Da dove nasce questo sentimento?
Dobbiamo renderci conto anzitutto dei doni e del bene che riceviamo, guardando cosa c’è fuori dal nostro recinto. Viviamo una vita straordinaria, anche nella povertà più assoluta. Vengo da una famiglia né ricca né povera, mio nonno era un allevatore di mucche: in quella semplicità - avere il minimo indispensabile - c’è in realtà una ricchezza straordinaria, che è nella capacità di condivisione, nel valore dato alla misura. Purtroppo oggi, a forza di accumulare materia e fissarci su una virtualità, ci stiamo perdendo noi e la nostra curiosità. Quanto a mio padre, penso di aver incontrato prima di tanti coetanei il dolore e la morte. A 11 anni ho dovuto relazionarmi con la morte, che è come quando compri un oggetto di pregio e lo porti a casa, e all’inizio non sai dove metterlo. In realtà poi negli anni trova la sua posizione. Oggi quando incontro i ragazzi chiedo sempre: «Perché i diamanti sono più preziosi del ferro? Perché sono rari». La morte è quel passaggio che, ponendo un limite al numero di giornate, le trasforma da ferro a diamante. A volte penso a quando perderò mia madre, e questo mi spinge a vivere al meglio il rapporto con lei. Per questo dico che non dobbiamo preoccuparci della morte, ma della vita: siamo realmente vivi?

Nei pannelli della mostra si avverte una domanda profonda, ovvero il bisogno di qualcosa che sopravviva al nulla: «Qualcosa di più di una semplice vita dal finale tragico», scrive la cantante Angelina Mango nel suo testo dedicato alla parola “infanzia”. Come si spiega questo?
C’è una frase che ho scritto tempo fa e che prima o poi diventerà qualcosa «Di noi rimarrà l’amore che siamo stati in grado di dare». Questo è il monito, il faro, che riassume l’essenza di tutte le religioni.

Lei è credente?
Sì. La domanda che farei a chiunque è: come si può non credere? Allo stesso tempo qualcuno può rispondere: come si può credere, con tutto il male che c’è? Per me è eloquente un aneddoto che usava Padre Pio: una bambina gioca ai piedi della nonna che per mesi, ogni giorno, è impegnata a tessere un arazzo. Finché un giorno la bambina non chiede: «Ma perché, nonna, ogni giorno dedichi il tuo tempo a una cosa così brutta?». Da sotto, erano solo nodi e fili sfilacciati. «Da lì vedi solo quello», risponde la nonna, che tira su la bambina e le fa vedere l’arazzo da un’altra prospettiva. Ecco, chi sono io per sapere cosa ci sarà dopo o da dove vengo? La curiosità è umana, ma non dobbiamo avere la pretesa di dare noi la risposta a domande tanto grandi. Noi dobbiamo preoccuparci delle scelte quotidiane e fidarci. Appunto, avere fede.

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Nel 2012 incontrò Battiato, che era in vacanza a pochi chilometri da lei in Sicilia, e lo attese quattro ore fuori casa per dargli un suo cd. E così è nato un rapporto da maestro-allievo…
Nell’incontro con lui c’è perseveranza mia, ascolto suo, e la lentezza della Sicilia, la mia terra da cui ero scappato per la più frenetica Milano. Solo quella lentezza ha permesso a lui di fermarsi ad ascoltare il disco che gli portai con le mie canzoni. Ho avuto la fortuna di stare con Battiato per dieci anni, ma la cosa che più mi manca oggi sono i suoi silenzi. A lui sono grato perché mi ha insegnato a scardinare l’arte dal fine, ovvero far sì che la mia arte sia specchio di ciò che sono: è il suo insegnamento che più mi porto dietro. Quando agisci per le classifiche o per la fama - che è quanto umanamente tendi a fare - rischi di diventare schiavo del tuo stesso successo, inseguendo risultati che non bastano mai. Così invece la musica diventa strumento per capire chi sono e ciò che mi circonda.

*Giornalista e insegnante