Gabriele Basilico al lavoro.

GABRIELE BASILICO Obiettivo stupirsi

Dell'architetto aveva solo la laurea. Le città non le ha progettate, ma ritratte. Dalle periferie di Milano alle nuove capitali, passando per le macerie di Beirut. Il "contributo di sguardo" del grande fotografo appena scomparso
Luca Fiore

Non ha mai progettato un edificio in vita sua. Nemmeno un oggetto di design: una sedia o una caffettiera. Dell’architetto aveva solo la laurea al Politecnico di Milano. Eppure il fotografo Gabriele Basilico, scomparso lo scorso 13 febbraio, è stato uno dei protagonisti dell’architettura contemporanea. Il suo contributo è stato un contributo di sguardo. Ed è per questo che abbiamo deciso di farlo rientrare nella nostra serie intitolata, appunto, Guardare la città.
Basilico nasce a Milano nel 1944. Si iscrive alla facoltà di architettura nel 1963, in un momento di grande fermento politico e culturale. Proprio in quell’anno si assiste alla prima occupazione della facoltà. Si protesta contro la candidatura a preside di Antonio Cassi Ramelli, reo di aver progettato la sede della Snia Viscosa, in corso di Porta Nuova a Milano: un edificio con archi e colonne, in stile eclettico-neoclassico. Un’opera vecchia, si dice, lontana dal nuovo gusto razionalista che si stava diffondendo con successo in Europa e nel mondo. Ma a segnare la formazione del giovane Basilico è un libro uscito l’anno successivo, scritto da un altro professore della stessa facoltà: L’architettura della città, di Aldo Rossi. Di Rossi il futuro fotografo farà suo il procedimento di confrontare i singoli edifici con il tessuto urbano e la nozione di “fatto urbano”, che pone il tema del rapporto con la storia della città e dei monumenti.
Come però capita nella vita, Basilico non diventa architetto e prende un’altra strada. Ad affascinarlo sono film come Z, l’orgia del potere di Jacques Perrin o Blow Up di Michelangelo Antonioni, ma anche l’amicizia con i fotografi Ugo Mulas e Gianni Berengo Gardin. La via da cui entra nel mondo della fotografia è quella del reportage sociale. A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta le occasioni non mancano e Basilico si ritrova spesso a documentare i cortei e le manifestazioni per le strade di Milano. Ma col tempo, è ormai la metà degli anni Settanta, la spinta ideologica viene meno e con essa l’interesse per il “sociale”. Dirà poi delle immagini dei cortei: «Di fronte ai provini tutti uguali, ho percepito l’inutilità di questo lavoro. E poi ho percepito che io sono diverso».

MILANO, LE FABBRICHE
«La città era semideserta e un vento straordinariamente energico aveva ripulito l’orizzonte: era una giornata di luminosità eccezionale, uno di quei rari giorni che stupiscono i milanesi perché “si vedono così bene le montagne che sembra di poterle toccare con la mano”. Il vento, quasi assecondando una tradizione letteraria, sollevava la polvere, metteva agitazione nelle strade, puliva gli spazi fermi, ridonando plasticità agli edifici, rendendo più profonde le prospettive delle strade in una sorta di maquillage atmosferico che permetteva alla luce di proiettare con vigore e nettezza le ombre degli edifici»

La carriera di Basilico cambia nel weekend di Pasqua del 1978. Milano è deserta e lui inizia una peregrinazione per le strade della periferia che lo porterà a realizzare la sua prima grande mostra: Milano, ritratti di fabbriche. Si arma di una carta topografica 1/5000 dove segna le zone industriali e per i due anni successivi le percorre ritraendo edifici e strade come, in Italia, nessuno aveva mai fatto. Negli occhi ha le immagini scattate dai coniugi Bern e Hilla Becher, i due fotografi di Düsseldorf che all’inizio del decennio precedente avevano iniziato una catalogazione delle architetture industriali tedesche. I Becher ritraggono impianti industriali come torri dell’acqua, di raffreddamento o di estrazione, gasometri, altiforni e forni da calcina, silos per i cereali e capannoni. Gli oggetti si stagliano contro un cielo grigio chiaro, la luce non crea ombre nette e la gamma dei toni di grigio è la più ampia possibile. Fotografo e osservatore si collocano in posizione simmetrica rispetto all’asse verticale della foto. I soggetti vengono raggruppati per “tipologie” ed esposti in sequenze di immagini simili e al contempo uniche. Con i Becher la documentazione si fa arte concettuale, tanto che alla Biennale di Venezia del 1972 vincono il Leone d’oro per la scultura. Di questo nuovo modo di fare fotografia Basilico mutua la sistematicità della ricerca e l’attenzione per l’architettura industriale. Il risultato però è molto diverso e, non a caso, il fotografo definisce queste immagini ritratti. Le loro atmosfere metafisiche ricordano quelle di alcuni quadri di Mario Sironi.


LA SCOPERTA DEL PAESAGGIO
«Nel panorama di Le Tréport tutto è visibile: lo sguardo si riappropria del potere del comandante che, da sopra la collina, dirige e osserva le fasi della battaglia in corso, ma anche del senso di onnipotenza stupita del bambino di fronte al mondo, di tutto il mondo che non è lui».

Milano, ritratti di fabbriche viene notato dai responsabili della Mission Photographique de la DATAR, che arruola Basilico nella più grande committenza pubblica nella storia della fotografia. A ventotto fotografi, tra i quali Robert Doisneau e Joseph Koudelka (lui è l’unico italiano), viene chiesto, in piena libertà, di rappresentare il paesaggio francese degli anni Ottanta. Il progetto dura dal 1984 al 1988 e il fotografo italiano si trova a esplorare la costa del Mare del Nord. Il risultato di quel lavoro confluirà nel libro Bord de Mer. Qui Basilico fa una delle scoperte più importanti della sua carriera: il paesaggio. La sua cultura fotografica, infatti, era fino ad allora legata alla lezione del “momento decisivo”, sul quale si fonda ancora oggi il mondo del reportage. Se il lavoro sulle fabbriche milanesi si era plasmato sull’attenzione all’architettura, tra Dunkerque e Le Havre Basilico vede per la prima volta con chiarezza la potenzialità espressiva del rapporto tra costruzioni umane e paesaggio naturale. Al “momento decisivo” si sostituisce la “lentezza dello sguardo”. Il fotografo fa un passo indietro per far posto a una visione «solo apparentemente soggettiva della realtà e caratterizzata da un grande rispetto verso le cose». Basilico racconta come su una collina sopra il paese di Le Tréport ha l’“epifania” del paesaggio. Da allora le sue immagini non saranno più le stesse.


OLTRE AI BORDI
«Nella didattica della fotografia, ma anche della pittura e dell’architettura, si impara a esercitare un forte controllo sui bordi, a comporre la relazione fra il centro e i margini. Le tele di Belletto (vedutista del XVIII secolo, ndr) mi avevano stupito perché l’artista non sembrava considerare i bordi ma, al contrario, trasgrediva le regole della composizione. Pensavo che quel modo di tagliare “casualmente” i bordi del quadro, potesse voler affermare che il quadro non terminava lì, che il mondo rappresentato esisteva oltre la cornice e che l’interruzione delle forme e degli eventi suggeriva la possibilità di poter spingere lo sguardo oltre il quadro stesso...»

È durante il lavoro per la DATAR che lo stile di Basilico si delinea in modo definitivo. Già in Milano, ritratti di fabbriche c’era la scelta programmatica di non ritrarre in alcun modo la figura umana. L’interesse è all’architettura e al paesaggio urbano: anche solo la presenza di una persona nell’inquadratura ha la forza di catalizzare su di sé tutta l’attenzione. L’uomo, nella fotografia di Basilico, è sempre presente, ma è fuori dall’immagine. È protagonista perché guarda. Nel progetto francese, poi, viene scelta per le riprese una macchina fotografica di grande formato (banco ottico), strumento che diventerà una costante nei lavori successivi. Spiegava Basilico: «Quello che conta è che la macchina di grande formato, con il cavalletto e con il suo tempo lungo di preparazione aiuta a vedere con gli occhi e non con la macchina, abituando a guardare per fotografare. In un certo senso la tecnica e il modo di “guardare”, che sono strettamente connessi, impongono un modello di comportamento». Infine la sua attenzione non si posava soltanto sulla forma degli edifici, sulle facciate, sugli angoli, sulle superfici, sulla profondità dei volumi, ma anche su tutto ciò che contribuisce al “disegno urbano” dello spazio. Diventano coprotagonisti nelle immagini, dunque, anche la segnaletica stradale, i cartelli, le corsie e le zebre sull’asfalto, i pali dell’illuminazione e la trama dei cavi elettrici. Quel che stupisce nelle immagini di Basilico è che tutti gli elementi della complessità del paesaggio urbano vanno a ricomporsi in un’armonia inattesa.

LA MALATTIA DELLA PELLE DI BEIRUT
«A Beirut credo che la sfida fosse soprattutto quella di cercare le chiavi che mi avrebbero consentito di far nascere un rapporto personale e affettivo con il luogo e di instaurare un dialogo con la città che fosse il più umano possibile. Volevo familiarizzare, smettere di considerare la città come una grande ferita aperta, come un teatro della memoria o come una reliquia».

Nel 1991, Basilico viene di nuovo chiamato per un progetto di respiro internazionale. L’idea è della scrittrice libanese Dominique Eddé che invita un gruppo di fotografi (gil altri sono Robert Frank, Fouad Elkoury, Josef Koudelka, René Burri e Raymond Depardon) a ritrarre la Beirut appena uscita dalla guerra civile. La volontà è di documentare la città prima che iniziasse la ricostruzione. La capitale libanese è una città sventrata. Il centro storico è pressoché deserto. Mura crollate, pareti crivellate. «Sul piano emotivo volevo soprattutto combattere il sentimento di dolore che avevo provato non appena avevo visto la città alla luce del giorno», racconta Basilico: «Una città la cui bellezza era impressionante tanto quanto lo era stata la sua distruzione». La decisione è quella di non enfatizzare un dramma che parlava già da sé. Lo sguardo del fotografo cerca gli aspetti di normalità tra le mura sbrecciate. E vede l’attesa di queste strade e di questi palazzi dove le persone, prima o poi, torneranno a vivere. La guerra ha lasciato sulle superfici della città, come la chiama lo stesso basilico, una “malattia delle pelle”. A Beirut Basilico inizia a usare le pellicole a colori, anche se il corpus principale del lavoro resta in bianco e nero. Da allora il fotografo, a seconda del progetto, alternerà i due “generi” della fotografia.


COME UN RABDOMANTE
«Credo che il mondo, e con lui indubbiamente l’architettura, possa quindi essere osservato con un atteggiamento contemplativo, da un punto di vista lontano, con l’obiettivo di trattenere quanti più frammenti possibili. Alla fine, è come se il luogo parlasse da sé e io mi limitassi a posare il rettangolo della camera sull’immagine del mondo. La fotografia, l’edificio, l’architettura sono semplicemente un pezzo sottratto a quel mondo».

Il lavoro su Beirut consacra Basilico a livello internazionale. Da allora lavorerà con i più grandi architetti del mondo. Ma sono tre le personalità a cui si lega più: il maestro Aldo Rossi, lo svizzero Luigi Snozzi e il portoghese Álvaro Siza. Ma c’è un altro architetto con cui collabora, soprattutto per sviluppare dal punto di vista teorico le sue riflessioni sul rapporto tra fotografia e architettura. È l’urbanista Stefano Boeri. È lui a suggergli, ad esempio, il termine Scattered City, la città diffusa, che darà il titolo a un altro importante progetto. Gli ultimi anni sono dedicati alle “nuove” capitali: la Silicon Valley, Mosca, Istanbul, Shanghai. Ogni volta con il suo cavalletto in spalla si aggira per le strade come un “rabdomante”, come piaceva dire a lui, in cerca del giusto punto da dove scattare. Dove appoggiare lo sguardo. C’è una scena nel documentario a lui dedicato, realizzato da Contrasto, in cui si vede il fotografo camminare in una zona industriale di un porto. Chi guarda si domanda che cosa ci sia di interessante da fotografare. Ma quando ancora il pensiero non si è spento nella mente si sente Basilico dire con la sua voce gentile: «Guarda che bello». È come se per tutta la vita avesse conservato lo sguardo con cui da bambino entrò con la nonna nel Duomo di Milano:

«Ricordo con nitidezza la percezione di uno spazio infinito, denso di mistica solennità, con la fuga delle navate che sfumava nel buio, verso l’alto, in uno spazio pervaso da una sottile atmosfera nebbiosa. Il perdersi dentro un lontano infinito, non misurabile, il sentirsi piccolissimi nell’illimitato erano sensazioni bellissime e inebrianti».




(i testi sono tratti da Luigi Basilico, Architetture, città, visioni, Bruno Mondadori)