Greg Lukianoff

Meeting. Rompiamo le bolle

La critica a chi teorizza la necessità di "spazi sicuri" per evitare chi ha altre idee, i rischi della mancanza di libertà di espressione... Greg Lukianoff, "esperto" di educazione in America, interverrà a Rimini. Qui, un'intervista apparsa su Tracce
José Medina e Martina Saltamacchia

Greg Lukianoff ha passato i suoi anni alla School of Law di Stanford a studiare il Primo emendamento alla Costituzione americana. Per lui il diritto alla libertà di espressione è quasi una fissazione. Oggi ne è considerato il più cocciuto difensore in ambito educativo, visto che dal 2006 è il presidente di Fire, la Fondazione per i Diritti individuali nell’educazione. Di fatto si occupa di casi di licenziamenti, sospensioni o provvedimenti disciplinari legati alla libertà di espressione nelle università. Nel suo ultimo libro, The Coddling of the American Mind, critica la crescente richiesta degli studenti di regolamenti che evitino loro l’impatto con idee e opinioni che li possano turbare. L’obiettivo è la creazione di spazi safe, sicuri. Spazi che ritiene pericolosi per la formazione umana e culturale dei giovani, perché, dice, generano la bubble mentality, la mentalità della bolla: noi dentro, assieme a chi la pensa come noi, e tutto il mondo fuori.

Nel suo libro parla di un punto di svolta che ha notato in un momento preciso, nel 2013. Che cosa ha visto?
Quando ho iniziato a lavorare, 17 anni fa, gli studenti erano decisamente i più accaniti sostenitori in università di tutte le questioni che toccavano il Primo emendamento e la libertà. Nel 2013 ho cominciato a notare un trend preoccupante: gli studenti stessi stavano iniziando a spingere contro la libertà di parola.



In che senso?
Alla fine di ottobre 2013 venne cancellata la conferenza che il Commissario di Polizia di New York, Ray Kelly, avrebbe dovuto tenere alla Brown University. Il fatto che l’invito fosse stato ritirato non era, di per sé, una novità assoluta: avevamo già visto casi del genere in passato, anche se non di frequente. Ma quello che c’era di nuovo era la reazione di gioia con cui veniva festeggiato il fatto di essere riusciti a far tacere qualcuno in università, invece di essere stati in grado di porre domande difficili. Era più o meno lo stesso periodo in cui ho cominciato a sentir parlare di trigger warnings, micro-aggressioni – un termine che, fino a quel momento, non mi era familiare – e richieste per nuovi speech code, “codici di espressione”. Francamente, mi sembrò come se tutto fosse accaduto da un giorno all’altro.

Che cosa ci dice l’idea che occorra tutelarsi dalle “micro-aggressioni”?
Ho molta simpatia per il concetto di micro-aggressioni. Da studioso, è un argomento che trovo intrigante: sono davvero interessato a capire le modalità con cui ci offendiamo. Mio padre è russo e mia mamma inglese, e hanno attitudini estremamente diverse rispetto a cosa significhi l’essere non offensivo e all’equilibrio tra quell’atteggiamento e la sincerità... Come avvocato specializzato in cause che riguardano il Primo emendamento, però, sono ben conscio che non appena metti qualcosa di così ampio e vago nelle mani di qualcuno, molto rapidamente diventa un potentissimo “codice di espressione”.

Ma non è una buona cosa promuovere norme di buona educazione?
Le “norme di buona educazione” sono il concetto più variabile in ogni cultura, e anche all’interno delle culture stesse. Culture differenti hanno norme differenti. Nei college americani, gli studenti che vengono dall’estero hanno norme molto differenti. Studenti che vengono da background socio-economici diversi hanno norme diverse. Avere codici di espressione comuni così specifici come le policy di micro-aggressione, e allo stesso tempo poter rimanere tolleranti e mentalmente aperti, diventa difficile. Qui c’è una tensione profonda e significativa.

Culture differenti hanno norme differenti. Nei college americani, gli studenti che vengono dall’estero hanno norme molto differenti

Lei parla spesso di safetism, “sicurismo”. Cosa intende?
Per me, il safetism è una sacralizzazione irriflessiva della sicurezza, sia emotiva che fisica. Indica la trasformazione del giusto interesse per la sicurezza in qualcosa di sacro che non accetta compromessi, a qualsiasi costo. Oltre un certo limite, quando diventa sacralizzato, l’essere ossessionati dalla “sicurezza” può diventare qualcosa di pericoloso. E diventa un jolly che vince su tutte le carte. Perché quando usi come argomento la sicurezza, vinci sempre. Ma la sicurezza emotiva è una pseudo-sicurezza. Per esempio, quando qualcuno in classe dice «non mi sento sicuro» intende dire che un argomento o un punto di vista lo fanno sentire a disagio, ma niente di più drammatico di questo. Dilatare così l’ambito di protezione diventa rischioso.

Da dove viene questa enfasi sulla sicurezza?
Dal movimento sociale per la sicurezza dei bambini, che in effetti negli ultimi trent’anni ha avuto un enorme successo nella diminuzione di morti accidentali e rapimenti. In tanti si vuole continuare a spingere fino ad arrivare ad aver sicurezza al 100%. Ma nel tentativo di ridurre il pericolo, vai a creare dei nuovi rischi.

Che tipo di nuovi rischi?
Nel tentativo di proteggere i tuoi figli da ogni possibile pericolo che possa spuntare, puoi renderli estremamente spaventati, ad un livello che non è giustificato, visto che siamo molto più sicuri oggi che trent’anni fa, sotto quasi ogni parametro valutativo. Così facendo rendiamo la gente paranoica, gli portiamo via il loro locus di controllo, in pratica facendogli percepire che da sé non riescono ad essere fisicamente sicuri, e perciò devono aspettare che una figura autorevole gli dica quando sono al sicuro. Questo non è salutare né per un individuo, né per una società.

Così facendo rendiamo la gente paranoica, in pratica facendogli percepire che da sé non riescono ad essere fisicamente sicuri, e perciò devono aspettare che una figura autorevole gli dica quando sono al sicuro

Nel libro lei parla di come la nostra ossessione per la sicurezza dei nostri figli ci abbia portato a insegnargli alcune “non-verità” che favoriscono distorsioni cognitive, come fidarsi sempre dei propri sentimenti...
«I tuoi sentimenti sono sempre corretti» suona bene, ma in ultima analisi non è vero. Specialmente chi ha familiarità con psicologia o filosofia sa bene che non dobbiamo accettare acriticamente qualsiasi cosa proviamo. E ci sono problemi nella vita che possono essere evitati se si trattano le proprie emozioni più come informazioni che istruzioni, come ha sintetizzato in maniera efficace Susan Davis.

Parla anche di come spesso comunichiamo ai ragazzi la convinzione che il mondo sia diviso tra “buoni” e “cattivi”, il che suona particolarmente familiare nel nostro clima politico attuale...
Che il mondo sia in una costante lotta tra buoni e cattivi è la grande non-verità della polarizzazione, anche se d’istinto ci viene naturale guardare al mondo come una lotta manichea tra bene e male. Se guardi al modo in cui si articolano le battaglie in università, è tutto un pensare binario, “bianco o nero”. Ma questa falsa rappresentazione di un mondo che in realtà è molto più complesso ci può condurre soltanto a una maggior polarizzazione.

Ma alla base di queste tendenze, non c’è anche un fraintendimento della natura umana, un’enfasi sulla sua fragilità?
Quando definiamo le persone come fragili oppure salde, ci stiamo dimenticando di un’intera terza categoria, di cui parla Nassim Taleb in Antifragile: Things that Gain From Disorder (il titolo italiano è Antifragile. Prosperare nel disordine, ndr.). Alcuni tipi di sistemi, incluso il corpo umano, traggono benefici da fattori di stress e in realtà diventano fragili se non li sperimentano. Ad esempio, quando si inviano persone nello spazio, senza gravità le loro articolazioni si deteriorano rapidamente. Per la salute fisica, sfidare te stesso è essenziale.

E questa analogia regge quando parliamo di sviluppo intellettuale?
Trovo molto persuasiva l’idea di scienza liberale, di cui parla Jonathan Rauch nel suo meraviglioso libro del 1993, Kindly Inquisitors (“Gentilmente inquisitori”). La scienza liberale è un sistema in cui a chiunque è permesso proporre idee o combatterle in pubblico, e nessuno può vantare conoscenze speciali: puoi essere un esperto, certo, ma allo stesso tempo non è che traggo la mia autorità da Dio, e dunque sono perfetto. In questo sistema, il porre continuamente domande deve sempre proseguire, e nessuna discussione è mai veramente finita. Se praticata in maniera rigorosa, sotto forma di libertà accademica e scienza, può portare a idee migliori, che resistono alla prova del tempo. Direi che la scienza liberale è un sistema anti-fragile.

La scienza liberale è un sistema in cui a chiunque è permesso proporre idee o combatterle in pubblico, e nessuno può vantare conoscenze speciali

Anche le persone sono «sistemi anti-fragili»?
Sì, decisamente. Ora, come ammette anche Taleb, a un certo punto qualcosa può ucciderti, o può succedere qualcosa che può rimanere come danno permanente, ma non dovremmo essere spaventati del rischio al punto da tirarci indietro così tanto. Nel cercare di aiutare le persone a riprendersi da situazioni traumatiche o molto dolorose, lo psicologo tenta di mettere in discussione alcune delle percezioni che quella persona ha di se stessa. Sfortunatamente, mi sembra che in università in pratica stiamo facendo l’opposto. Nel capitolo che apre il libro raccontiamo la storia di uno studente che va ai Servizi di supporto psicologico in università, e gli viene chiesto dallo psicologo: «Ti senti ansioso?». Alla risposta affermativa dello studente, lo psicologo risponde: «Oh no! Allora devi essere in grave pericolo. E dovrei anche avvertirti che se ti senti così e vieni esposto alle cose di cui hai paura, probabilmente sarai danneggiato per sempre e non c’è nulla che io possa fare per te. Cerchiamo dei posti in cui ti puoi nascondere…». Nessuno psicologo che si rispetti darebbe un consiglio di questo tipo. Eppure, implicitamente ed esplicitamente, con alcuni dei nostri programmi universitari stiamo predisponendo gli studenti a profezie che si auto-avverano: se credi di essere fragile e di non poter realmente far fronte non solo al trauma, ma anche alle semplici abrasioni della vita di tutti i giorni, alla fine questo è quello che diventi. È un enorme disservizio ai ragazzi, che invece nel loro stato naturale sono in realtà abbastanza resilienti.

In pratica, sta dicendo che per crescere e svilupparci pienamente dobbiamo incontrare diversità e disaccordi, e che se facciamo fuori questo contrasto, finiamo per incrementare una profonda debolezza…
Parto da una semplice generalizzazione. La maggior parte della storia umana è una ricerca di nuove e vecchie certezze che ci facciano sentire di poterci fermare, che ci facciano sentire liberati dal dover porre domande difficili sul significato della vita. Ci vuole un certo percorso per abituarsi a un mondo in cui invece puoi reggere incertezze e ambiguità, e ancora di più per arrivare a uno stato in cui in un certo senso ne godi, in cui il mistero e l’ambiguità della vita intorno a te diventano per te qualcosa più entusiasmante che terrificante. Quindi, un’educazione correttamente impartita deve essere in qualche modo “dolorosa”, perché deve rompere alcune delle tue certezze: nell’esplorare il mondo delle idee devi necessariamente passare attraverso una certa quantità di dolore emotivo e difficoltà. Sembra irriverente, ma se fai quattro anni di università senza essere messo seriamente a disagio, senza essere stato neanche offeso, dovresti chiedere indietro i tuoi soldi, perché questo significa che non sei stato sufficientemente sfidato…

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La citazione con cui apre il libro dice: «Prepara il bambino per la strada e non la strada per il bambino». Cosa vuol dire?
Abbiamo cercato di trattare l’argomento della genitorialità con la giusta umiltà epistemica, e perciò abbiamo deciso di intervistare quattro esperti: Peter Gray, Erika Christakis, Julia Lythcott-Haims e Lenore Skenazy. Christakis sottolinea come tempo libero e gioco libero non strutturato siano essenziali per lo sviluppo dei bambini, e ciò include i processi di negoziazione dei conflitti senza intervento eccessivo dei genitori. Ho due meravigliosi bambini piccoli. Capisco il desiderio di proteggere, quasi ad un livello cosmico. Lo capisco, davvero. Ma, leggendo alcuni dei più recenti studi sulla genitorialità, sembra che quasi ci urlino: «Wow, ma allora quasi tutti i genitori che conosco stanno facendo esattamente l’opposto di ciò che dovrebbero fare!». Nel suo Achtung Baby: An American Mom on the German Art of Raising Self-Reliant Children (“Achtung Baby: una mamma americana sull’arte tedesca di crescere figli autosufficienti”), Sara Zaske parla di quanto crescere un figlio con indipendenza e una certa tolleranza al rischio sia diventato molto importante per i genitori tedeschi, in particolare alla luce del passato totalitario. Ecco, mi piace moltissimo il fatto che abbia deciso di dire ai genitori: ascolta, so che per noi come genitori questo non è facile, il nostro istinto è di tenere i nostri figli vicini e proteggerli da tutto. Ma dobbiamo superarlo per il loro stesso bene.

Il nostro istinto è di tenere i nostri figli vicini e proteggerli da tutto. Ma dobbiamo superarlo per il loro stesso bene

In che cosa dovrebbe cambiare, allora, l’educazione?
Per gli Stati Uniti, l’incarnazione del modello educativo sono sempre stati Tom Sawyer e Huckleberry Finn, i personaggi letterari free-range per eccellenza. Eppure oggi non è più così. I ragazzi che frequentano le nostre università più prestigiose hanno attività programmate dalle sei del mattino fino all’ora di andare a dormire. Non hanno molto tempo libero, non riescono a sviluppare modi per risolvere i conflitti senza che qualcuno intervenga. Non dovrebbe sorprenderci, quindi, se osserviamo esattamente questi problemi in università. I ragazzi hanno bisogno di più indipendenza e meno tempo strutturato: hanno bisogno di tutte queste cose che sono state liquidate quasi come uno strano tipo di autoindulgenza. Dobbiamo decidere quali siano le nostre priorità nel crescere i nostri figli: controllare le loro vite all’infinito, in modo che possano avere una minima chance di entrare a Stanford o Harvard, o avere delle persone sane e felici che partecipano ad una democrazia funzionale e governabile?


(da Tracce, ottobre 2018)