Un momento del Festival.

Lo sguardo degli altri

Studiosi, giornalisti e artisti da 8 Paesi arabi e 5 europei, per indagare i legami fra questi due mondi. Il "Festival della lingua araba" all'Università Cattolica: tre giorni di cultura, dibattiti e «dubbi, che smontano gli stereotipi»
Davide Grammatica

Sono molte le ragioni che hanno portato Wael Farouq, professore egiziano di Lingua araba alla Cattolica di Milano, a lanciare, due anni fa, un “Festival della lingua araba”, nella sede milanese di largo Gemelli della sua università. Se da un lato «non si può capire l’islam senza conoscere la musica, il cinema, la poesia arabi», dall’altro è necessario «rispondere all’interesse sempre crescente per questa lingua sviluppato da tanti studenti».

“Gli Arabi e l’Europa: intrecci di lingue e culture” è il tema di questa terza edizione, per la quale l’Università si è trasformata, ancora una volta, in un grande centro di dibattito aperto a tutti, per indagare i legami tra quel mondo e il nostro: in 55 tra studiosi, giornalisti e artisti, provenienti da otto Paesi arabi e cinque europei, hanno preso la parola su scienza, filosofia, matematica, letteratura e, ancora, cinema, fotografia, poesia e musica.

Due i filoni principali che hanno condotto il Festival tra il 9 e l’11 marzo. Salah Fadl, professore emerito di Letteratura e critica letteraria dell'Università Ayn Shams del Cairo, è stato il protagonista del primo, più “accademico”, a pari merito con Mohammed Berrada, padre del romanzo marocchino moderno. Entrambi hanno poi assistito all’inaugurazione del “Salone del libro arabo”, nel Cortile d’onore, con la partecipazione di dieci case editrici arabe e italiane, con un’importante rassegna di traduzioni di classici occidentali in arabo. Presente al Salone anche il presidente della Biblioteca nazionale di Abu Dhabi, che ha donato un migliaio di libri al Centro di ricerca arabo della Cattolica.

Il secondo filone, “artistico”, ha visto invece spiccare la mostra fotografica dedicata a Omar Sharif, il leggendario interprete cinematografico di Lawrence d’Arabia e del Dottor Zivago, e la proiezione del film Cavalli di Dio di Nabil Ayouch, per la prima volta in Italia dalla sua uscita nel 2012. Il film ricostruisce la storia di due fratelli che erano tra i quattro autori di alcuni attentati in Marocco nel 2003.

Toccante la testimonianza di Mahi Binebine, autore de Il grande salto, best seller da cui è stato tratto il film, che ha introdotto la proiezione raccontando la propria esperienza a Sidi Moumen, nella periferia di Casablanca: «Seguendo le storie di vari ragazzi, ho visto tanti candidati kamikaze e ho pensato che anche io, in quelle circostanze, avrei forse potuto sognare il martirio. Nel 2006, dopo due anni di lavoro, accantonai il libro per paura di “giustificare” in qualche modo l’ingiustificabile. Sono tornato a scrivere nel 2007: l’escamotage che ho trovato è stato raccontare il protagonista già morto, lontano». E continua: «L’unico modo per rendere “pensabile” un terrorista è disinnescarlo, per questo il mio protagonista è già morto quando inizia il libro, non fa più paura e dunque può parlare di sé».

Un Festival, dunque, che ha mostrato come il contatto tra cultura araba e italiana già esiste. Ed è significativo il fatto che in Cattolica non sia mostrato solo nella descrizione di alcune sue forme, ma nella esistenza e nei contenuti stessi del Festival, rivolti contemporaneamente a occidentali e arabi. Il confronto culturale con altri Paesi e culture si è mostrato nella sua praticità, in un incontro che, a ben vedere, è l’unico mezzo con il quale ci si può ricordare della propria storia. «Solo approfondendo la conoscenza dell’altro non si dimenticano le radici», ha spiegato Wael Farouq.

Sabato mattina, l’evento più atteso di tutto il Festival sul tema “L’immagine degli arabi nei media occidentali”, con Monica Maggioni, presidente Rai, Samuel Shimon, direttore di Banipal, il Magazine of Modern Arab Literature di Londra, e Sayyed Mahmoud, direttore del settimanale egiziano Al Qahira.

Roberto Fontolan introduce i relatori e li provoca con una riflessione di Samir Kassir: «L’infelicità araba è lo sguardo degli altri. Quello sguardo che impedisce perfino la fuga e che, spesso, ti ferma alle frontiere». Lo “sguardo degli altri” diventa il cuore del dibattito e chiama in causa la responsabilità principale di ogni “comunicatore”, cioè la capacità di raccontare evitando gli stereotipi, a maggior ragione se si tratta del mondo arabo.

Per Monica Maggioni “sguardo” e “approccio culturale” finiscono per essere la stessa cosa, e sottolinea: «Uno sguardo deve essere educato, costruito. Avere uno sguardo banalizzante sui fatti, fosse anche per strumenti culturali insufficienti, sarebbe come venire meno a una responsabilità. Questo non vale solo per gli addetti ai lavori, ma per tutti, ed è per questa ragione che vale la pena discuterne qui in università». L’esempio è il recente “Muslim ban” che tanto ha fatto discutere in tutto il mondo: «Le ragioni della politica sembrano muoversi sul terreno degli stereotipi anziché su quello della realtà, e certe scelte possono influenzare le culture di un intero pianeta. Un pregiudizio deve essere denunciato, e, per fare ciò, c’è bisogno di un giudizio che distingua i fatti».

Samuel Shimon vede questo pregiudizio proprio nei media occidentali: «La gioventù che migra in Occidente finisce per odiare l’Occidente. L’unico modo per combattere il problema è fare cultura. Mostrare cos’è veramente il mondo arabo con la sua arte, la sua letteratura, le sue ricchezze». Insomma, i problemi di comunicazione tra Occidente e mondo arabo sono molti e, come dice Sayyed Mahmoud, spesso «causati dai protagonisti dell’informazione venduti al capitale politico». La soluzione, chiude la Maggioni, è «la capacità di porsi dei dubbi, l’unico elemento che, alla fine della giornata, smonta gli stereotipi».