<em>Black Cat</em> di Zucchero.

Black Cat, zampate d'autore

Dalle atmosfere vudù di New Orleans, l'ultimo album di Zucchero. Un mix delle tre anime che da sempre convivono in lui: goliardica, pop-mainstream e nostalgica. Un lavoro di alto livello con la collaborazione di grandi artisti, da Bono Vox aT-Bone Burnett
Walter Muto

Perché segnalare l’album di una superstar internazionale, nel nostro caso Zucchero, uscito già da qualche mese e apparentemente non di particolare interesse? Innanzitutto perché da più parti si è sentito parlare di questo Black Cat come di un lavoro di alto livello e poi perché anche fra le pieghe del pop si trovano zampate d’autore. Solo alla fine scopriremo se la ricerca è stata proficua o meno. Ascoltiamo l’album un paio di volte e al terzo ascolto scriviamo in tempo reale.

L’attacco del primo brano, Partigiano reggiano, è un blues-rock saltellante che però, a conti fatti riporta alla memoria più Gioca Jouer di un giovane Claudio Cecchetto che il rhythm’n’blues di Kansas City. Però si sente subito che la produzione di questo album è curatissima. Bellissimi suoni e brani affidati a tre produttori diversi, tutti americani: Don Was e Brendan O’Brien (della cui perizia Zucchero si era già avvalso in altri lavori) e il mito T-Bone Burnett, uno dei maggiori artefici del lancio di molti artisti d’oltreoceano che si rifanno al mondo del folk, reinventandolo.

Ci si permetta una piccola digressione: cosa significa produrre un brano musicale? Il produttore artistico è colui che ottiene il suono globale che l’artista ha in mente. Un buon produttore può cambiare completamente il suono di un disco, a partire dalle registrazioni degli strumenti, per arrivare al cosiddetto mixaggio finale. Zucchero in una intervista ha detto proprio questo di T-Bone Burnett: dopo aver registrato le parti dei musicisti ha messo mano al mixaggio ed il brano è diventato completamente un’altra cosa (in meglio, naturalmente). Non ci possiamo soffermare di più su questi aspetti, ma occorreva minimamente tenerli presenti.

L’attacco del secondo brano, 13 buone ragioni, è una citazione della marcia nuziale, e lo slogan ci riporta a Solo una sana e consapevole libidine e alle atmosfere di quello che fu un tormentone dell’estate 1987. Zucchero consapevolmente rivanga la vecchia storia d’amore con la sua ex-moglie, che ha lasciato solchi profondi. Oggi, ad anni di distanza, affronta il tutto in maniera scanzonata e a tempo quasi di twist con citazioni varie: una birra e un panino sono preferibili ad una storia impegnativa, questo il succo.

Ecco, all’abbrivio del terzo brano si capisce meglio cosa si intende per “produzione”: le chitarre elettriche di questo attacco ti arrivano in faccia e ricordano immediatamente il suono dei Pearl Jam, band con la quale Brendan ‘O Brien ha lavorato in più occasioni. La voce graffiante di Zucchero in questo caso non fa rimpiangere i tempi passati. Anzi, a sessant’anni suonati mostra grinta e volume da invidiare. Ti voglio sposare, questo il titolo, resta da stabilire se è reale promessa di un futuro o facile slogan cantato a squarciagola.

Ci si arrende è invece canzone di spessore, nel solco delle grandi ballate dell’artista, da Diamante a Dune mosse. Peraltro di questo brano viene aggiunta come traccia aggiuntiva anche una versione in lingua inglese, il cui testo è stato scritto da Bono Vox, il cantante degli U2. Il brano è impreziosito anche dalla partecipazione del grande chitarrista Mark Knopfler. Qui lo sguardo del sessantenne, già visto nella foto di copertina, mostra tutta la sua vena di nostalgia: «Ora che il meglio di noi due / È già volato via / E non ritorna più / Ma sì, vedi, vedi / Come s’incendia la notte / Come anche un ricordo / Brucia l’anima / Che si arrende».

Il brano successivo, Ten More Days, è una cover di un brano di Avicii, star della dance e dei remix, e qui si sente ancora una volta la pennellata del produttore, in questo caso T-Bone Burnett, che fa suonare il brano come una canzone di Joe Henry, grande cantautore dai toni scuri e malinconici, grazie anche alla presenza del batterista Jay Bellerose che - guarda caso - ha collaborato in molti album proprio di Joe Henry.

Con L’anno dell’amore si torna nell’ambiente giocoso e rotolante del ritmo zydeco, tipico della Louisiana a cui spesso Zucchero fa riferimento. Altra piccola deviazione: da molti anni l’artista si atteggia un po’ a Baron Samedi, lo stregone tipico proprio del Mardi Gras a New Orleans; qui il riferimento è citato palesemente nella seconda di copertina e nel titolo dell’album, Black Cat, un talismano vudù appunto tipico di quelle tradizioni.

Hey Lord si apre con un campionamento da una Negro Work Song, canto di lavoro degli schiavi nelle piantagioni. E si apre un’altra ballata che - stavolta sì - richiama l’incedere di Dune mosse e schiude il testo a molti significati. Si parla di un ritorno a Te, dove per te si intende sicuramente Lord, il Signore. Si parla di qualcosa che «dilania il cuore», ma non si capisce se l’autore si riferisca ad un fatto preciso di cronaca o in generale ad anime che tornano a casa, probabilmente dopo un qualche avvenimento tragico. Ci vengono in mente l’uragano di New Orleans (già cantato peraltro da Van De Sfroos), ma anche i migranti morti in mare - il mare ritorna più volte nel testo; tuttavia l’interpretazione (come spesso accade per le grandi canzoni che svelano e velano al tempo stesso) resta incerta.

Una bellissima introduzione acustica apre la porta ad un’altra ballad interessante e riuscita, Fatti di sogni. La vita è piena di gente che non vola più, ma noi siamo fatti di stelle, siamo fatti di sogni. Detto in altri termini, è sempre possibile sperare. I due brani successivi La tortura della luna e Love again, ci sembrano un po’ più di maniera, nonostante il suono bellissimo e partecipazioni (come in tutto il lavoro) di musicisti di calibro mondiale: su tutti assolutamente da citare Jerry Douglas, sconosciuto ai più ma virtuoso e superstar assoluta di dobro guitar.

E si arriva al brano conclusivo (se si escludono i due bonus, indicati con I e II), Terra incognita. Cominciando a tirare le somme, possiamo sicuramente dire che in questo lavoro sono presenti le tre anime che da sempre convivono in questo artista, quella giocoso-goliardica, quella più pop-mainstream e quella nostalgico-sentimentale. A nostro avviso è in quest’ultima che Zucchero raggiunge i punti più alti, sia umanamente che musicalmente, sul filo del ricordo e della malinconia, specie adesso che l’età avanza.

I due brani che chiudono l’album sono la già citata versione in inglese di Ci si arrende, dal titolo Streets Of Surrender, e in penultima sede Voci, accorato ricordo della madre ambientato fra altre voci provenienti dal passato («Voci di ricordi / Giorni da balordi / Persi nella noia / Di un’estate al bar / Voci all’oratorio / Voci in bocca ai preti (…) Voci che non sento più / Voci che sai solo tu / Manca la tua voce sai / Mama don’t cry»).