Valerio Olgiati

VALERIO OLGIATI. Esigenza di assoluto

L'architetto svizzero che guarda alla precisione di Aldo Rossi e alle "pure invenzioni" dei Maya. Edifici fuori dal tempo e restauri pensati come demolizioni. E all'inizio di un progetto, la domanda che fa ai suoi allievi: cosa vogliamo affermare?
Carlo Maria Acerbi e Lorenzo Margiotta

Se si capita a Flims, un paese di montagna nel Canton Grigioni, in Svizzera, non si può non notare il fascino irriverente della Gelbe Haus, letteralmente la casa gialla. È un piccolo museo ricavato da una vecchia casa tradizionale grigionese. Un edificio bianchissimo, sfregiato e ruvido, con le finestre precise e regolari che si aprono su tre piani. Valerio Olgiati, l’architetto incaricato di curarne il riuso nel 1999, ha realizzato uno dei restauri più controversi del decennio appena passato.
Non è un restauro convenzionale. Piuttosto che integrare le parti mancanti, rendere visibile l’intervento e applicare tutti i buoni principi del giusto restauro, Olgiati lavora con lo scalpello: gratta via tutto l’intonaco della facciata storica mostrando la vera qualità del muro di pietra e il traliccio di rinforzo all’ultimo piano, prima nascosti dall’intonaco.
Dopo aver livellato le diseguaglianze tra le aperture, Olgiati spruzza una patina di calce bianca per proteggere la facciata e renderla unitaria. Se per l’esterno della casa l’architetto ha compiuto un gesto radicale, all’interno non è stato da meno. Essa è stato infatti completamente demolita e sostituita da nuove solette di legno e da un unico pilastro disassato, che diventerà centrale solo nel solaio, trasformando la struttura in semplice gesto espressivo.
La nuova Gelbe Haus è un sottile gioco di paradossi architettonici: è un restauro basato sulla demolizione, costruito attorno a un perno centrale disassato.
La forza espressiva di tutto l’intervento è lo scrupolosissimo attenersi all’idea o al principio che ha mosso l’architetto: restaurare togliendo materia con lo scopo di aumentare la qualità architettonica dell’edificio stesso.
Olgiati, andando contro ogni principio o luogo comune del restauro, che vorrebbe sempre un intervento reversibile, visibile e discreto, va alla radice del restauro, ridà vita a un edificio antico.
C’è chi ha definito il suo intervento letteralmente uno stupro alla vecchia Gelbe Haus; c’è anche chi lo reputa geniale, a tal punto che l’opera fa affacciare per la prima volta Olgiati sulla scena internazionale, facendo di lui una nuova stella nel firmamento dei grandi architetti contemporanei.


RAGIONE E IMMAGINAZIONE

Valerio Olgiati è un architetto svizzero, nato e cresciuto nei Grigioni e figlio di un architetto, Rudolf Olgiati, una figura venerata il cui lavoro ha mescolato i principi del modernismo con quelli dell’architettura vernacolare svizzera.
Olgiati si forma e lavora dentro la traccia forte della postmodernità svizzera. Nel periodo in cui studia al Politecnico di Zurigo, i suoi professori insegnano con il metodo rossiano dell’analogia, da cui nascerà anche la corrente di architettura analogica di cui Olgiati farà parte.
Come Peter Zumthor, Olgiati è un architetto fuori dallo star system, conosciuto per i suoi edifici senza compromessi, privi di qualsiasi ornamento, costruiti in maniera esatta e dotati di una qualità di eccellenza.
Il suo pensiero architettonico si colloca all’interno di una tradizione intellettuale centrata sul Nord Italia e la Svizzera, sotto l’ombra di grandi montagne che creano un senso di rimozione e distanza dalle grandi città. Personalità come Paul Klee, Peter Zumthor e Aldo Rossi hanno vissuto e lavorato in questa regione e offrono componenti complementari di un approccio al pensiero che è allo stesso tempo iper-razionale e al di là del razionale, e che fa della precisione uno strumento per conoscere qualcosa di difficilmente conoscibile. La precisione non è il punto, in altre parole, ma crea una soglia netta e definita su cui fare un passo verso qualcosa aldilà del razionale, come un ambiguo e inespresso senso di nostalgia. Aldo Rossi diceva: «Ho sempre diffidato di coloro che facevano dell’irrazionalità la propria bandiera: mi sembravano spesso i più sprovveduti e soprattutto quelli che non potevano cogliere proprio l’irrazionale».

Fondamentale importanza nell’educazione formale di Olgiati hanno anche i grandi edifici del passato, come quelli della magnificente architettura arcaica indiana e americana. Il suo viaggio in America, dove vive e lavora per anni, i suoi viaggi in India, in Sud America, in Oriente, gli fanno scoprire l’enorme varietà del mondo e gli infiniti “riferimenti analogici” cui un edificio può richiamarsi. Riferimenti che ha collezionato in una personalissima collezione di immagini che chiama Autobiografia iconografica: dagli interni ombrosi dei templi all’arte astratta, dalle piante degli edifici arcaici alle case classiche, queste immagini sono mostrate in ogni occasione accanto al suo lavoro, oltre che l’unico contenuto presente sul suo sito.
Nella stanza da lui curata all’ultima Biennale di Architettura di Venezia (vedi l'articolo Alla Biennale un coro di voci diverse) l’architetto svizzero chiede a molti suoi importanti colleghi di scegliere delle immagini che siano state importanti per la loro opera. Si scopre così che tra quelle più amate e ispiratrici per Peter Zumthor c’è l’Annunciata di Antonello di Messina, per Mario Botta un volto di donna di Picasso e un crocifisso medievale in pietra, per Hans Kollhof il Viandante sul mare di nebbia di Friedrich.
Lungi dall’essere riferimenti formali o citazioni colte da ricalcare e riprodurre nelle sue architetture, tali immagini costituiscono il suo proprio musée imaginaire, il mondo visivo che si trova nei suoi occhi e nella sua testa. «Ho imparato - afferma - che l’unico modo per fare architettura che non sia simbolica e non sia storica è costruire edifici che siano semplicemente pure architetture”». Lo scopo del suo progettare è produrre il “nuovo”. Egli fa l’esempio dei templi Maya come architetture “non referenziali”, che non possono cioè essere spiegate ricorrendo alle loro origini e che si presentano perciò come "pure invenzioni".

Oggi Olgiati lavora nel suo studio a Flims, in Svizzera, e insegna all’Accademia di Architettura di Mendrisio. Nel 2009 ha retto la cattedra di Kenzo Tange (uno dei più importanti architetti giapponesi) ad Harvard. All’inizio di ogni lavoro chiede ai suoi allievi un grande sforzo intellettuale per arrivare al principio del progetto architettonico: cosa vuoi affermare? Qual è l’idea fondante del tuo progetto? Un’ipotesi di lavoro che si basa sull’affermazione di principi universali in un mondo totalmente privo di capisaldi comuni.

LA STANZA-CORTE. UN ATELIER A SCHARANS

Scharans è un paesino grigionese di montagna, con le case tipiche di legno, i fienili e le stradine che innervano il tessuto di case. Passeggiano per Scharans ci si imbatte, dove meno ci si può aspettare, in un monolite rosso adornato di fiori in rilievo.
È l’atelier di Linard Bardill
, un musicista e poeta grigionese, progettato da Olgiati. L’edificio si mostra nel paese come un gioco bizzarro: nella forma è una tradizionale casa di montagna, con il tetto a falde e le decorazioni tipiche di queste zone, innestato in un luogo preciso del paese; nei fatti è un monolite in calcestruzzo rosso con i fiori alpini in rilievo che più che adornare sembrano schernire l’aspetto tradizionale, vagamente folkloristico delle case di montagna.
Il monolite ha una grande apertura verso la piazzetta del paese da cui una scala conduce alla porta d’ingresso. Dalla piazza, se si guarda nella grande apertura, si può scorgere il cielo.
Aprendo la porta del monolite si entra in un esterno: la stanza più grande dell’atelier è infatti una grande corte con un’apertura verso la piazza e un’altra sul tetto, a forma d’ellisse. Una grande vetrata divide il vero interno dell’atelier e la stanza-corte.
Il principio fondante dell’edificio è l’irresistibile fascino di una casa che ha la sua stanza più grande senza il tetto, oltre al sottile gioco architettonico di entrare in un esterno, dove il limite architettonico non è più interno/esterno, ma fuori dal monolite/dentro il monolite.
Olgiati ha raccontato in una lezione ai suoi studenti che per questa casa ha impiegato mesi a trovare un’idea convincente. Il suo cliente aveva comprato quel lotto sbilenco e le leggi di quel comune volevano il rispetto della forma del vecchio fienile preesistente. Così Olgiati ha pensato di applicare a quella legge comunale il principio della corte. Siccome poi l’idea dell’edificio è nata dallo stimolo del luogo, ha deciso di usare il calcestruzzo rosso, il colore della terra.

GUARDARE IL MONDO, CERCARE L'ASSOLUTO

Nonostante Olgiati abbia costruito prevalentemente in Svizzera, ciò non ha impedito che si inserisse nel novero degli esponenti più influenti dell’architettura mondiale. Numerose sono le opere e i progetti che hanno contribuito a tale riconoscimento, tra le quali la K+N Residence a Zurigo (2003), il centro visitatori del Parco Nazionale Svizzero a Zernez (2003), il progetto per il National Palace Museum a Taipei (2004), il suo studio di architettura a Flims (2006), un edificio residenziale a Zug (2006), la Cantina Carnasciale a Mercantale, in Toscana (2007), l’ingresso dell’edificio del gran consiglio del Canton Grigioni a Chur (2007), l’auditorium Plantahof a Landquart, in Svizzera (2008), la torre di appartamenti a Lima (2010), e soprattutto il Museo di Arte Contemporanea di Perm, in Russia (2008), un edificio iconico e fortemente concettuale.
Il lavoro di Olgiati non lascia indifferenti, ma costringe, mostrandoti un principio o un paradosso, a ripensare all’origine di ogni gesto architettonico.
I modelli, la tradizione, il principio fondante dell’architettura sono discussi o affermati con un’esplicitazione formale. Prendendo atto dello scollamento tra ogni aspetto della tradizione formale e il mondo contemporaneo, ha trovato nell’espressione concettuale il principio creativo dell’arte e dell’architettura.
Il suo linguaggio è arcaico e semplice, un linguaggio scoperto intuitivamente nei suoi viaggi, nell’osservare come l’uomo ha costruito nei diversi luoghi del mondo, e di come l’uomo ha sempre percepito lo spazio e il bello. «L’architettura c’entra soprattutto con il modo di guardare il mondo».
L’aspetto più straordinario dei suoi edifici è la decisa atemporalità. Sono realizzazioni difficili da collocare nel tempo, ma appartengono comunque al presente.
La sua ricerca intuitiva porta al nocciolo dell’espressione architettonica: l’architettura per lui è affermare qualcosa di leggibile, chiaro e assoluto, è una forma d’arte universale. Le opere di Olgiati sembrano rispondere a un’esigenza o, meglio, a un desiderio. Di arcaico, di non finito, di assoluto.