Raffaele La Capria

Aspetto la mia bella giornata

«Il mistero sta proprio lì: nell’origine di tutte le cose. E per me è bellissimo». Novantenne irrequieto, lo scrittore Raffaele La Capria ci spiega l’importanza della memoria. E perché «è vita solo quella che si giudica» (da Tracce, marzo 2015)
Alessandra Stoppa

Sulle colonne del Corriere della Sera si è definito «un novantenne ansioso e piuttosto irrequieto». «In bilico», aggiunge, pensandoci. Di Raffaele La Capria, tra i più significativi scrittori italiani, è uscita da poco per i Meridiani l’opera omnia, più di venti titoli tra saggi, narrativa e romanzi. Premio Strega per il suo libro più noto (Ferito a morte) e Premio Campiello alla carriera, autore di programmi Rai, condirettore di Nuovi argomenti, ha tradotto svariate opere per il teatro - da Eliot a Sartre - e sceneggiato i film del grande amico Francesco Rosi (tra cui Le mani sulla città e Uomini contro). Lui, “napoletano di Roma”, è stato considerato l’ispiratore del Jep Gambardella de La grande bellezza di Paolo Sorrentino, il quale, poche ore dopo l’Oscar, ha citato lo scrittore come «uno dei fari della mia formazione».
In La Capria convivono l’amarezza tagliente per il mercato dell’editoria italiana e l’ironia di chi pesa le cose per quel che sono. Ma non è in bilico per questo: «Penso spesso alla morte, alla mia età. E si aprono davanti a me due grandi possibilità». Che sia la fine o lo svelamento. Va con la mente all’Ulisse dantesco: «Il suo volo ha superato il limite, ma il limite è sacro. C’è un tempo - cioè un limite - per ogni cosa, è scritto nella Bibbia: c’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per la semina e uno per il raccolto. Superare questo significa naufragio e fallimento». È raro sentir parlare del limite come di un’àncora. E anche della «necessità della memoria» senza retorica.

Cosa intende per memoria?
Bisogna contemplare la propria vita. E questo si può fare solo quando si stabilisce tra noi e lei una distanza. Oggi, per me, c’è anche la distanza degli anni... Ne ho novantadue, sono tanti e guardo la mia vita come da lontano. Ma la memoria non è una fotocopia dell’esistenza: è la vita che “pensiamo” di aver vissuto. Ed è forse più vera di quella che abbiamo vissuto, che è stata distratta dalla vita stessa, dalle incombenze del quotidiano. Come è stato detto: «La vita è quel che accade mentre ci occupiamo d’altro».

Contemplarla cosa significa?
La vita contemplata è quella che si giudica. Ma la memoria esiste solo quando c’è un giudizio. È il giudizio che crea una continuità di me. Come diceva Gian Battista Vico: «Io conosco facendo», faccio ed ho bisogno di scoprire perché faccio, di guardarmi da fuori mentre faccio. Quando noi ci raccontiamo la vita, mettiamo un ordine, un certo ordine, là dove ordine non c’è. Questa è l’importanza della narrazione, di qualsiasi narrazione, che sia un romanzo, la propria vita, la Bibbia. L’ordine è per noi necessario, ci colloca in un posto, in qualche cosa di riconoscibile, mentre il caos ci annulla: è un abisso che fa paura. La vera vita è quella che si scrive e che si giudica. Oggi siamo oscillanti perché non c’è il riferimento a qualcosa di vero, non c’è la sicurezza della saggezza. Non ci sono delle verità ferme, ma solo verità da afferrare a seconda delle circostanze.

Perché è così?
Le verità ci sono, e sono anche semplici, ma sembrano irrealizzabili. Le verità sono semplicissime! Pensi alla guerra: è un’inutile strage, i conflitti non hanno fondamento. Tutti sappiamo che sono soltanto spargimento di sangue, eppure li facciamo lo stesso. Ed è lo stesso nella vita privata. Vogliamo il bene e facciamo il male. Ci sono anche cose che accadono malgrado tutto, malgrado la nostra libertà e volontà, perché c’è qualcosa di più forte, il fato, come lo chiamavano i greci, la forza nascosta che sta dietro le cose.

Sul Corriere ha parlato delle «due grandi possibilità» dopo la morte.
O la morte è la fine di tutto o la vita dopo la morte è eterna. Noi abbiamo paura dell’eterno, perché - visto con la misura di chi vive su questa terra - è una ripetizione sempre identica, senza tempo, senza spazio. Se questo fa paura, allora la morte diventa una specie di liberazione. Ma qui si apre un’altra questione: la possibilità che tutto finisca distruggerebbe il bisogno di ciascun uomo, che è bisogno di giustizia vera. Senza un aldilà, non varrebbe la pena vivere, il senso di ogni azione umana andrebbe perduto: non potrebbe esistere neppure una società. Io non lo so come sarà. Per questo, sono in bilico.

Commentando Lo straniero di Albert Camus, riprendeva questo tema: nell’esistenza di Meursault, il protagonista, simbolo dell’uomo moderno, non c’è più trascendenza né storia e tutto si riduce a un ripetersi meccanico di fatti senza significato. Come dice Dostoevskij: «Se Dio non esiste, tutto è permesso».
Tutto è equivalente. Niente ha più valore. La stessa cosa vale se tutto finisce con la morte: è un’irrilevanza distruttiva.

Concludeva il suo intervento dicendo che l’unica cosa certa è che «noi viviamo nel mistero».
Questo bisogna riconoscerlo. Proprio perché noi abbiamo la ragione: è la ragione a dirci che noi viviamo nel mistero e il mistero è quella cosa che la ragione riconosce, ma non può perforare. Bisogna accettarlo. Però non è una brutta cosa! Il mistero, per me, è bellissimo. È impossibile per noi sapere tutto e, se anche fosse possibile, ci sarebbe insopportabile. È troppo più grande di noi la vita. Non abbiamo la capacità di sapere com’è il tutto, a partire da com’è stato creato il mondo. Saremmo obbligati ad avere la conoscenza che ha un dio. E poi il mistero è bellissimo perché la sua esistenza è all’origine dell’arte.

Ci vuole umiltà per riconoscerlo?
La verità è che il mistero è evidente. Come faccio a pensare che non ci sia un mistero, quando l’origine di noi e del mondo ci è sconosciuta? “In principio era”... Ma cos’è questo principio? È inconcepibile per noi. E il nulla, prima? Cos’è il nulla? Non possiamo nemmeno pensarlo, così come non possiamo pensare il principio. Il mistero sta proprio lì: nell’origine di tutte le cose. Quell’origine che la ragione non può risolvere: gli scienziati credono in un mondo nato da forze fisiche e naturali, ma la causa non può essere spiegata fisicamente. Il Primo Motore di tutto... Ecco perché la ragione deve riconoscere che c’è un limite e che quel limite apre al mistero. Bisogna accettarlo. Ma sa cosa le dico? Meno male che è così. È meglio non sapere che sapere, è meglio accettare il mistero anziché far finta che il mistero non ci sia perché la nostra intelligenza è più forte. Non è vero che è così. Bisogna avere la modestia - anzi la certezza - che il mistero è più forte di qualsiasi possibilità che noi abbiamo di penetrarlo.

Per lei il mistero ha un nome?
No. È mistero. Anche se lo chiamo Dio, è mistero. Non posso sondarlo. Si deve avere quella che i cattolici chiamano fede, che si riceve come un dono, come una grazia.

Che cosa c’entra il riconoscimento del mistero con la crisi umana di oggi?
Io credo che il problema più grande sia il pregiudizio. In particolare sull’altro: la non conoscenza di chi è l’altro. La maturità è, invece, saperlo e si raggiunge con la sympatheia, il soffrire insieme. Se tu ti immedesimi nella sofferenza dell’altro, lo conosci. Il pregiudizio è sempre selfish, non crede alla necessità di conoscere l’altro. Si ricordi sempre le parole di Shylock, l’ebreo del Mercante di Venezia di Shakespeare: «Se ci ferite, noi non sanguiniamo? Se ci solleticate, noi non ridiamo? Se ci avvelenate, noi non moriamo?...». Un altro ha mani e occhi come te, ha sete come te. Un altro è te.

Il problema del “pregiudizio” è anche il significato del suo libro La mosca nella bottiglia.
Quella mosca siamo noi imprigionati nella bottiglia dei pregiudizi, che nascono malgrado noi stessi, dall’ambiente in cui cresciamo, dal linguaggio, dall’educazione, da tante circostanze... Sono la bottiglia che ci rinchiude. E una persona come fa ad uscirne? Deve conoscerne la forma. Deve sapere com’è fatto il pregiudizio. È come uno che sta in un sottomarino da quando è nato e non l’ha mai visto da fuori. Conosce solo tubi, valvole, periscopi. Ci vuole molta immaginazione per sapere che il sottomarino è un sigaro che naviga sotto la superficie dell’acqua. Liberarsi dai pregiudizi presuppone un atto di conoscenza. È una cosa immane, che ci tiene occupati per tutta la vita.

Che passa per immaginazione ed esperienze?
La vita è tutta un atto di conoscenza. È una questione di cuore e di intelligenza. L’intelligenza ti dice, per esempio, che l’altro è uguale a te e allora basterebbe già riconoscere questo. Ma il nostro pensiero e il nostro agire non sempre seguono questa evidenza. Sa come si chiama? Intelligenza del cuore. Un’intelligenza che include i sentimenti. Non i sentimenti come li intendiamo di solito, ma i sentimenti come forma di conoscenza. Oggi una concezione del genere non è diffusa, perché il mondo va per le sue strade, ma noi dobbiamo orientarci.

Cosa orienta, cosa educa questa intelligenza del cuore?
La sensibilità che diventa conoscenza può non aver bisogno di maestri. È un modo di vedere la realtà che ha a che fare con l’essere personale.

Se siamo estranei al nostro essere, abbiamo bisogno di essere educati.
Questo è vero. L’educazione è una parte di ciò che occorre. È importante avere dei buoni maestri, ma la prima cosa che occorre è la nostra stessa natura, che ci insegna.

Ferito a morte si apre con l’immagine di un raggio di sole che entra dalla finestra di Palazzo Donn’Anna...
Era la finestra della mia casa di Napoli.

Lei ne ha parlato come di un imprinting.
Sono le immagini primarie che ogni scrittore ha. Quelle immagini che nascono prima della coscienza, che vengono dai sensi: il colore del mare, la chiarità della giornata, il suono delle onde tra gli scogli, il bruciore dei sassi sulla pelle... Queste immagini che arrivano dall’infanzia, quando la coscienza non le può ancora esaminare, si trasformano nel tempo in immagini mentali e cercano le parole per esprimersi. Nasce così la scrittura.

Ha detto che di quel raggio di sole in lei «è rimasto qualcosa che non riesce a sparire».
È l’attesa della bella giornata. Della felicità. Ma, come racconto in quel libro, nella giornata di sole c’è sempre un’ombra, che è il dolore. Non manca mai nella vita, è ineliminabile.

Oggi, a 92 anni, che ne è di quell’attesa?
Ciascuno di noi aspetta la bella giornata, legittimamente, tutta la vita. Anzi, è la volontà stessa di vivere. È la causa della vita, quell’attesa: una speranza che noi nutriamo, altrimenti l’esistenza sarebbe inutile viverla. Quello che ci tiene in vita è l’attesa: non deve finire mai, saremmo morti. Se faccio i conti con la mia vita oggi, io mi sento come un frutto che sta sull’albero e che tra poco, credo, data l’età, cadrà. Se uno arriva a conseguire tutte le possibilità che erano in lui e, come un frutto maturo, cade e muore, è un premio di vita raggiunta. Io mi giudico favorito dalla sorte, perché sto finendo di maturare sull’albero. È la più grande aspirazione: che il frutto maturi. Che quando cade, cada perché è maturo.