Wolfgang Tillmans.

WOLFGANG TILLMANS. Parlare agli occhi

Liv Tyler e Lady Gaga al naturale. Tutto, nelle sue opere, lascia un'impronta precisa. A un patto: per entrare nel suo linguaggio bisogna essere disposti a mettere in discussione (almeno un po') la propria idea di fotografia e arte
Luca Fiore

Prendete il ritratto che ha fatto nel 2010 a Lady Gaga. Ecco, basterebbe quello per capire che Wolfgang Tillmans è un fotografo fuori dal comune. Non tanto perché ritrae “al naturale” la pop star più truccata e parruccata della storia (è un’operazione ormai comune nello show business). Neanche perché riesce a far apparire spontanea un’immagine molto costruita (sono noti i nomi di parrucchiere e truccatore che l’hanno riportata “acqua e sapone”). Quel che pochi fotografi sarebbero stati in grado di fare è mostrare una dimensione che nessuno assocerebbe a Stefani Joanne Angelina Germanotta, in arte Lady Gaga: la vulnerabilità. Anche mostrarsi così è frutto di una raffinata strategia di marketing. Ma perché il progetto riuscisse, bisognava rivolgersi al migliore. Tillmans, appunto.

Nato nel 1968 a Remscheid, in Germania, si fa un nome negli anni Novanta fotografando la scena acid house per il magazine indipendente i-D. Per il Guardian, con Juergen Teller e Terry Richardson, formava la trinità della fotografia d’avanguardia di quegli anni. Uno stile, non convenzionale e apparentemente casuale, che a venti anni di distanza resta quello dominante. Teller si è arreso alla pubblicità, Richardson è un chiacchieratissimo fotografo di moda, ma Tillmans è diventato un artista. Nel 2000 ha vinto il Turner Prize, il più importante premio d’arte contemporanea in Inghilterra, e all’inizio del 2014 è stato eletto membro della Royal Academy of Arts.

Parlare di un artista del genere non è facile. Impossibile applicare le categorie comuni. Fa ritratti, ma non è un ritrattista; ama i paesaggi, ma non è un paesaggista; la sua opera documenta un momento storico, ma non è un documentarista. Se teniamo conto, poi, che in libri e mostre, in cui questi tre generi sono rappresentati contemporaneamente, appaiono in modo organico anche fotografie “astratte”, capiamo che i conti non possono tornare. Tillmans, poi, bisogna ammetterlo, non è un artista per tutti. Non solo perché parte della sua opera è adatta solo a un pubblico adulto, ma perché per entrare nel suo mondo bisogna essere disposti a mettere in discussione, almeno un po’, quel che si è sempre pensato di fotografia e di arte.



Remscheid è una città di centomila abitanti che ha dato i natali anche a Wilhelm Röntgen, Premio Nobel inventore del Raggi X, e a Johann Vaillant, fondatore della multinazionale dei sistemi di riscaldamento che porta il suo nome. È un piccolo centro industriale dove si producono martelli, pinze e altri utensili, che i genitori di Tillmans esportavano in Sud America. Wolfgang non è bravo a scuola e da bambino vuole fare il giardiniere o l’astronomo. Poi diventa un artista grazie a una fotocopiatrice. È il 1984 e a Remscheid arriva la prima fotocopiatrice digitale in grado di produrre ingrandimenti fino al 400 per cento. «Adoravo prendere in mano questi fogli A3 sui quali compariva un oggetto trasformato che mi faceva impazzire», ha spiegato Tillmans: «Quell’interesse per la texture e la superficie della stampa fotografica mi accompagna ancora oggi. Quando ho fatto la prima mostra, nel 1988, ho capito che avevo bisogno di una macchina fotografica per realizzare le immagini da fotocopiare. È allora che sono finito per fare della fotografia».

Nel frattempo, nelle discoteche tedesche fa la sua comparsa la acid house. Musica elettronica, decibel e sudore. «Per la prima volta ero parte di una cultura giovanile, un movimento», racconta Tillmans: «Ho abbracciato in modo entusiasta questa musica liberante e la “vita dei club”, che era così diversa da quella degli anni Ottanta e i loro abiti a fiorelloni. Quella scena musicale a cavallo degli anni Ottanta e Novanta era così potente perché era senza gerarchia e omnicomprensiva. Un po’ ti apriva la mente». La sua fotografia nasce in questo contesto. Dai ritratti di amici ai primi rave party; dai particolari della vita quotidiana ai gay pride. Nelle immagini è messa in scena anche la vita sessuale disinibita di una generazione nata nell’anno Moloch, il 1968; l’omosessualità è ritratta con crudezza ricercata.

Quella di Tillmans è una sorta di bulimia figurativa che si nutre di istanti quotidiani e immagini costruite con sapiente nonchalance. Di quel periodo sono le prime immagini di abiti smessi: jeans, calze, canottiere. Spesso sono intitolate Faltenwurf, drappeggi: «Era una riflessione sul significato dei vestiti, l’aspetto essenziale di queste membrane è che stanno tra il nostro corpo e il mondo». Ci sono poi le nature morte: frutta, piante, resti del pranzo abbandonati alla luce di una finestra. Una piccola zucca, un melograno, una mela si mostrano in tutta la loro semplice bellezza sul tavolo sporco di una cucina o sul davanzale sbrecciato. Un po’ la Canestra di frutta di Caravaggio, un po’ le bottiglie di Morandi. Tutte queste immagini finiscono sulle pagine della rivista i-D. «Mi entusiasmava esplorare quella che potremmo definire con la parola “identità”, e come questa sia un’identità fratturata, come non sia una sola entità, ma sia composta da diversi aspetti, da diversi livelli». Chi sono questi ragazzi fotografati tra Bournemouth, la città inglese dove Tillmans frequenta l’accademia d’arte, Londra, New York e Berlino? Sono i vestiti che indossano, le pose che assumono, gli sguardi che concedono all’amico fotografo? A illuminarli è spesso una luce calda, quella del mattino o della sera prima del tramonto. Tutti tradiscono quella vulnerabilità, che vent’anni dopo sarà sorprendente in Lady Gaga, ma che in questi volti segna la dimensione di un’epoca. Diversi critici, parlando dell’opera di Tillmans, hanno usato la parola Zeitgeist, lo spirito del tempo.

All’epoca, queste immagini venivano liquidate dai suoi detrattori come comuni istantanee. «Estetica dell’istantanea è una definizione facile, ma non è corretta», spiega Tillmans: «Le mie fotografie non sono mai sfuocate, non ci sono occhi rossi... Quello che intendono indicare è l’immediatezza, l’intimità o la casualità, la casualità percepita». In realtà dietro il lavoro del fotografo tedesco c’è un grande lavoro tecnico e di pensiero. Lo si capisce entrando in una sua mostra. Le immagini sono appese senza cornice e sono disposte per nuclei non tematici. Fotografie molto grandi, anche di due metri di lato, vengono affiancate a stampe più piccole secondo un criterio evocativo che spesso non ha a che fare col soggetto ritratto, ma che risponde a richiami di forme o colori. Jerry Saltz, il critico del New York Times Magazine, ha scritto che dentro una mostra di Tillmans sembra di trovarsi in un «acquario fotografico».

In una conferenza del 2011 alla Royal Academy di Londra, Tillmans ha parlato di una serie di foto scattate nel 2004 e intitolate Venus transit. «Fino a 14 anni sono stato appassionato di astronomia. Quell’esperienza di osservazione intensa, guardando per ore quei punti di luce nella notte, penso abbia avuto per me un’influenza importante». Tra i dieci e gli undici anni Tillmans scopre che, a 36, avrebbe potuto assistere a un fenomeno estremamente raro: il passaggio di Venere dentro il cerchio del Sole. Avviene ogni 128 anni, poi dopo 8 anni per ripresentarsi di nuovo dopo altri 128. «È una vicenda molto importante per la storia della scienza, che portò alla scoperta della Nuova Zelanda e dell’Australia da parte del Capitano Cook». La missione di Cook serviva proprio per osservare dal punto più lontano possibile da Londra il transito di Venere per determinare, tramite il metodo della parallasse, la distanza tra la Terra e il Sole. «Era l’unico modo, a quel tempo, di collocare noi stessi nell’universo, dove ci troviamo in relazione a quanto ci circonda. È stato un fenomeno che mi ha molto commosso vedere, come se le meccaniche del sistema solare apparissero davanti ai miei occhi».

Col tempo, l’incessante ricerca visiva di Tillmans si concentra sulla natura del mezzo fotografico. Da una parte, la sua capacità di tradurre, in modo credibile, una realtà in tre dimensioni su un supporto piatto; dall’altra, le potenzialità pittoriche della fotografia intesa nel suo senso etimologico: scrittura con la luce. Accade che durante le interminabili ore in camera oscura per stampare le proprie fotografie, Tillmans metta da parte le immagini scartate a causa degli errori. Osservando il processo di stampa, si accorge di poter realizzare fotografie senza l’utilizzo della macchina fotografica e del negativo. Che fosse possibile lo insegnano anche i libri di Storia, quando parlano di Man Ray o László Moholy-Nagy. Ma dalla camera oscura di Tillmans cominciano a uscire immagini mai viste. Sono forme astratte, dai colori tenui, segnate da trame di segni ininterrotti che attraversano per intero il foglio di carta fotografica. L’immagine non rappresenta nulla, perché il materiale sensibile non è stato esposto a nessun oggetto reale. Eppure queste immagini, a volte, hanno un che di biologico, a tratti sensuale. Quando raggiungono i due o tre metri di lato assumono una forza visiva potentissima.

Dopo la ricerca su di sé e la riflessione sul linguaggio artistico, si apre per Tillmans una nuova stagione: «Dopo dieci anni passati ad esplorare la relazione tra astrazione e figurazione, dal 2009 ho sentito un interesse rinnovato nel guardare il mondo. Come appare il mondo dopo vent’anni dall’inizio della mia carriera?». Ha inizio un viaggio globale: Asia, Africa, America. L’obiettivo si posa su ciò che parla agli occhi di Tillmans. Una camera d’albergo, nuvole sontuose, un tucano dal becco giallissimo, i resti di una aragosta su cui cammina una mosca, una strada di Addis Abeba, una cipolla solitaria, una donna masai, il cielo stellato, un tubo di scolo a Buenos Aires, la massa d’acqua delle cascate dell’Iguazu. Si intitola Neue Welt, nuovo mondo, ed è l’ultimo grande lavoro presentato nel 2012 in una mostra a Zurigo e in un libro. Un racconto apparentemente sconclusionato: pochi nessi logici e molti legami cromatici. Non è un discorso traducibile a parole, ma del quale si percepisce con precisione l’impronta che lascia in noi. C’è una sola parola che renda l’idea: struggimento. È il tocco inconfondibile di Tillmans, che riesce a conferire al primo piano di un fanale di automobile la dignità di un rosone di cattedrale o che regala alla presa di una gru in un mare di immondizia la solennità di una tragedia greca. Il tocco: come quello di un grande pianista. Per riconoscerlo basta una breve sequenza di note, anche banale.