James Nachtwey al lavoro in Sud Africa nel 1984.

JAMES NACHTWEY. Un testimone

Dove c’è stata guerra o fame, è arrivato anche lo sguardo del suo obiettivo. A rischio della vita. Il coraggio, la rabbia e quel "ritorno di fiamma" che incide la pellicola. Ecco come lavora e cosa pensa il grande fotogiornalista americano
Luca Fiore

El Salvador, Nicaragua, Guatemala, Libano, Cisgordania, Striscia di Gaza, Israele, Indonesia, Thailandia, India, Sri Lanka, Filippine, Somalia, Sudan, Rwanda, Sudafrica, Russia, Bosnia, Cecenia, Kosovo, Romania, Afghanistan e Iraq. Dove c’è stata guerra o fame, è arrivato anche lo sguardo dell’obiettivo di James Nachtwey.
Il contras ucciso che esce dalla foresta del Nicaragua portato a spalla dai commilitoni: torso nudo e braccia aperte, quasi un crocifisso. Il superstite Hutu con il volto sfregiato dal machete. Le tre cicatrici che attraversano il volto, dall’orecchio fino alla bocca, segni di un rammendo fatto in fretta, simbolo delle ferite sul corpo di una nazione intera. Il volto del ragazzo ceceno tagliato dall’inquadratura all’altezza degli occhi. La testa rasata, la prospettiva della strada distrutta. Il rasoio della guerra che passa sulla pelle dei ragazzi e del tessuto urbano. Lo sguardo che prova a guardarsi dentro. Alcuni scatti del fotografo americano sono diventati immagini-simbolo di interi conflitti. A questo, di certo, hanno contribuito i 25 riconoscimenti del World Press Photo Award, il premio più importante per un fotogiornalista.

James Nachtwey nasce nel 1948 e cresce in Massachusetts. Si laurea in Storia dell’arte e Scienze politiche. A trascinarlo nell’avventura del fotogiornalismo sono le immagini che arrivano dal Vietnam e quelle che raccontano la battaglia per i diritti civili degli anni Sessanta. «I politici ci raccontavano una cosa e i fotografi ce ne mostravano un’altra. Io credevo ai fotografi, come milioni di americani», ha raccontato in una conferenza nel 2007. Prima di approdare ad un quotidiano in New Mexico, nel 1976, lavora a bordo di navi della Marina mercantile e, mentre studia fotografia da autodidatta, fa il camionista e l’apprendista montatore nella redazione di un telegiornale.

Nel 1980 si trasferisce a New York e inizia la carriera di freelance. L’anno successivo è al suo primo incarico all’estero, in Irlanda del Nord, dove documenta uno sciopero della fame dei militanti dell’Ira. Da allora non ha più smesso di visitare i punti caldi del mondo. Il primo febbraio di quest’anno, ad esempio, era in Thailandia a seguire gli scontri di piazza quando è stato colpito alla gamba da un proiettile. Dicono si sia rialzato e abbia continuato a scattare. «Lui è fatto così», hanno detto dalla redazione di Time, il settimanale per cui lavora dal 1984.
In Iraq, nel 2003, era stato ferito da una granata. La stessa che esplose in mano al collega Michael Weisskopf. «Nei posti in cui vado, puoi fare tutto nel modo giusto ma prenderti comunque una pallottola», ha detto in un’intervista al National Geographic: «Molte volte persone vicine a me sono state prese, a volte uccise, ma io non sono stato colpito. Una volta un razzo è atterrato a pochi passi da me e non è esploso. Ero davanti alla torre Nord del World Trade Center quando è crollata e sono sopravvissuto. Ma oltre ai pericoli fisici, ho assistito a così tante tragedie che sento di portarne il peso». Le due peggiori nemiche sono la paura e la rabbia, ma quest’ultima Nachtwey cerca di sfruttarla a proprio vantaggio: «Dovevo usarla, incanalare la sua energia, farla diventare qualcosa che mi avrebbe chiarito le idee, anziché confonderle». Con sé ha sempre, come talismano porta fortuna, una fotografia dove è ritratto con Nelson Mandela. «È il mio eroe, in ogni senso. Coraggio, fortezza, saggezza. Lui è ciò che di meglio l’umanità ha da offrire. È un’immagine di pace, ma anche di perdono, senza il quale la pace non potrebbe esserci».



A 35 anni, appena prima di essere accettato nel club esclusivo dei migliori fotogiornalisti del mondo, la Magnum, scrive un appunto in cui cerca di sintetizzare ciò che lo spinge ogni volta a tornare sui campi di battaglia. «È possibile porre fine, con la fotografia, a una forma di comportamento umano - la guerra - che è sempre esistita nel corso della storia?», si domanda Nachtwey: «Le proporzioni di questa ambizione sembrano fuori equilibrio in modo ridicolo. Eppure, si tratta della sola idea che mi ha sempre motivato».

Nel 2012 Nachtwey è premiato con il Dresden Prize per la Pace. A farne la laudatio viene chiamato Wim Wenders, il regista tedesco: «Non credo occorra conoscere la biografia di un fotografo per capire chi è. Perché lo mostra in ogni sua immagine. Ogni fotografia ne contiene una seconda, invisibile in un primo momento. Un “controcampo” o, se preferite un counter-shot, un contro-scatto. Questo ci fa ricordare che far fotografie si dice in inglese to shoot pictures (“to shoot” ha il doppio significato di “scattare” e “sparare”, ndr). La macchina fotografica ha un “ritorno di fiamma”! L’occhio che guarda attraverso l’obiettivo si riflette nella propria foto. E lascia una debole, e a volte oscura, traccia del fotografo. Qualcosa tra una silhouette e una incisione. Un’immagine, non dei suoi lineamenti esteriori, ma del suo cuore, della sua anima, della sua mente, del suo spirito. Ma diciamolo con la prima di queste parole: “cuore”».

È il cuore, dice Wenders, il supporto sensibile alla luce che produce la fotografia, non la pellicola o il sensore digitale. È il cuore che vede l’immagine e la vuole catturare. È in quel luogo che si combinano diversi altri segnali che arrivano nello stesso istante. Alcuni sono di tipo estetico. Altri impulsi sono di natura etica e morale. E qui il regista tedesco fa l’elenco degli interrogativi di quel che in un solo istante può passare per la testa di un fotografo prima di scattare: «Cosa sta succedendo alle persone di fronte a me? In che cosa consiste la loro dignità? O meglio: cosa sta violando la loro dignità? Sono sicuro di essere libero da pregiudizi, o peggio, da cinismo? Cosa in questa immagine tocca me? Ho il diritto di mostrarla agli altri? Può essere interpretata in modo sbagliato? Può aiutare se mi avvicino di un passo? E se mi allontano un po’? Cosa tengo dentro l’inquadratura e che cosa lascio fuori?».

Chi ha provato a restituire quel che accade dietro la macchina fotografica di Natchwey è un documentarista svizzero, Christian Frei, che, nel 2001, ha girato un documentario su di lui intitolato War Photographer, che ha ottenuto una nomination agli Oscar. Frei ha montato una telecamera sopra il corpo della Canon di Nachtwey che mostra, allo stesso tempo, ciò su cui è puntato l’obiettivo e l’indice del fotografo sul tasto di scatto. Queste lunghe sequenze, durante le quali si sentono i rumori concitati della battaglia e quello del motorino di avanzamento della pellicola, mostrano il modo di lavorare del reporter di guerra. Nachtwey utilizza un obiettivo grandangolare, non solo perché questo lo costringe a rispettare l’adagio di Robert Capa «se le vostre foto non sono abbastanza buone, non eravate abbastanza vicino», ma perché permette di dare maggiormente il contesto della scena e, allo stesso tempo, impedisce che la prospettiva venga schiacciata facendo apparire vicino ciò che è lontano (come invece avviene utilizzando un teleobiettivo).

Quante immagini emotivamente difficili da scattare. E sono le stesse difficili da guardare. Quante quelle che non ha realizzato o mostrato? Corpi filiformi prosciugati dalla carestia. Madri che portano in braccio i cadaveri dei figli avvolti in lenzuoli bianchi. Camion che scaricano uomini senza vita in fosse comuni. Ma anche bambini che giocano appendendosi al cannone di un carro armato, o che saltano su un tappeto elastico restando sospesi contro il cielo azzurro. Madri, padri, figli, soldati, ribelli e terroristi. La guerra irrompe nella vita quotidiana sconvolgendola. Ma accade, talvolta, che nell’inferno appaia, all’improvviso, un gesto feriale, magari di dolcezza o pietas. Molte sue immagini ricordano soggetti delle grandi opere della storia dell’arte: «Molti miei scatti, come quelli di alcuni miei colleghi, sembrano immagini classiche o bibliche», ha detto in un’intervista in occasione della pubblicazione, nel 2000, del suo libro più importante, Inferno: «Una madre che piange il figlio morto sembra una Pietà, una fossa comune ricorda La porta dell’Inferno di Rodin, gente che trasporta un ferito ricorda una Deposizione. È assurdo pensare che andiamo in giro provando a imitare immagini di pittori o scultori del passato per creare nuova arte. Il modo in cui una madre piange un figlio è universale. Gli studi dal vero venivano riproposti in immagini classiche o bibliche. Io credo che oggi assistiamo alle stesse cose che hanno visto i maestri del passato. Sono simboli universali della vita stessa. Penso che dipingerli come miti significava per loro santificare la vita e ciò che accade alla gente comune sulla Terra».
Che cosa ha imparato dopo trent’anni di carriera? Nel 2013 a questa domanda ha risposto: «Ora so che le decisioni devono essere prese secondo i nostri valori più alti, non secondo i più bassi. Ho imparato la tolleranza, il rispetto e il coraggio. E che qualche nemico deve essere sconfitto».