Corderie dell'Arsenale.

Alla Biennale un coro di voci diverse

Inizia una serie di articoli sull'architettura contemporanea. Per capire come e da chi sono fatte le nostre città. Si parte con una guida all'esposizione internazionale di Venezia curata da David Chipperfield
Lorenzo Margiotta

Questo mese Tracce.it inaugura una serie di articoli sull'architettura contemporanea. Affronteremo le figure di alcuni grandi maestri dell'architettura di oggi, per la maggior parte viventi. Il tentativo sarà quello di imparare a guardare i luoghi in cui viviamo con uno sguardo più consapevole, capace di cogliere che dietro un'architettura c'è sempre un uomo che l'ha immaginata, e c'è, nei casi migliori, la rappresentazione del nostro tempo.
Un percorso per non "addetti ai lavori". Per capire di più che cos'è l'architettura, che cosa la distingue dall'edilizia, e che cosa sta avvenendo nelle città in cui viviamo.



Per capire che cosa sia la tredicesima Biennale internazionale di Architettura, bisogna prima dire quello che non vuole essere. Non vuole essere, come in alcune edizioni è capitato che fosse, una lunga serie di presentazioni monografiche dell’opera delle grandi archistar mondiali; non vuole essere la sfilata degli edifici più recenti e più scintillanti apparsi da New York a Doha, né vuole essere il conflitto tra punti di vista intorno a un tema generico e alla moda.
Quest’anno il tema - Common Ground, il terreno comune - è forte e ben sviluppato dal curatore, l’inglese David Chipperfield (formatosi alla scuola di Richard Rogers), che dirige bene un coro fatto da tante voci diverse, scongiurando l’effetto schizofrenia che solitamente prende il sopravvento lungo l’esposizione.

Più che un argomento di discussione, Common Ground è, nelle parole del curatore, «una provocazione rivolta ai miei colleghi a esaminare ciò che ci accomuna piuttosto che quel che ci distingue, e accettare il fatto che la buona architettura non dipende solo dal genio e da azioni individuali e isolate». Il contrario, per intenderci, di quanto avvenne nel 2010, quando, sotto il titolo People meet in architecture, la giapponese Kazujo Sejima invitò ciascun partecipante a mostrare le molteplici possibilità dell’architettura e dar conto della sua pluralità di approcci.
In una fase di crisi acuta della professione, che sconta come e più di altre la crisi economica, e della ricerca espressiva, che rischia di arenarsi in una tensione irrisolta tra “diversi”, la sfida di Chipperfield sta invece nel trovare un’alternativa al pensiero debole (che in architettura è, se possibile, ancora più debole), alla miriade di punti di vista e alla babele di linguaggi, ritrovando le idee comuni e condivise che costituiscono la base di una cultura architettonica.
Un tentativo ardito e allo stesso tempo del tutto necessario, che si declina in 69 progetti realizzati da architetti, fotografi, artisti, critici e studiosi, ai quali non viene chiesto semplicemente di esporre un progetto, ma piuttosto di curare a loro volta una piccola mostra nello spazio assegnato, nel quale ospitare i lavori di amici, maestri, artisti e affini con i quali condividono un Common Ground.

È questa la grande novità concettuale di questa Biennale. Che da una parte riafferma, o perlomeno si domanda, quali sono i compiti, i fondamenti, le responsabilità dell’architettura, i cui confini sono stati messi in discussione dall’eccessiva contaminazione con mondi e settori, come la comunicazione, la moda, l’arte o il design, divenuti in molti casi predominanti. Dall’altra ribadisce il valore di un’architettura che si pone il problema di durare nel tempo, che abbia cioè una sua dimensione storica e non rappresenti il presente solo nelle sue manifestazioni più effimere e transeunti.
L’onere di dimostrare queste tesi è affidato da Chipperfield soprattutto a quegli architetti (come Peter Eisenman, Diener & Diener, Toshiko Mori, Hans Kollhof e molti altri) che documentano l’esistenza di un retroterra disciplinare comune, un repertorio fatto di maestri, immagini e conoscenze ai quali restare ancorati.

COMMON GROUND. ANTOLOGIA
Quella che qui proponiamo è un’antologia essenziale e personale, che di fronte alla quantità delle opere in mostra lascia alle spalle ogni ideale di ecumenismo – illusorio e paradossale come l’“ideale” di poter ricordare tutto – e cerca di trattenere il meglio.
Nel Padiglione Centrale un bell’esempio di common ground è raccontato dal critico Fulvio Irace nella sua Facecity. Un’installazione tutta milanese che, attraverso fotografie in bianco e nero, disegni originali e filmati delle facciate di Caccia Dominioni, Ponti, Gardella, Magistretti, Mangiarotti, Morassutti, Asnago e Vender, interpreta la Milano degli anni ’50 e ’60 come un’opera creata collettivamente, un terreno comune su cui architetti diversi hanno operato come un’unica scuola. Le facciate stavano a indicare un mondo di esattezza, precisione e leggerezza. Esse costituivano un paesaggio di luci scintillanti (come le tessere di ceramica che rivestono il Pirellone) dove tutto sembrava non toccare il suolo.
Alle Corderie dell’Arsenale ci soffermiamo a osservare La Ruta del Peregrino, installazione che mostra i progetti realizzati da un gruppo di nove giovani architetti europei e americani, in collaborazione con vari artisti, lungo la strada del pellegrino, un percorso di 117 chilometri che fin dal XVII secolo porta ogni anno due milioni di messicani alla Vergine di Talpa. Dormitori, cappelle, punti di osservazione del paesaggio e altre costruzioni non sono solo la risposta a necessità pratiche, ma anche tracce senza tempo che scandiscono il cammino e, come punti emergenti, ne riverberano la bellezza.
Dal Messico al Venezuela: l’installazione di Urban-Think Tank (vincitori del Leone d’oro) ricostruisce un pezzo di Caracas, e precisamente un interno della Torre de David, enorme grattacielo incompiuto occupato abusivamente da anni e diventato una “favela verticale”. Ma è solo l’anticamera di quella che è forse la più bella stanza di questa esposizione.

Stiamo parlando di Pictographs, di Valerio Olgiati. L’architetto svizzero tocca una delle sfumature più belle del common ground, e cioè il campo dell’immaginazione in architettura. «Ho chiesto ad alcuni architetti di oggi di scegliere delle immagini che siano state importanti per la loro opera. Ogni architetto ha creato il proprio musée imaginaire scegliendo da una a dieci immagini. Si tratta del mondo visivo che si trova nella loro testa». L’allestimento, fortemente ieratico, è fatto da un grande “piatto” bianco che dimezza l’altezza della sala, sotto il quale è disposto un piano con le immagini. Si scopre così che tra quelle più amate e misteriosamente ispiratrici per Peter Zumthor c’è l’Annunciata di Antonello di Messina, per Mario Botta un volto di donna di Picasso e un crocifisso medievale in pietra, per Hans Kollhof il Viandante sul mare di nebbia di Friedrich.

Passando all’esterno, nel Giardino delle Vergini (opera del paesaggista olandese Piet Oudolf per l’esposizione 2010), due nomi su tutti si impongono. Sono quelli di Álvaro Siza ed Eduardo Souto Moura, che realizzano due strutture separate ma in rapporto tra loro, entrambe costituite da semplici pareti, che danno luogo a stanze alle quali si accede attraverso un ingresso e dalle quali si guarda fuori attraverso fessure o finestre. La prima realizzata in una zona con grandi alberi, a ricreare una relazione con un ambiente urbano; la seconda affacciata sull’acqua.
Attraverso pareti e aperture che inquadrano l’ambiente veneziano, i due architetti portoghesi riflettono sui principi fondamentali dell’architettura – il common ground della disciplina – e sembrano volerci dire che essa, in fondo, non è altro che la giusta composizione dei suoi elementi essenziali: una porta, un muro, una finestra, e il modo in cui dall’interno si guarda fuori. Tutt’altro che una riduzione o una banalità, soprattutto se a questo risultato si arriva, o si ritorna, dopo quarant’anni (a Siza è andato quest’anno il Leone d’oro alla carriera). Lo stesso Le Corbusier ha trascorso gli ultimi anni della sua vita a Cap Martin, in Costa Azzurra, dove aveva progettato e costruito il Cabanon, un capanno in legno di pochi metri quadrati.

PERCHÉ E PER CHI SI COSTRUISCE UN'ARCHITETTURA?
Come spesso accade, i Padiglioni Nazionali hanno risposto in modo molto diseguale al tema proposto, talvolta tentando riconnessioni avventurose al tema generale della mostra.
Non è così per il Padiglione del Giappone (premiato con il Leone d’Oro per la migliore Partecipazione nazionale), che centra in pieno il senso della mostra di quest’anno e lo eleva ulteriormente. A un anno dal terremoto che ha devastato la regione orientale del paese, il grande architetto giapponese Toyo Ito documenta con oltre cento modelli il progetto Home-for-All, da poco concluso nella città di Rikuzentakata. Un luogo dove studenti e costruttori incontrano chi ha perso tutto per discutere insieme il progetto di una nuova casa-per-tutti, un luogo dove «per la realizzazione dei pilastri abbiamo sfruttato i tronchi di cedro abbandonati al suolo dallo tsunami». Una zona devastata da una catastrofe offre allora la possibilità di considerare in modo nuovo che cosa sia l’architettura, riformulando questioni di fondo: perché si costruisce un edificio? per chi?
Non per alimentare l’originalità individuale, com’è avvenuto fin dall’inizio dell'era moderna, dice Toyo Ito. Che identifica la risposta in Home-for-All: «Una pianta che emerge tra le macerie, un’architettura/forma di vita in divenire. Una dimora temporanea, un simbolo della volontà forte di rinascere».

Usciamo, al termine del percorso, da una Biennale bella e riuscita, nonostante qualche caduta e qualche incoerenza, peraltro inevitabili in un’esposizione di tale portata. Una Biennale anche molto italiana, non tanto per il numero di architetti nostrani esposti, ma per il suo tema, la sua concezione, la sua tesi da dimostrare. Lo afferma lo stesso Chipperfield, nella sua introduzione al bel catalogo di Marsilio: «L’italia rimane la patria spirituale dell’architettura. È qui che si può comprendere pienamente l’importanza dell’edificio non come spettacolo individuale, bensì come manifestazione di valori collettivi e scenario della vita quotidiana».

Biennale Architettura 2012 - Common Ground

Venezia - Giardini e Arsenale
Fino al 25 novembre 2012
orario 10.00 - 18.00; chiuso il lunedì
www.labiennale.org