Álvaro Siza.

ÁLVARO SIZA VIEIRA Magia semplice

Con il maestro portoghese la nostra serie tocca l’estremità dell’Europa. Opere magnifiche, fatte di spazio e di luce, di fronte alle quali si ha la sensazione di scoprire l’essenziale, l’architettura allo stato puro
Lorenzo Margiotta

«È difficile pensare a un architetto contemporaneo che abbia mantenuto una presenza coerente nell’ambito della professione quanto Álvaro Siza. Che una tale presenza sia mantenuta proprio da un architetto che vive e lavora all’estremo margine atlantico dell’Europa non fa che mettere in risalto la sua autorità e la sua condizione. Protetto dalla sua collocazione isolata, emana una saggezza universale». Con questa motivazione nel 2012 è stato assegnato il Leone d’oro alla carriera della XIII Mostra internazionale di architettura di Venezia al portoghese Álvaro Siza Vieira (Matosinhos, Porto, 1933).
Dall’amato Portogallo ha seguito tutte le metamorfosi dell’architettura mantenendo la ferma coerenza delle idee semplici e lo sguardo incantato della marginalità.
«La motivazione riconosce un valore aggiunto per la mia architettura, derivante dal fatto che vivo da sempre all’estremità dell’Europa. Pur viaggiando molto per creare, forse ho saputo e potuto fare di questo isolamento creativo un’opportunità, piuttosto che un limite».
Capofila della Scuola di Porto – una delle poche scuole di architettura riconoscibili in Europa, di cui fa parte anche il suo connazionale Eduardo Souto de Moura –, Siza è animatore di un ambiente professionale divenuto, per vivacità e originalità, un riferimento nel panorama dell’architettura internazionale negli ultimi decenni.


«E fu tutto grazie all’acquisto casuale di quella rivista!»

Una delle persone che determinano la sua formazione di architetto è stato Carlos Ramos, direttore della scuola di belle arti di Porto quando Siza era studente. Fu lui a rinnovare completamente il corpo docente, chiamando come nuovi professori giovani neolaureati come Fernando Távora, Jose Carlos Loureiro, Mário Bonito, dando avvio a un momento di grande rinnovamento della scuola. Un periodo che Siza ricorda così: «La cosa che all’inizio mi colpì di più fu il nuovo clima all’interno della scuola: il contatto con un corpo docente composto da giovani insegnanti e lo stretto rapporto esistente fra gli studenti e i professori… una sincera fraternità! In modo particolare mi segnò la personalità di Tàvora».
Carlos Ramos fu anche protagonista di un episodio che segnò la strada di Siza. «La prima volta che fece una critica a un mio lavoro, mi disse: “Si capisce subito che tu non sai niente di architettura. Comprati qualche rivista!”. E andai a comprarle. Ne saltò così fuori una dedicata ad Alvar Aalto, era l’Architecture d’aujourd’hui, era un numero monografico su Alvar Aalto. E io rimasi completamente… La mia formazione fece grandi passi avanti. E fu tutto grazie all’acquisto casuale di quella rivista!».
Quegli anni, terminata la guerra, segnarono anche un grande cambiamento nella libertà di stampa. Il regime dovette tollerare una certa apertura nella circolazione delle notizie e nelle facoltà di architettura portoghesi comparvero le prime riviste inglesi, italiane e persino quelle giapponesi, «che tutti compravano perché costavano meno». E inoltre si cominciò a viaggiare fuori dal Paese, e vedere le opere degli architetti del Movimento Moderno. «Ne approfittammo anche per andare a vedere l’architettura della città… Le Corbusier e tutto il resto. Be’ il nume tutelare di quella nuova generazione era Le Corbusier. Rappresentava l’anelito verso il rinnovamento, verso la modernità. Subito dopo sbocciò, e ciò avvenne con molta naturalezza, perché era come una conseguenza diretta della presenza di Le Corbusier, l’architettura brasiliana…».
Tanto che, prosegue Siza, «si creò un clima di entusiasmo, di rinnovamento e uno spirito di gruppo». Uno spirito che Siza porta con sé quando intraprende l’attività professionale alla fine degli anni Cinquanta. Come ricorda Souto de Moura, ai tempi suo collaboratore: «Ho il ricordo della scuola pratica, nel suo studio, dove si parlava di architetti… Lui viaggiava e veniva a raccontarci di chi aveva conosciuto». E s’imparavano a memoria questi nomi, Robert Venturi, Aldo Rossi... «Poi apparve il libro di Rossi. Stabiliva un metodo per leggere la città e per progettare con riferimenti alla storia non solo dell’architettura, ma anche al cinema e ad altri mondi… Era una cosa che noi non avevamo mai conosciuto. Praticamente noi guardavamo la città come un bue guarda un palazzo… la città era per noi come un foglio bianco che avevamo davanti e del quale non sapevamo cosa farci».


«Inizio un progetto quando visito un luogo»

Per Álvaro Siza «la coscienza della realtà comincia dalla “conoscenza del luogo”» (R. Moneo). Siza lavora osservando la realtà. È attento al paesaggio, ai materiali, ai sistemi di costruzione, agli usi, alle persone che occuperanno l’opera costruita. È questa una delle caratteristiche più importanti della sua opera, che emerge fin dai primissimi progetti: la capacità di realizzare un’architettura sensibile a tutte le sfumature del luogo in cui viene costruita, a partire dalle quali è possibile creare edifici sempre differenti gli uni dagli altri, sempre pronti a modificarsi nella ricerca continua, nell’attenzione verso ogni elemento presente nel sito.
È il caso della Casa del Tè Boa Nova (1958-’63), sua opera prima, in cui il fabbricato è concepito come l’incontro del costruito con il suolo, in una dialettica tra architettura e natura fondata sul contrasto più che sulla mimesi, sul conflitto più che sulla sintesi.
Qualcosa di simile avviene nella Piscina delle maree del 1958 a Leça da Palmeira (Portogallo), dove Siza costruisce, col cemento e la roccia, un nuovo territorio orizzontale, una sorta di “mare artificiale”, un «Atlantico prigioniero, che permette di fare il bagno dopo essere riusciti a isolarne e placarne una porzione». Di nuovo ci troviamo di fronte a questa capacità di trarre profitto dalla dialettica degli opposti, ovvero l’ambiente naturale e l’oceano da un lato, e l’artificio del costruito, il recinto adibito al bagno, dall’altra.
La costruzione di una relazione con il luogo è il frutto di una “difficile conquista”, condotta sia con un’intuizione immediata della più giusta collocazione dell’edificio - la capacità, come Tavora la definisce, di “far sedere” l’edificio correttamente - sia con la costruzione di un sistema di relazioni tra l’architettura e il contesto.
«La mia architettura non ha un linguaggio prestabilito», scrive: «né aspira a diventare essa stessa un linguaggio, si tratta piuttosto di una risposta a un problema concreto, una situazione di trasformazione di un luogo alla quale partecipo. Un linguaggio prestabilito, puro e semplice, non mi interessa».




«Mi affascina vedere come una piccola sorgente di luce possa venire moltiplicata non so quante volte»

Gli edifici di Siza nascono da disegni fatti al telefono, in aereo, in casa di amici, al bar, sulle tovaglie dei ristoranti e, preferibilmente, davanti alla televisione. È una scrittura automatica, fatta di schizzi rapidi, nervosi, dal tratto sottile, che costituisce il prodotto delle riflessioni sul luogo, sullo spazio, sul tempo e sulla luce, gli elementi fondamentali della sua architettura. E, oltre a questi, la tradizione, intesa come identità in evoluzione, come continuità con il passato: «Mi dicono che le mie opere nuove e vecchie si basano sull’architettura tradizionale della regione. La tradizione è una sfida all’innovazione. Sono conservatore e tradizionalista, cioè mi muovo tra conflitti, compromessi, ibridazioni, trasformazioni».
L’architettura di Siza tocca molti mondi e molti periodi, ma nel suo fondo vi è l’idea di spazio che si manifesta in modi differenti, tanto che, secondo lo storico William J.R. Curtis, «le sue migliori architetture non sono affatto veri edifici, ma superfici di spazio e di luce». «Nel suo lavoro – prosegue – vi è una continua ricerca sulle caratteristiche fisiche e simboliche di pareti piane, aperture elementari, percorsi tortuosi, volumi compressi o espansi. Opera con tecnologie in sé modeste – semplici strutture in cemento armato, intonaco, calce, rivestimenti in pietra, carpenteria metallica – perché il materiale “primario” è solo lo spazio abitabile».
Tavora lo descrive in poche righe come «grande costruttore di spazi e di immagini magnifiche, artefice di un’opera estremamente complessa ma profondamente semplice e di grande forza creatrice». Per il grande architetto spagnolo Rafael Moneo, «nel caso di Siza siamo al cospetto di un architetto che tiene conto del contingente, dell’imprevisto. La sua architettura riconosce l’importanza dell’istante e si sorprende davanti a uno stato di cose che avrebbe potuto essere in un altro modo».


Tre architetture

Tra gli interventi più noti dell’architetto portoghese vi è il Centro Galego de Arte Contemporanea a Santiago di Compostela del 1983-1993. Qui Siza, che nel 1992 è insignito del Pritzker Price (il premio Nobel dell’architettura), costruisce un corpo allungato rivestito di granito che sembra galleggiare sopra un basamento di piattaforme e rampe. Superfici piane e bianche modellano la luce, che penetra da numerose fenditure, e la distribuiscono sui capolavori d’arte, in una sequenza di ambienti di differente volumetria e intensità. Le contrazioni ed espansioni dello spazio generano un’impressione di quiete e di misura. Le stesse superfici paiono sensibili perfino al passaggio di una nuvola.
Ma l’opera che ne consacra la fama su scala mondiale è il Padiglione del Portogallo realizzato per l’Expo di Lisbona del 1998. L’edificio, che ancora una volta affaccia sull'acqua (in questo caso, la foce del Tago), è riassunto dall’immagine della grande vela in calcestruzzo armato, di spessore variabile tra i 10 e i 20 centimetri, che genera una straordinaria piazza coperta di oltre 60 metri, senza appoggi intermedi.
Tra le opere più recenti va ricordato invece il Museo Iberê Camargo di Porto Alegre (2001-2007). La possente plastica che ne definisce l’immagine complessiva è generata dalla volontà di collegare i diversi livelli mediante un fluido percorso che risale la facciata curvilinea, ora intrecciandosi con essa, ora divenendo un elemento aereo. L’articolazione delle forme non è il frutto di una modellazione scultorea, ma ha origine dall’attitudine a pensare l’architettura articolando gli spazi, interni ed esterni, in considerazione della vita che si dovrà svolgere nell’edificio, lasciando che ciò determini la forma complessiva finale.


«Penso che la crisi sia il fattore di speranza»

Il giudizio di Siza sullo “stato di salute” dell’architettura contemporanea è molto negativo. «In Europa la situazione è tremenda. Manca il lavoro architettonico di qualità, anche in Paesi che hanno sempre tenuto molto a questo. Ci sono nazioni dove ancora si costruisce qualcosa di buono, ma sempre meno, e solo icone, realizzazioni di prestigio. Se non sono icone, allora si costruisce male. E va sempre peggio. I Paesi Bassi e la Francia, che hanno sempre tenuto molto all’architettura, adesso subiscono un tracollo. In Italia invece non si costruisce male, semplicemente non si costruisce più. Però questo forse è il male minore». Qui Siza ha recentemente restaurato la Chiesa Madre del Comune di Salemi (TP) e la piazza antistante, e curato il progetto per la riqualificazione di Palazzo Donnaregina, ora sede del Museo Madre di Napoli. È anche autore di un progetto dedicato a corso Sempione, che nelle sue intenzioni sarebbe dovuto diventare un boulevard alberato, lasciando alle auto solo le corsie laterali. Del progetto, che ha regalato quattro anni fa al Comune di Milano in vista di Expo 2015, non se ne sa più nulla.
L’architetto portoghese rivendica il diritto e il dovere di lavorare con tempi lenti e ragionati. «Il tempo è importantissimo, perché la velocità del nostro mondo e il non rispettare i ritmi vitali dei progetti hanno portato l’architettura non solo ad allontanarsi dalla gente, ma anche a costruire troppo e male. Questo modo di fare ha avuto conseguenze terribili, sia sull’economia sia sulla società. C’è uno stretto rapporto fra questa fretta di costruire e speculare e il costo sociale e qualitativo della vita».

Alvaro Siza: «La crisi. Penso che la crisi sia il fattore di speranza».
Souto de Moura: «La crisi… lo sai che in greco vuol dire “cambiamento».
Alvaro Siza: «Io credo che ci sarà un cambiamento, e il semplice fatto di parlare di cambiamento… mi dà una certa speranza».