Damien Hirst, <em>For The Love of God</em>, 2007, Damien Hirst.

DAMIEN HIRST. Dalla morte alla vita, andata e ritorno

L'artista vivente in cui più converge l'arte degli ultimi cinquant'anni. Animali imbalsamati e una testa di mucca che nutre delle larve. Molto provocatorio, Hirst obbliga a guardare la fragilità umana, come anche la bellezza
Davide Dall’Ombra

Damien Hirst è l’artista vivente "più" al mondo. Più pagato, più famoso, più furbo… e più emblematico del sistema dell’arte contemporanea. Anche chi pensa di non conoscerlo spesso si ravvede quando si citano due o tre delle sue opere più celebri: il grande squalo tigre, la mucca fatta a fette, o il teschio a grandezza naturale ricoperto di diamanti. Per molti aspetti Hirst, inglese classe 1965, è il punto d’arrivo e d’incontro dell’arte degli ultimi cinquant’anni, perché ha saputo condensare nella sua opera e nella sua persona correnti artistiche apparentemente opposte, vestendo contemporaneamente i panni del nipotino di Andy Warhol e di Francis Bacon e raccogliendo i frutti di correnti artistiche apparentemente opposte come l’espressionismo, il minimalismo e il concettuale. Chi giudicasse eccessiva una collocazione così cruciale, per un artista che non ha ancora 50 anni, dovrà fare i conti con vent’anni di opere (1989-2009) che, lo si voglia o meno, hanno segnato la storia dell’arte e con le quali si è guadagnato, tra i 24 e i 44 anni, la grande retrospettiva alla Tate Modern di Londra, in corso in questi mesi. Si tratta di una produzione organizzata in cicli molto diversi tra loro per tecnica e materiali, ognuno dei quali farebbe, da solo, la fortuna di un artista.

La dura fragilità della vita
È il 1989. Una grande teca di vetro rettangolare è divisa in due ambienti comunicanti tra loro. A destra un cubo bianco nasconde delle larve di mosche. A sinistra, una testa di mucca dà il proprio sangue come alimento alle mosche appena nate e destinate presto a morire, attratte in una lampada antizanzare posta appena sopra. È l’opera A Thousand Years (Mille anni): un ciclo vitale chiuso mette in scena la nascita, la vita e la morte. Hirst è mosso dalla necessità di darci un’immagine capace di rappresentare il dramma dell’esistenza e della sua inevitabile fine e impone con prepotenza il tema della nascita, della vita e della morte, quali necessari protagonisti dell’arte. L’intento dell’opera, dichiara l’autore, non è spaventare ma obbligare lo spettatore a stare di fronte ad un’immagine convincente di ciò che normalmente non ha il coraggio di guardare. Hirst attribuisce all’artista il compito di farci fare i conti con aspetti scomodi e inevitabili della realtà, come la brevità della vita.
Non è un caso che, due anni dopo, una teca simile a questa racchiuda in una prigione claustrofobia una sedia d’ufficio e una scrivania, sulla quale sono posti un portacenere pieno, un pacchetto di sigarette e un accendino: moderni strumenti di morte da cui l’uomo impara a dipendere, fino a rimanerne intrappolato: The Acquired Inability to Escape (L’acquisita incapacità di scappare) è il titolo.

L’inevitabilità della morte

Racchiudere le proprie opere in una teca non è solo un modo per concentrare la tensione, è un tributo alle geometrie usate da Francis Bacon per i propri dipinti, ad esempio alcuni Papi urlanti. Ma è anche il mezzo per arrivare ad una pulizia formale che Hirst ha appreso dal minimalismo: un modo di pensare all’arte nel Novecento decisivo anche per ogni artista figurativo che, grazie a questi elementi astratti fatti di linee e spazi geometrici, può veicolare in modo moderno contenuti che non hanno niente di astratto, senza cadere nello splatter o nello sciatto e aprendosi la strada alle case bene dei collezionisti di tutto il mondo. È così che lo spazio delimitato viene stressato dall’interno con elementi sovraccarichi di vita e di morte, capaci di travalicarlo, senza distruggerlo.
Il 1991 è l’anno del successo planetario di Hirst. L’anno del celebre squalo: The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living (L’impossibilità fisica dell’idea di morte nella mente di colui che vive). È il risultato della strategia di un pubblicitario di grande successo, Charles Saatchi, che intuisce per l’arte contemporanea una strada di fortuna globale a molti zeri e in Hirst trova uno dei più dotati artisti usciti dall’Accademia. È così che a 25 anni gli mette in mano 50mila sterline dandogli carta bianca: realizzi l’opera più sensazionale che riesce ad immaginare. È così che Hirst si procura da un pescatore australiano uno squalo tigre di oltre tre metri e lo colloca in una delle sue teche colma di formaldeide. Lo squalo è sospeso nel liquido trasparente. Il risultato è un’immagine di morte e terrore ma, contemporaneamente, anche di maestà della natura: perché il mostro rimane eternato, vivo e capace di terrorizzare, per sempre. L’opera diviene presto un simbolo di una generazione e degli Young British Artists (YBAs), una fortunata etichetta che consacra Londra come centro propulsore di un sistema artistico che regge il mercato dell’arte contemporanea da Pechino a New York. Ma, allo stesso tempo, è l’immagine più dirompente dell’inevitabile presenza della morte nella vita di ognuno di noi. Non sembra possibile spiegare meglio, a parole o con altre immagini, la contraddizione assoluta insita nell’uomo, che spende tutte le sue energie per la vita e deve fare i conti ogni giorno con la morte. Forse potrà solo far finta di niente, cercare di non pensarci, ma lei s’imporrà.

La bellezza del creato

Se è vero che la morte è in assoluto l’elemento più ricorrente nell’opera di Hirst, non si può ridurre l’artista ad un messaggero della donna con la falce. Quello che affascina l’artista non è la morte in quanto tale ma lo splendore della vita, della natura, della biologia e il punto in cui questa bellezza oggettiva deve fare i conti con la sua fine. L’artista è estasiato dalla bellezza della natura e il modo con cui ce la presenta è solo apparentemente orrorifico. Quando realizza una serie di sculture anatomiche ci fa vedere il corpo per metà coperto dalla pelle e per metà lascia scoperti muscoli, ossa e organi interni. Un modellino anatomico umano, preso in prestito da un qualsiasi laboratorio scolastico di scienze, è riprodotto in bronzo in una fusione alta quasi sei metri. Nasce così, tra il 1999 e il 2000, Hymn: un inno alla straordinarietà del corpo. La corporeità diviene così elemento fondamentale, da rendere concreta e idealizzata insieme, grazie alle dimensioni e a lucidi e accesi colori da carrozzeria. Una fisicità che Hirst ha bisogno di tirar fuori anche da esseri viventi che normalmente non concepiamo come corporei, perché celesti, come un angelo (The anatomy of an angel, 2008) o perché mitologici, come l’unicorno (Myth, 2010). Il risultato è solo apparentemente dissacrante, perché la ricerca è quella di una bellezza più solida, più concreta di quella che restituisce l’aspetto estetico ed estetizzante esteriore.



Dalla morte alla vita, andata e ritorno
Allo stesso modo, tra le sue opere più affascinanti compaiono alcune grandi vetrate o rosoni interamente realizzati, tra il 2006 e il 2008, con splendide farfalle multicolore messe sotto vetro. In apparenza si tratta di magnifiche composizioni ispirate alla tradizione cristiana delle vetrate nelle chiese. Ma come tutte le opere di Hirst hanno un carattere fortemente ambivalente. Lo stupore ed entusiasmo iniziale di fronte a tale magnificenza di forme e colori sfavillanti lascia, prima o poi, lo spazio alla consapevolezza che a permettere tale spettacolo è una strage di bellissimi cadaveri. Ma se leggiamo la stessa opera in senso inverso, partendo dall’orrore, bisognerà ammettere che siamo di fronte all’immagine di una bellezza che vince la morte, di una bellezza resa eterna ben al di là dell’effimera vita di una farfalla, di una bellezza resa eterna dalla morte dell’effimero.

Ma non è grande la vita?!

L’opera di Hirst ha un forte carattere provocatorio, ma la provocazione non è ultimamente gratuita. L’artista ha l’ambizione di mettere le persone di fronte alle “questioni fondamentali della propria vita”, per affrontar le quali si sente tanto inadeguato a dare risposte, quanto obbligato a farle emergere come sono: domande sempre aperte, “questioni eterne”. E alla domanda di quale siano queste questioni eterne, Hirst, citando un’opera di Gauguin, non lascia dubbi: «Da dove veniamo? Chi siamo? Dove stiamo andando? Penso siano queste le grandi questioni dell’arte e molti artisti si pongono queste domande e cercano di dare ad esse una parvenza di risposta, qualche suggerimento per trovarla...» E stare di fronte a queste domande porta Hirst ad amare ancora di più la vita e il suo lavoro: «Ma alla fine della giornata, anche l’arte non può che dire: "Non è grande la vita?!". Questo è il massimo che si possa ottenere dall’arte».

Interprete del suo tempo, fino in fondo
Certo, per capire l’artista e la sua modernità, bisognerebbe parlare del “personaggio” Damien Hirst, delle trovate clamorose che hanno segnato la sua carriera, come nel 2008, quando, gabbando i suoi celebri galleristi, ha venduto all’asta da Sotheby’s a New York - una performance intitolata Beautiful Inside My Head Forever (Bellezza nella mia testa per sempre) - 223 opere, incassando 200 milioni di dollari, esattamente negli stessi giorni in cui fallivano le banche americane. O bisognerebbe sciorinare i numeri dell’opera d’arte contemporanea con i più grandi costi di realizzazione del mondo: For the Love of God (Per l’amor di Dio, 2007), un teschio di platino con denti veri, coperto da 8.601 diamanti purissimi e un enorme diamante rosa a goccia posizionato sulla fronte, per un totale di 1.106,18 carati. Si tratta di due prove di forza che non si esauriscono nella loro furbizia e che denunciano l’assurdità di un sistema necessariamente effimero mentre lo si sta ancora cavalcando da protagonisti.
Perché Hirst si è fatto interprete degli elettrizzanti anni Novanta, ha portato a compimento alcune intuizioni geniali nelle opere del primo decennio di questo millennio ed ora si dimostra capace d’interpretare a dovere anche l’incertezza di questo momento di passaggio della nostra storia. Salvo qualche colpo rimasto in canna ed esploso tardivamente tra il 2010 e il 2011, infatti, dal 2008 Hirst sta cercando una nuova strada d’artista, attraverso la pittura a olio. Ma questa è una storia ancora in corso, tutta da scrivere.