Una passata edizione dei Colloqui Fiorentini

Quando vale la pena

Tra le pieghe dello studio e al cuore degli autori. Alcuni prof raccontano come i Colloqui Fiorentini, che iniziano il 17 marzo, fanno esplodere le domande e le ferite dei ragazzi. Dialogo su un metodo e la sua origine (da Tracce di marzo)
Paolo Perego

«Prof, sono stato dallo psicologo. Gli ho parlato delle domande che ho scoperto nel lavoro che abbiamo fatto. Mi ha detto di lasciare stare, di non pensarci. Che di lì si arriva al suicidio. Ma io non posso lasciar perdere, se serve a farmi scoprire il senso della vita». Parole di un liceale a un insegnante, commentando i mesi di preparazione al convegno dei Colloqui Fiorentini, dedicati quest’anno a Dino Buzzati.

Dei Colloqui abbiamo raccontato già in queste pagine. Targata Diesse Firenze e Toscana, è una proposta di lavoro sulla letteratura italiana, rivolta agli studenti delle superiori: ogni anno su un autore differente, si approfondisce in classe e per gruppi la lettura delle opere. Un percorso che sfocia in un convegno che fino alla pandemia si svolgeva a Firenze e quest’anno sarà in streaming dal 17 al 19 marzo. Questo a grandi linee. Ma grandi sono anche i numeri: in 21 edizioni si è passati da poco meno di cinquecento iscritti a oltre quattromila, tra ragazzi e professori. Numeri che sono rimasti alti nonostante l’impossibilità di fare il convegno in presenza dal 2020 e con gli studenti stretti tra lockdown e Dad.

I Colloqui sono un punto privilegiato di osservazione di un pezzo di mondo, quello dei ragazzi a scuola, nel caos di questi due anni. Ma non solo: quanto più ci si addentra nelle esperienze di chi partecipa al convegno, tanto più ci si accorge di come queste siano un punto luminoso rispetto a tutto ciò che si dice sui ragazzi: suicidi, depressioni e ansie, «con le loro domande più volte ridotte a patologie da curare o anestetizzare», dice Pietro Baroni, professore di Italiano e direttore dei Colloqui, durante un dialogo con alcuni professori coinvolti.



Sara Aprili insegna in un linguistico di Grosseto: «Una mamma ha raccontato che se sua figlia durante il primo lockdown smaniava per tornare a scuola, già a ottobre del 2020, con la seconda Dad, quella voglia era sparita. Come se non valesse più la pena». Ma per tanti studenti è lo stesso: «Qualche giorno fa un ragazzo ha tentato il suicidio. Una collega, con cui da anni a scuola seguiamo i Colloqui, si è trovata in classe una sua amica. Era disperata. Ma quante volte ci capita di incontrare in aula le ferite dei ragazzi?». E la scuola, dice, di solito reagisce in due modi: o sono questioni da risolvere con gli psicologi, ché in classe bisogna solo stare sui programmi, oppure l’insegnante di buona volontà può portare in corridoio il ragazzo e provare ad aiutarlo. «In entrambi i casi, pare siano problemi che non hanno a che a fare con i banchi di scuola», spiega Sara: «Mentre i Colloqui sono un modo di stare con i ragazzi che scommette tutto su te e loro, dentro ciò che si affronta ogni giorno tra libri e lavagne». Così la collega di Sara a quella ragazza fa leggere proprio un brano di Buzzati: «Nel racconto Vivono come se, si parla di uomini che non hanno nulla di eccezionale in apparenza, ma che hanno la grande attesa di qualcosa che “non sanno bene”, ma che c’è: “Come se dovesse arrivare una grande notizia che però nessuno sa. Come se fuori stesse imperversando la bufera, che tuttavia nessuno nomina. Come se uno dei presenti dovesse, poniamo, partire il giorno dopo per la Luna, ma l’argomento è tabù e non viene sfiorato neppure. Come se ci fosse l’amore. Intendo dire che in certe persone, in certe famiglie, in certi ritrovi, in certi angoli delle società, fortunati, esiste una segreta e inconsapevole tensione (…), per cui gli atti e le parole più banali acquistano una forza e un gusto straordinari”». Buzzati diventa amico, dice Sara, «perché si scopre che le ferite di cui parla sono quelle di ciascuno».

«I Colloqui nascono da persone che vivono l’esperienza di CL», chiosa Baroni. E parla del tentativo – di suo padre Gilberto, professore anche lui e iniziatore del convegno, e poi suo e di altri – «di verificare se la proposta cristiana di don Giussani, il suo sguardo all’uomo, fosse il modo più adatto di vivere anche l’insegnamento e diventarne la chiave». Come una scommessa, aggiunge: «Insegnare italiano – ma vale per tutto – può aiutare noi stessi e i ragazzi a riconoscere il nesso originale tra l’uomo e il suo destino? Se ho uno studente che sta vivendo un momento doloroso o che semplicemente sta vivendo, perché il punto è la vita, io non posso stargli davanti svolgendo la mia lezione come se nulla fosse. E neppure ripiegare fuori dall’aula. Insegnando Ariosto, Manzoni, Leopardi devo poter stare anche di fronte a un suicidio. Se non è così, perdo in partenza. E per un ragazzo, allora sì, “non vale la pena”».

Non perde in partenza Elvira Sasso, che insegna nel Casertano, a Sessa Aurunca: «Parliamo di un metodo. E io l’ho imparato anno dopo anno, dalla prima volta 14 anni fa». Ma, sottolinea, «tu puoi fare una proposta del genere solo se la scopri vera per te. E in una compagnia di amici che la vivono con te. È solo dentro questo rapporto che io insegno ai ragazzi e che scopro come la letteratura è una finestra sulla mia sensibilità, sul mio io, sulla mia umanità». I ragazzi se ne accorgono. E la seguono. E sebbene ci siano colleghi che pensano che i ragazzi abbiano sempre aderito solo per la “gita a Firenze”, anche con la modalità web sono sempre tanti. «Alcuni studenti mi hanno scritto contenti di essere diventati più amici fra loro, uno di aver vinto la sua timidezza, l’altra mi ringraziava per averla fatta innamorare di Buzzati: “Per fortuna al mondo ci sono persone come lei”. E mi ha fatto pensare, perché quello che ha vissuto lei non l’ho fatto io».

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Diego Picano, prof di Lettere in un liceo del Frusinate, aggiunge: «Quando è arrivato il Covid, ho visto gli adulti andare in crisi ancor prima dei ragazzi». E le domande stringenti sono arrivate anche per lui, in quel marzo 2020: «Avevo sempre vissuto il mio lavoro con entusiasmo, dai Colloqui al quotidiano in classe. Cosa mi era chiesto in quel momento? Sono tornato a quella scintilla che aveva acceso in me il desiderio di insegnare, l’incontro con un professore grazie a cui avevo scoperto che nei testi della letteratura c’era l’uomo con tutte le sue domande. Mi mostrava che il motivo per cui lavoriamo è perché cresca l’umanità nostra e loro». Non poteva che essere questo il cuore del fare compagnia ai ragazzi, anche in Dad: «I Colloqui in questi anni sono stati una palestra. Fare scuola non è solo seguire il programma in vista delle interrogazioni. Piuttosto, aiutare i ragazzi a scoprire che in un testo ci sono tutti i bisogni e la ricerca che hanno loro… In questo ci si fa compagnia». E uno magari leggendo Buzzati ti dice: «Ho scoperto che non devo avere paura del mistero che siamo. E neanche il Covid, così, fa paura».

Genovese trapiantata in un liceo in provincia di Padova, Cristina Vallebona, racconta la fatica di ricominciare a settembre: «Ancora restrizioni, Dad…». Ma a volte sono proprio i ragazzi ad aiutarti, dice, raccontando di una studentessa, neppure sua allieva quest’anno, che decide di partecipare ancora ai Colloqui: «Mi ha sempre colpito per la sua profonda sensibilità. Lavorando su Buzzati, dopo la tesina, ha preparato un quadro per partecipare alla sezione artistica dei Colloqui». Il disegno rappresenta un volto dal quale se ne liberano altri che urlano. «Insieme ha riportato una citazione in cui Buzzati descrive il sentirsi in trappola nella vita. E lei commenta: “Quante volte avrei voluto urlare al mondo il mio dolore, la mia rabbia. Chi mi avrebbe capita? Chi mi avrebbe accolta a braccia aperte? Finalmente urlo, con questo dipinto, lungamente meditato. Parla di Antonio, di Laura. Di Buzzati. Di me”».
Se da un lato è bello e fondamentale «rimettere in mano ai ragazzi certe domande perché sono buone», dice Cristina, «dall’altro è drammatico. Mi viene in mente il rischio educativo di cui parla don Giussani. Bisogna fare compagnia alla loro libertà. E occorre un luogo dove possano porre quelle domande».

Sì, ci sono gli psicologi «con la fila fuori dagli studi», racconta Laura Cafferata da Chiavari. Un panorama uguale ovunque. «E tu proponi i Colloqui. Perché? Te lo chiedi. Ma perché lì si arriva a parlare della bellezza della vita. Come faceva il mio prof di religione del movimento, leggendomi Leopardi in un modo che sembrava parlasse di me. Per questo ho deciso di fare Lettere e insegnare». I lavori dei Colloqui sono stati l’unico evento in presenza nella sua scuola: «I ragazzi avevano il desiderio di stare insieme. E hanno raccontato le loro scoperte nelle tesine».

«Volevano vedere te, non solo vedersi tra loro», le replica Baroni: «Non perché tu sei in grado di produrre chissà cosa… Ma perché hanno riconosciuto che tu vivevi quello che proponevi a loro. Non si tratta di fare progetti». Parla dell’essere maestri, dell’avere a cuore anzitutto il proprio umano davanti a chi si educa: «La scuola oggi, generalizzando, rischia di essere il luogo del più grande tradimento dei giovani: un luogo del “non senso”». Cioè, l’opposto dell’introduzione al senso della realtà: «È l’alternativa tra il ridurre la Divina Commedia alle figure retoriche o alla metrica, oppure incontrare Dante, il suo cuore, la sua umanità. E capire se e come c’entra con il mio io». E non è colpa della pandemia: «Il Covid ha solo smascherato qualcosa che c’era prima. Ora il “il re è nudo”. Per questo vale la pena riprendere don Giussani. Non difendeva la scuola in quanto tale, ma l’educazione, qualcosa dentro la scuola».