Thomas Struth

THOMAS STRUTH. Tutto particolare

Le facciate delle cattedrali e i visitatori dei musei. I ritratti di famiglia e la fabbrica dello Space Shuttle. Immagini intense e spettacolari. Dove lo sguardo si perde nella contemplazione, ritrovando l'inquietudine di chi stava dietro l'obiettivo
Luca Fiore

«Quando mi hanno chiamato dalla National Portrait Gallery, dicendo che ai loro occhi ero la persona migliore per fare quel ritratto, sono rimasto scosso. Mi sono chiesto: “Sono in grado di fare qualcosa che porti un messaggio da parte mia? Davvero posso dire qualcosa di nuovo su persone come queste?». Quelle persone erano la regina Elisabetta d’Inghilterra e il principe Filippo, suo marito. A parlare, invece, è Thomas Struth che all’epoca - era il 2011 - aveva 57 anni ed era già uno dei più affermati fotografi della scena dell’arte contemporanea a livello mondiale.

Il racconto che di quella vicenda ha fatto Janet Malcolm per il New Yorker è un piccolo gioiello. Fa capire molto su chi siano i coniugi Windsor e su chi sia questo austero fotografo tedesco.
Prima della seduta di posa, Struth aveva studiato i vecchi ritratti dei regnanti e li aveva trovati tutti insoddisfacenti. Soprattutto a causa degli sfondi che tendevano a distrarre l’occhio dello spettatore. Dopo aver visitato Buckingham Palace, decide che non è l’ambientazione giusta: troppo disordinata. Gli propongono i salotti del Castello di Windsor: quello verde, quello rosso e quello bianco. Sceglie quello verde e passa un giorno intero a fare dei test nella stanza. Quindi chiede di incontrare la guardarobiera di Sua Maestà, che dopo qualche ora gli si presenta con venti abiti diversi. Insieme ne scelgono uno di broccato blu pallido con ghirlande, un po’ lucido, che bene si combina con lo sfondo verde scuro.

Prima di accettare il lavoro si era letto la biografia di Elisabetta: «Per loro ho provato simpatia. Sono della generazione dei miei genitori. Lei ha esattamente l’età di mia madre e Filippo è nato nel 1921, due anni dopo mio padre. Ho detto ok, per ragioni che non voglio dire, ma ho pensato che mi sarebbero stati simpatici». Janet Malcolm osserva che l’associazione con i genitori ha del paradossale, visto che la madre aveva fatto parte della Hitlerjugend e il padre aveva combattuto nella Wehrmacht tra il 1937 e il 1945. E in quel «per ragioni che non voglio dire», osserva la giornalista, ci deve essere qualcosa di quel complesso, molto comune nella generazione di Struth, per cui ci si sente inseguiti dal proprio passato legato al nazismo. «Se vuoi sapere cosa mi ha formato», confessa Struth alla Malcolm, «la grande cosa è questa: la cultura della colpevolezza in cui sono nato e che mi ha circondato nella mia infanzia».

Thomas Struth si iscrive all’Accademia d’Arte di Düsseldorf nel 1973, e dall’anno successivo segue il corso di pittura di Gerhard Richter, oggi considerato da molti il maggior pittore vivente. Si avvicina alla pittura surrealista e iperrealista, ma le foto preparatorie lo convincono che quel che gli interessa non è tanto la pittura, quanto la creazione di immagini: «Nelle fotografie c’era già quello che volevo mostrare», ha spiegato al New Yorker. Ed è lo stesso Richter a proporgli di frequentare il neonato corso di fotografia di Bernd e Hilla Bercher. I due fotografi erano diventati celebri nel mondo per il loro lavoro sulle “tipologie” di impianti industriali: come torri di raffreddamento o di estrazione, gasometri, altiforni, silos e capannoni. Oggetti che si stagliano contro un cielo grigio chiaro, ampia gamma dei toni di grigio. Vere e proprie «sculture anonime». Dopo Struth negli anni successivi seguiranno il corso dei Becher anche artisti come Andreas Gursky, Candida Höfer, Thomas Ruff, Elger Esser e Axel Hütte. Tendenza alla catalogazione, riprese frontali, utilizzo di macchine fotografiche di grande formato: queste le caratteristiche principali di quella che viene spesso definita “La scuola di Düsseldorf”. A questo si deve aggiungere l’introduzione del colore e le stampe di grande e grandissimo formato, ottenute grazie alle avanzate tecniche di stampa del laboratorio Grieger presente nella città tedesca.
«La loro grande influenza pedagogica dei Becher è stata aver introdotto me e altri alla storia della fotografia e alle sue grandi figure. Erano insegnanti fantastici, perché mostravano la complessità delle connessioni tra le cose. Con Bernd e Hilla non si parlava solo di fotografia: discutevamo di cinema, giornalismo, letteratura, tutte questioni ampie e complesse. Una cosa tipica di Bernd, ad esempio, sarebbe stata dire: “Dovete capire le fotografie di Parigi di Atget come la visualizzazione di Marcel Proust”».



Così il primo lavoro in bianco e nero sulle città, siamo nel 1976, è un’indagine sull’anima dei luoghi in cui viviamo. «Per me, all’inizio, la domanda era: come si vive il rapporto con la storia? Poi ho iniziato a chiedermi: come la storia è incorporata nell’architettura di una città? Come una comunità si rappresenta nella propria architettura?». Un lavoro di catalogazione sistematico, privo di emotività, che tenta di far parlare gli edifici e il rapporto tra loro.

Ma come gli altri allievi dei Becher, Struth si fa conoscere al mondo tradendo la lezione dei maestri e, in un certo senso, si apre al mondo. Lo fa scegliendo due binari paralleli. Da una parte c’è il viaggio nei grandi musei, dall’altra la serie dei ritratti di famiglie. Uno degli scatti più famosi delle Museum Photographs è l’immagine dell’interno del Pantheon, realizzata nel 1992 e venduta all’asta nel giugno del 2013 per 1,2 milioni di dollari. È un’immagine alta un metro e ottanta e larga due metri e mezzo, stampata solo in dieci esemplari. Mostra una vista dell’interno di quello che è probabilmente il più antico luogo di culto occidentale rimasto tale dalla sua edificazione. La maestosità della cupola sovrasta un gruppo di turisti. Il rapporto tra la figura umana e l’architettura è sbilanciato a favore di quest’ultima. Una raffigurazione plastica dell’idea di città eterna. I colori tenui e la luce diffusa trasmettono uno struggimento non ostentato, contenuto. La spettacolarità del formato, vero e proprio marchio di fabbrica della “Scuola di Düsseldorf”, permette la contemplazione della miriade di particolari, quasi come se si fosse di fronte a una piccola pala d’altare.
Lo stesso tema è affrontato nei due meravigliosi “ritratti” del Duomo di Milano e di Notre-Dame a Parigi. Inquadrate da un punto di ripresa misterioso, le facciate delle due cattedrali sono tagliate nella parte superiore e si ha l’impressione di averne uno sguardo panoramico e ravvicinato insieme.

In realtà, col tempo, la ricerca sui musei si concentra sempre di più sui visitatori. È come se Struth si chiedesse: «Perché si va nei musei? Che cosa cerca la gente in questi luoghi?». Il risultato sono immagini di grande livello tecnico, se si tiene conto che il fotografo utilizza, in ambienti chiusi e spesso poco illuminati, una macchina di grande formato che non permette l’utilizzo di tempi di posa brevi. Per questo motivo, in tanti casi, alcune delle figure riprese sono mosse. Sono molti i momenti di poesia in questa serie. Come quella donna all’Art Institute di Chicago, che sembra spingere un passeggino dentro il quadro di Gustave Caillebotte, La Place de l'Europe, temps de pluieun. O quella ragazzina incantata davanti al David di Michelangelo che, inconsapevolmente, assume la postura dell’eroe biblico.

Questo lavoro mostra il tradimento più profondo che Struth fa dello stile dei Becher: qui non è più un fotografo documentario, ma cerca una dimensione più profonda: «Penso, spero, che le mie fotografie possiedano un potere simbolico con cui lo spettatore può connettersi. Che abbiano un potere simbolico è importante per me, anche se spesso è un potere silenzioso».
Il fatto che la National Portrait Gallery di Londra sia andata a cercarlo per il ritratto della regina Elisabetta, non dipende solo dalla sua fama internazionale. Struth aveva iniziato a realizzare, da almeno una decina d’anni, una serie di ritratti di famiglie. Un genere, molto diverso da quello del ritratto individuale, quasi scomparso nell’arte contemporanea, prima abbandonato dalla pittura a favore della fotografia professionale e poi diventato esclusiva degli scatti amatoriali. I soggetti sono inizialmente conoscenti e amici del fotografo. L’immagine viene eseguita di solito nella casa della famiglia, chiedendo ai membri di scegliere la propria posa. Una di queste è quella di Gerhard Richter, che si fa ritrarre con la moglie e i due figli piccoli. Sullo sfondo, appeso alla parete, uno dei suoi quadri più celebri che raffigura un teschio. Ma ci sono anche diverse famiglie amiche, vicini di casa o persone conosciute per caso a Firenze o New York. Poi il lavoro diventa più esteso e assume un carattere di documentazione che supera la dimensione privata. Vediamo così anche gli Hirose a Hiroshima, gli Ayvar a Lima o i Felsendeld a Philadenphia.

Dalla seconda metà degli anni Novanta Struth racconta di aver attraversato un momento di inquietudine umana e artistica. «Ero alla ricerca di un po’ di quiete nella mia vita, non solo come artista, ma come essere umano in un mondo dove si è in balìa di desideri, progetti e ambizioni insoddisfatte. La mia domanda era: come si può non essere inquieti? Ora vedo che quella domanda in qualche modo filtrava nel mio lavoro nella misura in cui cercavo di prendere l’inquietudine da dentro me stesso e metterla in immagini sulle pareti». Sembra quasi impossibile a dirsi, visti i soggetti a cui si è dedicato da allora: foreste e laboratori di alta tecnologia. Della serie Paradise, una carrellata di immagini di boschi più o meno esotici, dice: «Volevo realizzare delle fotografie dove le cose erano così complesse e dettagliate che potresti guardarle per sempre e mai vedere tutto. Ho notato che la gente passa molto tempo guardando in silenzio questa immagini. E davanti a queste foto c’è molto più silenzio che di fronte alle altre».

L’altro “viaggio” è quello che lo porta al Kennedy Space Center di Cape Canaveral, dove si costruiscono gli Space Shuttle, o all’istituto Max Planck di Fisica del plasma a Greifswald, nel Nord della Germania. Grovigli di cavi, geometrie misteriose, colori accesi, superfici lucidissime. «Per me sono paesaggi del cervello moderno. Oggi c’è questo investimento unilaterale in tecnologia e scienza, intese come promessa di un futuro migliore - l’iPhone, internet, il cloud computing. Mi sembra che ci sia stata una diminuzione di pensiero politico e di impegno, dal momento che il nostro pensiero si è impigliato in desideri autocentrati, che si ripetono all’infinito. È per questo che ho voluto che queste immagini apparissero in qualche modo estenuanti».

Siamo ad anni luce dalla tradizione del reportage umanistico di Werner Bishof o Cartier-Bresson. Lì l’occhio cercava di cogliere il momento in cui l’uomo appare nella sua verità, qui si rincorre ciò che è sempre davanti ai nostri occhi (i cavi dello Space Shuttle li troviamo, in piccolo, nascosti sotto le nostre scrivanie) ma che non siamo più in grado di vedere. L’uomo non è dentro le foto, ma è fuori che guarda. È il fotografo, e siamo noi con lui. Sean O’Hagan, sull’Observer, ha parlato di una «vigilanza tranquilla», che Struth va cercando in tutte le sue immagini. «Una eco della sua stessa presenza di fotografo e di persona».