Scuola. L'alternanza funziona?

Ha ragione chi scende in piazza oppure è utile? E se è utile, perché? Anche nei licei? Più di un milione di studenti oggi sono “obbligati” a un periodo nel mondo del lavoro. Tra luci e ombre, ecco cosa abbiamo visto (da Tracce di dicembre)
Paolo Perego

Stefano, quinto anno del corso per informatici dell’Itis Pininfarina di Moncalieri, nel Torinese, ha sviluppato un modulo per far funzionare una videocamera sull’ala di un velivolo all’Aeroclub di Collegno. Giulia, liceo delle Scienze umane all’Isis Campanella di Lamezia Terme, racconta della creazione di un’impresa per la vendita di riproduzioni in ceramica di manufatti magnogreci del V secolo, realizzati da lei e dai suoi compagni dopo una formazione “a bottega” con artigiani locali. Ancora, Aurora e Federico, liceo scientifico Farnesina di Roma, impegnati a Mumbai, in India, a discutere con colleghi da tutto il mondo in un progetto di simulazione di diplomazia internazionale Onu, oltre che a scavare terra e costruire mattoni in un villaggio alla periferia della città indiana. Anche Michele studia a Roma, al Convitto Vittorio Emanuele II, ed è “finito” in Cina durante una collaborazione con Huawei...

E si potrebbe andare avanti coi racconti fino ad arrivare a 1 milione e 300mila storie, tanti sono gli studenti italiani impegnati sul fronte dell’alternanza scuola-lavoro. Di cosa si tratta è presto detto. Una attività curricolare inserita nei percorsi scolastici dalla legge 107/2015, la “buonascuola”: 200 ore per i licei e 400 per i tecnici e i professionali che i ragazzi devono trascorrere nel mondo del lavoro, soggette a valutazione e, dall’anno prossimo, parte integrante dell’esame di maturità.

Funziona? E se funziona, è utile? «Vogliamo studiare, non lavorare», gridavano alcuni studenti tirando uova contro un McDonald’s, azienda coinvolta nel quadro dell’alternanza assieme ad altre 200mila strutture (il 64% sono imprese). Va bene i tecnici e i professionali, ma «cosa c’entrano le patatine con il classico o un’azienda agricola con lo scientifico? Che senso ha mettere l’alternanza a percorsi educativi in azienda a persone che hanno come obbiettivo l’università?». Le obiezioni che sono finite in piazza, come lo sfruttamento da parte di alcune aziende, che incassano i voucher banditi ad hoc dalle Camere di Commercio senza fornire una tutela adeguata; ancora, le situazioni dove si fa tutto tranne che un’esperienza formativa e con mansioni non adatte. E ancora, i soldi buttati in progetti inutili.

Sono 1,3 milioni gli studenti del triennio coinvolti nell'alternanza nel 2017/18


«Ci sono problemi, è vero. Ma la questione è culturale, ovvero se la conoscenza è solo quella che “accade” tra le quattro mura della scuola o se può avere anche una natura esperienziale, nell’impatto con la realtà», replica il sottosegretario all’Istruzione, Gabriele Toccafondi: «Che non sarebbe stato facile lo sapevamo. Abbiamo preso qualcosa che c’era già - fino al 2015 avevamo il 14% delle scuole che proponevano forme di alternanza a 200mila studenti - e lo abbiamo allargato a tutti. Come opportunità. Poi vero, ci sono ancora dei coni d’ombra». Scuole inserite in contesti territoriali dove ci sono poche opportunità, per esempio. O il rafforzamento necessario alla tutela degli studenti, contro lo sfruttamento. «Ma sono molti di più i punti di luce. E si dovrebbero guardare quelli, tantissimi. Mentre alcuni vorrebbero spegnere tutto per “livellare al buio”».


A Piacenza, Mauro Monti è preside dell’Istituto superiore di istruzione industriale Marconi, 180 docenti per 1500 studenti divisi fra ragionieri, manutentori, chimici, informatici e altri indirizzi: «Un terzo di loro sono impegnati nell’alternanza, concentrata per il 50% al quarto anno». Le esperienze? «Abbiamo aperto 350 convenzioni con aziende qua intorno. C’è chi ha dato addirittura una commessa intera ai ragazzi, altri hanno collaborato alla stesura del curriculum del corso per periti logistici e ci hanno aiutato ad avviarlo. E dove non abbiamo trovato opportunità, ce le siamo inventate». Con i chimici, per esempio, chiamati a elaborare cosmetici in un laboratorio e “costretti” a interfacciarsi con budget e costi dei colleghi ragionieri. «Le difficoltà più grandi, alla fine riguardano i professori, che magari pensano a un impegno in più che rallenta i programmi e non c’entra, e la scuola, che deve organizzare e provvedere a che tutto funzioni per il meglio, con dei tutor, per esempio, ma anche trovando e valutando nuove opportunità. Per i ragazzi è una crescita, lo vedi: è un momento di scuola, un metodo di apprendimento che ha una forma diversa, ma è in continuità. Imparano la puntualità, cosa voglia dire avere una scadenza o avere un capo. Ho avuto casi di ragazzi che si sono portati il lavoro a casa perché avevano delle consegne da rispettare». Perché ci tenevano, sottolinea. Non sfruttati: «Erano fieri, stavano facendo qualcosa di importante. E questo li cambia. E cambia la scuola, perfino i professori reticenti. Perché dopo queste esperienze i ragazzi tornano a scuola...».

Una manifestazione di studenti contro l'obbligo dell'alternanza

Ma perché il mondo del lavoro dovrebbe spendersi per accogliere gli studenti, sobbarcandosi anche costi? Basta pensare a cosa voglia dire incaricare un tutor aziendale, un dipendente, di seguire i ragazzi. Eppure, le multinazionali, soprattutto quelle centro-europee, più abituate, hanno accolto di buon occhio il progetto fin da subito. Le grandi aziende italiane lo vedono come un fattore sociale positivo. Ma anche tra le piccole, dove le difficoltà potrebbero essere maggiori, tanti imprenditori hanno aderito. «C’è la possibilità di aiutare i ragazzi, di comunicare passioni. E poi l’effetto positivo sui dipendenti: in tanti lo hanno raccontato», spiega ancora Monti: «Magari non trovano un vantaggio “diretto”, ma intuiscono che l’alternanza fa bene al sistema in cui operano». E lo confermano alcuni imprenditori che nel Termolese hanno preso a bottega dei ragazzi per la formazione professionale. Angelo, per esempio, officina meccanica: «Ero scettico. Cosa venivano a fare? Ma poi ho iniziato a vedere i risultati di quello che facevano. E che soddisfazione insegnargli qualcosa...». O Anna Maria, parrucchiera, titolare di salone nella cittadina molisana: «Qui imparano il rapporto con le clienti. Perché il nostro lavoro non è solo la tecnica».

Ma l’alternanza non è solo “avvitare bulloni in fabbrica”. «Uno dei concetti alla base della 107 è che gli studenti inizino a impattarsi con il mondo del lavoro», dice ancora Toccafondi. Ci sono i servizi, le cooperative, il volontariato. Un liceo romano fa alternanza al Ministero». A Napoli, al classico Vittorio Emanuele II, è partita una collaborazione con l’Istituto nazionale di Fisica nucleare e con il Cern rivolta agli studenti del terzo e quarto anno, in un progetto che ha coinvolto 38 scuole, per un totale di 2750 studenti. «C’era diffidenza all’inizio, tra genitori, docenti e studenti», commenta la Preside della scuola napoletana: «L’obiezione era che non potesse essere una parte strutturante dell’offerta formativa, ma estranea, scollegata dai saperi fondanti del liceo classico. Non ci siamo arresi e siamo riusciti a dimostrare come esperienze di questo tipo vadano ad arricchire quel bagaglio di soft skills, necessario per la formazione di studenti». L’altra voce in capitolo è quella del responsabile del progetto dell’Infn: «È stato difficile, ci ha impiegato tempo e risorse. Ma talmente utile e significativo per noi che vorremmo aumentare il numero di studenti da coinvolgere». Stesso trend a Torino, per il classico D’Azeglio, impegnato nella promozione della Venaria Reale. O a Lecco, con il paritario Leopardi alle prese con tante realtà imprenditoriali del territorio per la creazione di servizi al cliente. Ancora, a Catania, dove gli “scienziati” del Galilei si sono adoperati nella stamperia regionale Braille per la produzione di materiali per non vedenti. E ci sono i 120 studenti veneti, anche di istituti tecnici, chiamati a spiegare una mostra itinerante sugli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni di Padova...


Perfino quando tutto sembra remare contro, può splendere una luce. A Castrovillari, nell’Alto Cosentino, Carla Bonifati, insegnante in pensione da poco, si è occupata dell’alternanza nel suo liceo scientifico, il Mattei, uno dei migliori della regione negli ultimi ranking di Eduscopio, la ricerca della Fondazione Agnelli. «Il tessuto imprenditoriale intorno è quello che è, con piccole aziende agricole, mentre le opportunità più interessanti sono a 50 chilometri». Ma l’alternanza si deve fare. «Abbiamo dovuto inventarci qualcosa. Non per tappare un buco o riempire delle caselline, ma partendo dal fatto che poteva essere un’opportunità». Un pensiero non condiviso da tutti i professori, spiega, ma si è provato: «Siamo partiti dal territorio, dal nostro patrimonio artistico, simulando dei progetti di valorizzazione con strumenti, budget e promozione, coinvolgendo anche il liceo linguistico». Vero, sempre in classe, a parte poche uscite. E questo forse è un di meno. «Ma di fronte al fatto che andava fatta, io mi sono sentita chiamata in causa a “muovermi” perché potessimo fare il meglio per questi ragazzi. Un’occasione per me, innanzitutto. E per tanti studenti è stata la possibilità di scoprire cose che non sapevano della loro terra e di appassionarsi».

«Non è solo questione di imparare il mestiere, ma anche di vedere cosa vuol dire “lavoro”», dice Stefano, del Pininfarina di Moncalieri. Non sono pochi quelli a cui è capitato di sentirsi dire, dopo il periodo in alternanza, di ritornare per un colloquio: «A me hanno fatto capire che mi prenderebbero subito», dice Federico, che a Moncalieri è all’ultimo anno di Automazione e che ha realizzato, nel suo periodo in azienda, un’interfaccia perché i dipendenti possano gestire meglio alcuni processi: «Ma io avevo già in mente di fare l’università. Stare al lavoro mi ha confermato in questa decisione». Non perché fosse brutto, ma per fare ancora meglio.

«Questa è una speranza», chiosa il preside Monti di Piacenza: «Dei ragazzi e di tutti. Un noto pedagogista una volta ha detto che sui giovani di oggi “grava una profezia negativa per il futuro”. Qui invece, nell’alternanza ben fatta, si impattano con la realtà, con adulti che costruiscono, che lavorano e che li accompagnano. E quel futuro inizia a cambiare faccia».