Dall'utopia alla presenza

Parola tra noi
Luigi Giussani

Appunti da una conversazione di Luigi Giussani con un gruppo di universitari. Riccione, ottobre 1976


In un momento di forte pressione culturale, sociale e politica a riguardo della natura del cristianesimo, riproponiamo questo testo per l’attualità e la chiarezza di giudizio sulle ragioni di una presenza cristiana, che non si qualifica per reazione, ma per una originalità di proposta


Il problema che dobbiamo affrontare quest’anno può essere formulato così: bisogna che noi riusciamo a capire l’opposizione esistente tra due parole - “presenza” e “utopia” - e la scelta che operiamo della prima. Il destino della nostra comunità, come efficacia dentro l’università e dentro la società, dipende dal privilegio della presenza contro la tentazione dell’utopia.


I - Presenza è realizzare la comunione.
Innanzitutto, la nostra, in università, non può essere una presenza reattiva. Reattiva significa determinata dai passi di ciò che non è noi: porsi con iniziative, utilizzare discorsi, realizzare strumenti non generati come modalità totale dalla nostra personalità nuova, ma suggeriti dall’uso di parole, dalla realizzazione di strumenti, dalla modalità di atteggiamento e di comportamento degli avversari, ovvero di coloro che cercano di creare un mondo umano non secondo Cristo e perciò obiettivamente secondo una menzogna, a prescindere dai loro intendimenti.


Una presenza reattiva non può che cadere in due errori: o diventa una presenza reazionaria, attaccata cioè alle proprie posizioni come “forme”, senza che i contenuti - le motivazioni, le radici - siano così chiari da essere resi vita (il reazionario è sempre, poco o tanto, formalista); oppure, se non è reazionaria, una presenza reattiva cade nell’eccesso opposto, tende cioè a diventare mimesi, imitazione degli altri; e ciò costituisce il primo e fondamentale cedimento nei loro confronti (è come giocare in casa loro, accettando la lotta secondo le loro modalità).


Occorre dunque una presenza originale, una presenza secondo la nostra originalità. Il diritto ad esistere e ad agire dovunque e comunque non viene dal seguire le modalità altrui, ma da quello che siamo.


Una presenza è originale quando scaturisce dalla coscienza della propria identità e dall’affezione ad essa, e in ciò trova la sua consistenza.


II - Identità è sapere chi siamo e perché esistiamo, con una dignità che ci dà il diritto a sperare dalla nostra presenza “un meglio” per la nostra vita e per la vita del mondo. Ma chi siamo per avere il diritto a questa speranza, senza della quale la nostra vita scade in un borghesismo bieco - il cui criterio supremo è l’assicurazione contro il rischio - o nello scialbore di un’insoddisfazione che presto si trasforma in lamento o in accusa agli altri?


«Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, perché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete immedesimati con Cristo. Non c’è più né giudeo né greco; non c’è più né schiavo né libero; non c’è più né uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,26-28). Non ho mai citato un altro brano più volte di questo (salvo uno: «Chi mi segue avrà la vita eterna e il centuplo quaggiù»; Mt 19,29).


«Voi che siete stati afferrati, vi siete immedesimati con Cristo»: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15,16). È una scelta oggettiva che non ci strappiamo più di dosso, è una penetrazione del nostro essere che non dipende da noi e che non possiamo più cancellare. «Tutti voi che siete stati battezzati, vi siete immedesimati con Cristo»: perciò non esiste più alcuna differenza tra voi, «né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna. Tutti voi siete uno in Cristo Gesù»: questa è l’identità nostra. La Lettera agli Efesini dice testualmente: «Siamo membra gli uni degli altri» (Ef 4,25).


Non esiste niente di culturalmente più rivoluzionario di tale concezione della persona, il cui significato, la cui consistenza è una unità con Cristo, con un Altro, e, attraverso questa, una unità con tutti coloro che Egli afferra, con tutti coloro che il Padre Gli dà nelle mani.


La nostra identità è l’essere immedesimati con Cristo. L’immedesimazione con Cristo è la dimensione costitutiva della nostra persona. Se Cristo definisce la mia personalità, voi, che siete afferrati da Lui, entrate necessariamente nella dimensione della mia personalità. È questa la «creatura nuova» del finale bellissimo della Lettera ai Galati (Gal 6,15), o l’inizio della «creazione nuova» di cui parla san Giacomo (Gc 1,18).


«Questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede», dice Giovanni (1Gv 5,4): la fede vince il mondo, cioè dimostra la sua verità su tutte le ideologie e concezioni, su tutti i modi di sentire l’umano, perché è la verità strutturale per cui il mondo è stato fatto. È la verità che si manifesterà e si instaurerà compiutamente alla fine, ma è il fattore che urge la storia ora e catalizza il bene nel mondo, permettendo al mondo di essere più umano.


Sia che mi trovi da solo nella mia stanza, sia che ci troviamo in tre a studiare in università, in venti alla mensa, ecc., dovunque e comunque questa è la nostra identità. Il problema è perciò l’autocoscienza, il contenuto della coscienza di noi stessi: «Vivo, non io, sei Tu che vivi in me» (cfr. Gal 2,20). Questo è il vero uomo nuovo nel mondo - l’uomo nuovo che fu il sogno di Che Guevara e il pretesto mentitore di rivoluzioni culturali con cui il potere ha tentato e tenta di aver in mano il popolo, per soggiogarlo secondo la propria ideologia; e nasce innanzitutto non come coerenza, ma come autocoscienza nuova.


III - La nostra identità si manifesta in un’esperienza nuova dentro di noi e tra di noi: l’esperienza dell’affezione a Cristo e al Mistero della Chiesa, che nella nostra unità trova la sua concretezza più vicina. L’identità è l’esperienza viva dell’affezione a Cristo e alla nostra unità.


La parola “affezione” è la più grande e comprensiva di tutta la nostra espressività. Essa indica molto più un “attaccamento” che nasce dal giudizio di valore - dal riconoscimento di quello che c’è in noi e tra di noi - che una facilità sentimentale, effimera, labile come foglia in balia del vento. E nella fedeltà al giudizio, cioè nella fedeltà alla fede, con l’età, tale attaccamento cresce, diventa più turgido, vibrante e potente. «Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo, e di essere trovato in Lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede» (Fil 3,7-9).


Questa esperienza viva di Cristo e della nostra unità è il luogo della speranza, perciò della scaturigine del gusto della vita e del fiorire possibile della gioia - che non è costretta a dimenticare o a rinnegare nulla per affermarsi; ed è il luogo del recupero di una sete di cambiamento della propria vita, del desiderio che la propria vita sia coerente, muti in forza di quello che essa è al fondo, sia più degna della Realtà che ha “addosso”.


Dentro l’esperienza di Cristo e della nostra unità vive la passione per il cambiamento della propria vita. Ed è il contrario del moralismo: non una legge cui essere adeguati, ma un amore cui aderire, una presenza da seguire sempre di più con tutto se stessi, un fatto dentro il quale realmente naufragare. «Chiunque ha questa speranza in Lui, purifica se stesso, come Egli è puro» (1Gv 3,3). La Lettera ai Filippesi è ancora più appassionata: «Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo» (Fil 3,12). Il desiderio del cambiamento di sé, pacato, equilibrato, e nello stesso tempo appassionato, diventa allora una realtà quotidiana - senza ombra di pietismo o di moralismo -, un amore alla verità del proprio essere, un desiderio bello e scomodo come una sete.


Queste osservazioni quasi furtive scendono a toccare il cuore di coloro, tra voi, che già hanno cominciato ad andare per questo cammino. È in fondo quello che in L’Annuncio a Maria, esclamava Anna Vercors: «Vivo sulla soglia della morte e una gioia inesplicabile è in me» (P. Claudel, L’Annuncio a Maria, Bur 2001, p. 186). È ciò che molti di noi hanno già cominciato a sentire, che è già parte di una esperienza nuova: «Vivo alle soglie della morte», alle soglie della menzogna (che è peggio della morte fisica), alle soglie del male e del dolore, del disumano, eppure «una gioia inesprimibile è in me».


IV - Ma noi non costruiamo quella presenza - che scaturisce dalla coscienza della nostra identità e dall’affezione ad essa -, siamo ancora confusi.


Siamo insieme per un inizio di accento vero, che ci ha percosso quando abbiamo incontrato la comunità. Quello che ci unisce, anche se tenace, è ancora piccolo ed embrionale, costruito dall’impressione provocata in noi dall’accento di verità dell’incontro che abbiamo fatto. Tutto è rimasto ancora agli inizi, e deve diventare maturo, altrimenti il Signore può permettere che la tempesta del mondo lo travolga.


È venuto il momento in cui non possiamo più resistere se quell’accento iniziale non diventa maturo: non possiamo più portare da cristiani l’enorme montagna di lavoro, di responsabilità e di fatiche a cui siamo chiamati. Non si coagula, infatti, la gente con delle iniziative; ciò che coagula è l’accento vero di una presenza, che è dato dalla Realtà che è tra noi e che abbiamo “addosso”: Cristo e il Suo Mistero reso visibile nella nostra unità.


Proseguendo nell’approfondimento dell’idea di presenza, occorre allora ridefinire la nostra comunità. La comunità non è un coagulo di gente per realizzare iniziative, non è il tentativo di costruire una organizzazione di partito: la comunità è il luogo della effettiva costruzione della nostra persona, cioè della maturità della fede.


Scopo della comunità è generare adulti nella fede. È di adulti nella fede che il mondo ha bisogno, non di bravi professionisti o di lavoratori competenti, perché di questi la società è piena, ma tutti sono profondamente contestabili nella loro capacità di creare umanità.


V - Il metodo con cui la comunità diventa luogo di costruzione di maturità della fede per la persona è indicato dalla prima parola che abbiamo usato nella storia del nostro movimento (che abbiamo dimenticato, anche quando la ripetiamo, poiché non la ripetiamo seriamente): “seguire.


Dio creatore e redentore, nell’originalità naturale e nel mistero della vita nuova che Cristo ha portato, non conosce altro metodo per far crescere l’uomo se non il metodo della sequela. «Mentre camminava lungo il mare di Galilea vide due fratelli, Simone chiamato Pietro e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in mare, poiché erano pescatori. E disse loro: “Seguitemi, vi farò pescatori di uomini”» (Mt 5,18-19); «Gesù, vedendo che lo seguivano, disse: “Che cosa cercate?”. Gli risposero: “Maestro, dove abiti?”. Disse loro: “Venite e vedrete”» (Gv 1,38-39).


Seguire vuol dire immedesimarsi con persone che vivono con più maturità la fede, coinvolgersi in un’esperienza viva, che “passa” (tradit - tradizione) il suo dinamismo e il suo gusto dentro di noi. Questo dinamismo e questo gusto passano in noi non attraverso i nostri ragionamenti, non al termine di una logica, ma quasi per pressione osmotica: è un cuore nuovo che si comunica al nostro, è il cuore di un altro che incomincia a muoversi dentro la nostra vita.


VI - Da qui sorge l’idea fondamentale della nostra pedagogia dell’autorità: veramente autorevoli per noi sono le persone che ci coinvolgono con il loro cuore, con il loro dinamismo e con il loro gusto, nati dalla fede. Ma autorevolezza reale è allora la definizione dell’amicizia.


L’amicizia vera è la compagnia profonda al nostro destino, al destino del nostro volto. E non è questione di temperamento - ve ne può essere uno più effusivo e uno più discreto e cauto -: l’amicizia vera si sente nel cuore della parola e nel gesto della presenza.


VII - Il nostro borghesismo si vede ad occhio nudo. Il borghesismo è, infatti, la non radicalità con cui percepiamo il rapporto con Cristo. Se lo percepissimo con radicalità, il nostro rapporto con Cristo giudicherebbe tutto: quello che siamo, quello che facciamo, la vita della comunità, la notizia del giornale, l’ambiente universitario. E lo giudicherebbe come l’aratro che ferisce la terra perché il seme vi penetri e dia frutto: il giudizio di Dio è il rinnovamento generato dallo Spirito; e infatti il giudizio finale di Dio sul mondo è il Paradiso.


È necessario che cominciamo a prendere sul serio la fede come “reagente” sulla vita concreta, in modo tale che siamo condotti a vedere l’identità tra la fede e l’umano reso più vero - nella fede l’umano diventa più vero, l’uomo raggiunge vera proporzione al suo destino -. Così, ad esempio, il rapporto uomo-donna vissuto nella radicalità del rapporto con Cristo, cioè secondo la fede, è reso vero, viene a galla con la sua esigenza di verità e di unità, di fedeltà e di permanenza nel tempo: allora noi siamo contro il divorzio, perché esso è menzogna sulla possibilità e sulla capacità di amore. Così l’atteggiamento di fronte alla vita secondo la radicalità della fede diventa rispettoso della persona e della dignità del suo destino: allora noi siamo contro l’aborto, perché se c’è già una vita umana, sebbene nascosta nel seno della madre, essa è pienamente degna di rispetto.


Tutto ciò deve diventare vero in noi, ed è per questo che il tempo ci è dato. La ricerca del vero è l’avventura per cui il tempo è reso storia, come già accennava san Paolo ai saggi dell’Areopago di Atene, quando indicava come unico senso per cui tutti i popoli si muovono (e quelli che erano allora movimenti territoriali sono ora movimenti ideologici) la ricerca di Dio «come a tentoni» (At 17,26-28).


Se rimeditiamo quanto detto, comprendiamo anche - concretamente - la nostra scelta metodologica: dobbiamo essere presenza, dobbiamo cioè costruire questo pezzo di umanità nuova in cammino là dove siamo. Per questo esistiamo, e per nient’altro; perché per fare gli ingegneri, i medici, i padri o le madri di famiglia, non sarebbe occorso l’avvenimento misterioso che ci ha investiti.


VIII - La nostra tentazione è l’utopia.


Intendo per utopia qualcosa - ritenuto buono e giusto - da realizzare nel futuro, la cui immagine e il cui schema di valori sono creati da noi. Voglio in proposito accennare alla storia del nostro movimento.


Noi abbiamo vissuto questi ultimi dieci anni dentro una provocazione imponente di tipo sociale e politico; questo ci ha fatto lentamente scivolare sulla china del riporre la nostra speranza e la nostra dignità in un “progetto” generato da noi, senza che esso esprimesse un corrispondente approfondimento di vita.


L’inizio del nostro movimento è di estrema significanza (per capire una storia bisogna sempre guardarne l’origine). Nel 1954 siamo entrati di schianto nella scuola statale, che non era ancora marxista - anche se i marxisti già facevano clima da tante parti -, ma sostanzialmente liberale e quindi laica e anticristiana, come la scuola marxista che ne è diretta conseguenza.


Noi non siamo entrati nella scuola cercando di formulare un progetto alternativo per la scuola. Vi siamo entrati con la coscienza di portare Ciò che salva l’uomo anche nella scuola, che rende umano il vivere e autentica la ricerca del vero, cioè Cristo nella nostra unità. Ed è successo che in forza di questa passione abbiamo realizzato anche una interpretazione nuova (che allora chiamavamo “revisione”) dei contenuti di storia, di filosofia, di letteratura, che ha rappresentato per i ragazzi la vera alternativa all’interpretazione liberal-marxista dominante nelle classi: abbiamo realizzato un progetto alternativo senza porci lo scopo di realizzarlo. Il nostro scopo era la presenza.


La storia del movimento incominciò ad annebbiarsi nel ’63-’64, fino alle tenebre del ’68, che fece esplodere le conseguenze di quei cinque o sei anni in cui l’influsso di certe persone aveva capovolto la situazione originale e reso scopo del nostro muoverci non la presenza nella scuola, ma un progetto d’attività sociale. Così la densità, l’identità stessa della nostra presenza si smarrì.


Nel ’68, soltanto un certo gruppo rimase, irrigidito, non sapendo che cosa dire; ma l’influsso determinante su tutto il movimento di Gioventù Studentesca fu nel senso distruttivo. Di fronte a proposte sociali, culturali e politiche alle quali il livello cui si era giunti non sapeva rispondere, e che, d’altra parte, venivano sentite con estrema ammirazione - l’unica cosa che ormai si stimava era il progetto culturale e politico -, i più scivolarono e tradirono.


Che cosa tradirono? La presenza. Il progetto aveva sostituito la presenza, l’utopia l’aveva scalzata. Ciò che avvenne dal ’63-’64 fino allo scoppio del ’68 fu un processo di adattamento e di cedimento all’ambiente: si realizzò una presenza reattiva, dunque non più una presenza vera e originale.


Nel ’69 alcuni intuirono e ripresero - per fedeltà del cuore - l’idea iniziale: «Noi dobbiamo essere presenza, perché la comunione con Cristo e tra noi è la liberazione; dobbiamo perciò di nuovo rendere presenza la nostra comunione». Ma la pressione politica, culturale, sociale era così imponente, la provocazione così violenta che, subito dopo questa intuizione giusta, poco o tanto si scivolò ancora in un privilegio dato ad un progetto alternativo; questa volta con una consapevolezza di attaccamento profondo al Mistero della nostra comunione, che metodologicamente era però come adombrato e mascherato dal fascino e dall’urgenza di un progetto alternativo, come se volessimo dimostrare che potevamo avere un’utopia migliore.


Il grande convegno del 1973 [si tratta del convegno nazionale sul tema “Nelle università italiane per la liberazione”, che si svolse al Palalido di Milano nel marzo 1973, dove tra i seimila studenti si notò anche la presenza dell’onorevole Aldo Moro; ndr] fu la più forte, equilibrata e potente esplicitazione di questa linea, ma dimostrò che tale linea di lavoro sociale, culturale e politico alternativo era per pochi, era per un’avanguardia, per un’élite (tanto è vero che i bellissimi Atti del 1973 non sono stati utilizzati, ma solo goffamente ed ingenuamente imitati, e sono divenuti pretesto per tentativi autonomi di taluni gruppi).


Intanto la traiettoria storica aveva già sgomberato la vanità e la vuotezza delle utopie del ’68: quello che esse avevano destato non era diventato altro che strumento per una nuova egemonia, ancora più dispotica e livellatrice. Perciò, già due-tre anni fa dicevamo di essere rimasti gli unici a portare avanti le parole del ’68. E tuttavia giochiamo ancora sul terreno degli altri: se gli altri fanno un volantino, anche noi facciamo un volantino, e così via; non che operativamente non debba essere spesso così, ma è la modalità con cui le cose nascono che deve diventare chiara.


IX - La novità è la presenza come consapevolezza di portare “addosso” qualcosa di definitivo - un giudizio definitivo sul mondo, la verità del mondo e dell’umano -, che si esprime nella nostra unità. La novità è la presenza come consapevolezza che la nostra unità è lo strumento per la rinascita e per la liberazione del mondo.


La novità è la presenza di questo avvenimento di affezione nuova e di nuova umanità, è la presenza di questo inizio del mondo nuovo che noi siamo. La novità non è l’avanguardia, ma il Resto d’Israele, l’unità di coloro per i quali ciò che è accaduto è tutto e che aspettano solo il manifestarsi della promessa, il realizzarsi di quello che è dentro l’accaduto.


La novità non è, dunque, un futuro da perseguire, non è un progetto culturale, sociale e politico: la novità è la presenza. Ed essere presenza non vuol dire non esprimersi: anche la presenza è un’espressività.


L’utopia ha come modalità di espressione il discorso, il progetto e la ricerca ansiosa di strumenti e di forme organizzative. La presenza ha come modalità di espressione un’amicizia operante, gesti di una soggettività diversa che si pone dentro tutto, usando di tutto (i banchi, lo studio, il tentativo di riforma dell’università, ecc.), e che risultano prima di tutto gesti di umanità reale, cioè di carità. Non si costruisce una realtà nuova con dei discorsi o dei progetti organizzativi, ma vivendo gesti di umanità nuova nel presente (certo, gesto di carità deve diventare anche, per esempio, il tentativo di mandare ai Consigli di facoltà e di amministrazione della gente che aiuti tutti umanamente, e non degli avventurieri della politica o degli inetti, ecc.).


Insomma, cedendo alla tentazione dell’utopia facciamo concorrenza agli altri, al loro stesso livello e ultimamente con gli stessi metodi; nell’essere presenza, invece, si sviluppa una capacità critica, la capacità cioè di ricondurre tutto all’esperienza di comunione che viviamo, al senso del Mistero che ha fatto irruzione nella nostra vita, al senso della Realtà liberatrice che abbiamo incontrato.


X - Ma, con tale insistenza sulla presenza, in che senso interveniamo nelle necessità e nei bisogni di tutti e di qualunque natura, privata e pubblica?
La presenza iniziale del movimento nel ’54 era un interessamento ai compagni di scuola, e a partire da quel gesto di amicizia abbiamo creato una struttura grande di caritativa: mille persone ogni domenica andavano nei cascinali della Bassa milanese, con sacrifici rilevanti, non per un progetto politico, bensì per una condivisione del bisogno (le famiglie della zona vivevano in condizioni disagiate). Lottare per qualche cosa che non esiste ancora è la più grande illusione e quindi la sorgente più terribile di delusione nella vita. Perché l’uomo non è creatore: l’uomo collabora al manifestarsi di ciò che Dio ha già fatto, come seme che si sviluppa in pianta, fiore e frutto.


Il problema è, allora, quello di piantare il seme, cioè la presenza. Si può manifestare solo ciò che già c’è; il disegno, il progetto, è dentro il seme, dentro quello che già c’è, dentro il mistero che siamo, e verrà a galla, per coerenza, a suo tempo.


Così oggi siamo culturalmente, socialmente, politicamente più scaltri di un tempo, tanto da essere considerati una delle forze politiche in Italia. Ma la nostra forza non è un progetto, bensì la coscienza del Mistero che siamo. E se gli altri non riescono a capire come mai siamo così, pur non essendo strumentati e potenti come loro, è perché non capiscono quello che anche noi stentiamo ancora a comprendere: il contenuto e la forza di una presenza. Siamo più potenti culturalmente e politicamente di quando andavamo in Bassa nel ’56 o nel ’58, perché il progetto è contenuto in quel seme che è Cristo in noi, nel seme che è la nostra unità misteriosa e reale, e il tempo porta a galla il disegno. È quanto è successo alla cristianità primitiva, che è andata nel mondo non per cambiare la filosofia, ma per rendere presente quello che era, per rendere presente Cristo condividendo tutti e tutto, anche la filosofia; e così, con i secoli, sono nate, nei monasteri, nelle scuole e nelle università, una nuova filosofia e una nuova cultura.


Dunque la presenza è piena di espressività, penetra ed è immanente alla situazione; questa situazione è già nostra, perché è di Cristo, è già posseduta anche se si agita bestemmiando alla superficie, e tale possesso profondo si manifesterà attraverso la nostra storia. I cristiani sono stati imprigionati, martirizzati, tenuti all’oscuro per tre secoli! La storia non è definita, nei suoi tempi, da noi. A noi spetta di vivere la presenza: un credito totale all’Infinito che è entrato nella nostra vita e che si rivela immediatamente come umanità nuova, come amicizia, come comunione. «Non temere, piccolo gregge, io ho vinto il mondo» (cfr. Lc 12,32). «Questa è la vittoria che vince il mondo, la nostra fede» (1 Gv 5,4).


La nostra fede avrà bisogno di sette, otto, nove secoli perché tutto il mondo universitario sia di nuovo investito dalla presenza cristiana? Non sono, questi, calcoli che noi possiamo decifrare. L’università ci interessa per l’edificazione del nostro soggetto, non per dire: «Vinciamo». Tale soggetto è nello stesso tempo me stesso e l’unità con voi, cioè la persona e l’unità in Cristo; il soggetto è, come dice il capitolo 37 del libro di Ezechiele, la valle delle ossa e lo Spirito creatore che le investe, così che quelle ossa si muovono e si articolano tra loro, e su quelle articolazioni nasce il corpo, e il corpo è investito dall’anima: è ricreato ognuno ed è ricreato un popolo nello stesso identico tempo, con lo stesso identico gesto.


Dobbiamo abbandonare quella interpretazione ideologica della vita universitaria che produce un lavoro affannoso e logorante, pesante ed amaro, per cui tanti se ne vanno; mentre nessuno se ne va da una umanità nuova, eccetto il caso di una ribellione diabolica e feroce.


XI - Quanto ho detto è una insistenza metodologica, non l’abolizione di una responsabilità. Ho indicato ciò che deve accadere affinché noi abbiamo a lavorare di più, a incidere di più nella realtà, e in una letizia sempre più grande, non in un logorio e in una amarezza che ci dividono gli uni dagli altri. Il compito che ci aspetta è l’espressione di una presenza consapevole, capace di criticità e di sistematicità. Tale compito implica un lavoro.


Il lavoro è il porsi della nostra identità dentro la materialità del vivere. La mia identità, in quanto penetra la materialità del vivere, cioè in quanto è dentro la condizione esistenziale, lavora e mi fa reagire. Se io sono in macchina e devo andare in fretta in un luogo, ma in mezzo alla strada c’è un sasso che non mi permette di passare, ecco che la mia “identità di automobilista” diventa lavoro: curvo, accosto, prendo il sasso e lo sposto.


Se questa è la prima cosa da dire, cioè che il metodo è porre la nostra identità e affermare ciò che portiamo “addosso”, la seconda cosa da dire è che tutto il resto poi viene.


Lo scopo per cui andare in università è porre dentro l’università la nostra comunione. Il resto verrà. «Cercate prima il Regno di Dio e la Sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 7,33). Allora si è pieni di ironia e di umorismo, perché tutti i tentativi di espressione della nostra comunione che di conseguenza nascono sono fragili, riformabili, modificabili. Se lo scopo di ogni azione è la presenza di ciò che siamo, diventiamo liberi dall’inevitabile pretesa delle forme che il nostro agire assume. La presenza “agisce” per tentativi ironici, non cinici; l’ironia è il contrario del cinismo, perché fa partecipare alla cosa, ma con un certo distacco - riconoscendone la fragilità - e con pace, perché è tutta piena di passione per l’Ideale già immanente. Così possiamo essere agili nel cambiare domani quello che abbiamo realizzato oggi, liberi da quello che facciamo e dalle forme che diamo necessariamente ai nostri tentativi.


Il lavoro nella condizione universitaria dovrebbe essere globalmente la ridefinizione del compito che l’università ha e per cui vive. Tale lavoro dipende dal modo con cui la nostra presenza può “attaccare”, nel senso chimico della parola, l’università in quello e per quello che è: lo studio, la didattica, i rapporti, l’amministrazione, l’attività politica, ecc. Occorrerà una lunga storia - come è avvenuto per la cristianità, che ha aspettato secoli e secoli per formare le università - perché si maturi questa ridefinizione. Ma il nostro programma è la presenza di ciò che siamo, perché il nostro programma è per il presente. Sarà una lunga storia che, traendo le conclusioni e le articolazioni dalla nostra fedeltà, darà la capacità, a un certo punto, di riformulare un’immagine: avverrà a suo tempo, senza pretesa arida e logorante, nervosa o impaziente.


Il nostro programma è la presenza di ciò che siamo: un pezzo di umanità investita da Cristo, un popolo nuovo che cammina, attraversato dall’energia che ha risuscitato Cristo. È questa energia - si chiama Spirito - che sta fremendo nella storia e che la porta dal di dentro verso il suo destino, che è la manifestazione totale di Cristo (e soltanto noi siamo predestinati a vederne i segni).


Ma che cos’è l’università se non l’espressione critica e sistematica di una esperienza di popolo, o meglio, di una esperienza sociale? La nostra presenza collabora a riformulare l’università proprio affermando ed approfondendo nella pazienza del tempo la sua realtà di popolo nuovo. In questo lavoro ogni presenza e la presenza di ognuno è un fattore di cultura, cioè un fattore di mobilitazione nella storia e nel tempo per la riformulazione delle cose: anche una presenza balbettante e fragile come capacità di azione, inespressa o incapace di esprimersi teoricamente e come discorso, anche la presenza del più psicologicamente povero tra noi, serve.


L’università attuale è l’espressione critica e sistematica di una esperienza di società atea, profondamente contraria a Cristo e al senso religioso che è l’anima di ogni uomo. Perciò, se il nostro programma è rendere presenza il popolo nuovo che siamo, la nostra unità e la nostra fede, non potremo vincere, saremo ostracizzati ed emarginati in tutti i sensi. Ma ciò non toglie la possibilità di quella indomabilità gioiosa che è la fede: «Questa è la vittoria che vince il mondo, la fede». Ne abbiamo coscienza perché tale vittoria è già dentro di noi: il segno di essa è questa nostra unità che il mondo non riesce a sgretolare, che il nostro mondo scaltrito non riesce a fermare.


Svolgeremo andando avanti le implicazioni di questa impostazione di lavoro. Ma il punto di partenza non è un discorso, un progetto o uno schema organizzativo, bensì una realtà nuova e presente, in cui vive il desiderio illuminato e il cuore dell’umano (non importa se siamo in cinque o in cinquecento).


Tutto sta in questa Realtà che portiamo “addosso”; guai a noi se non ci aiutiamo con tutta l’anima a tradirla il meno possibile d’ora in avanti.