<em>Leviathan</em>, Grand Palais di Parigi, 2011.

ANISH KAPOOR Il mistero oltre la materia

Lo scultore più ricercato del mondo lavora con acciaio e cera. Molte le opere monumentali, perchè «l'arte deve c'entrare con qualcosa di più grande di una storia particolare». Come "Leviathan", 72mila metri cubi di pvc per indagare la vastità dell'io
Davide Dall’Ombra

Perché Kapoor è lo scultore vivente più pagato e ricercato al mondo? Perché la vita dell’uomo è una cosa straordinariamente più complessa della pura materialità, spazia ben oltre il terreno di ciò che si vede e s’identifica a colpo d’occhio. La vita è fatta (anche) di mistero, di mancanza, di categorie apparentemente astratte come il tempo, la pienezza o il vuoto, il caldo e il freddo. Il merito di Anish Kapoor, classe 1954, è inseguire nelle sue opere questa complessità, usando la fisicità della materia, plasmandola in una bellezza di forme e colori che eccitano e incantano insieme. Le forme a cui ha dato vita in questi anni, il senso profondo di forza e mistero della sua opera ha fatto di questo buddista inglese, figlio di un’irachena ebrea e di un padre indiano, uno degli artisti su cui sembra puntare il cardinal Ravasi per primo Padiglione Vaticano alla Biennale di Venezia, annunciato dalla stampa per l’edizione del 2013. È uno scultore “astratto”. Lavora con forme e colori elementari, per realizzare opere evocative che - talvolta - sanno unire il registro lirico a quello epico. I suoi materiali preferiti sono l’acciaio specchiante, i pigmenti puri di colore, il metallo ossidato e un cocktail di cera rossa e vaselina. Suo il celebre Cloud Gate l’enorme “fagiolo” diventato uno dei simboli di Chicago. Sua Orbit, la torre vorticosa che sta sorgendo nel parco olimpico in vista di Londra 2012. L’anno scorso, nella chiesa di San Giorgio a Venezia, ha esposto una scultura fatta di vapore acqueo: una colonna di fumo dorata alta dieci metri che saliva all’incrocio tra navata e transetto, creata dalla corrente d’aria prodotta da una serie di grandi ventilatori.

Oltre la piccolezza delle vita.
Kapoor è consapevole del ruolo dell’artista, sa di essere un privilegiato, ma anche delle responsabilità che si assume affrontando questi temi così vasti e profondi: «L’artista può permettersi la libertà preziosa d’una visione individuale che lo emancipa dalla piccolezza della vita e io mi voglio grande, grandissimo» perché «L’arte che ammiro fa qualcosa di più che raccontare la mia piccola storia psico-biografica (e a chi interesserebbe?). Noi siamo al mondo per qualche minuto, e poi moriamo. Se dobbiamo “sopportare” l’arte, deve avere a che fare con qualcosa di molto più grande di una storia particolare, anche se magari per raccontare questo più grande, passiamo dalla nostra psico-biografia».
A volte la grandezza della sua opera è stata anche fisica e ha realizzato opere monumentali che entrano in relazione con grandi spazi chiusi, piazze urbane, ma anche scenari naturali. Più spesso la grandezza se l’è giocata nella profondità umana dei temi che evoca.

Il vuoto e l’attesa della creazione.
Ha sempre portato bene, non solo nella storia dell’arte, inseguire l’universale collettivo nel particolare personale e, per farlo, Kapoor ha ricercato «una fusione tra la mano e l’occhio, l’orecchio e l’occhio, fino a creare un’instabilità nello spettatore, obbligandolo a cercare un equilibrio, una certezza». Destabilizzando lo spettatore con forme, colori, semplicità e dimensioni che non si aspetta, spesso facendolo entrare fisicamente nell’opera, Kapoor punta a stanarlo per metterlo alla ricerca di nuove certezze. E in epoca materialista come la nostra, questo non può che destabilizzare e attrarre moltissimo.
È per questo che è così affascinato dal vuoto, dalla possibilità di poterlo rappresentare, catturare con le proprie sculture: «Il vuoto è dove il tempo e lo spazio sono apparentemente assenti, dove giungono a un punto morto, creando un’irrequietezza, un disagio». Un disagio che Kapoor non ricerca per sadismo, ma, appunto, per obbligare lo spettatore a ricercare una certezza. Perché il vuoto non coincide con il nulla. Come per Lucio Fontana, il vuoto è attesa capace di generare, esattamente come, sostiene Kapoor citando Heidegger, la brocca per essere brocca, deve avere al suo interno il vuoto: il vuoto destinato a contenere il vino o l’acqua che ne fa un recipiente, ciò che la genera in quanto brocca: «Ho sempre pensato al vuoto come a uno spazio transitorio. E tutto ciò ha molto a che fare con il tempo. Sono sempre stato interessato al momento creativo in cui ogni cosa è possibile e niente è ancora accaduto. Il vuoto è quel momento di tempo che precede la creazione, in cui tutto è possibile».

Una faccia alle esperienze.

Si tratta quindi di opere che occorre vivere, da cui bisogna lasciarsi invadere. Come nel caso di Svayambh: un enorme monolite di cera e vaselina rossa che attraversa lentissimo, scorrendo su un binario, attraverso un’infilata di porte tra le sale della sede espositiva (è stato a Monaco, Nantes, Londra…). Racconta Kapoor: «Il mio blocco di cera che passa a fatica, come se la pelle si scorticasse è quasi un prodotto dell’edificio, ricorda il processo con cui si forma il significato delle cose. La storia della scultura è storia della materia e della sua fragilità, anche il colore è materia fisica di cui facciamo esperienza, certe volte in modo tragico, altre più gioiosamente». L’arte di Kapoor richiede tempo per essere guardata, vissuta e, magari, amata: «La verità mistica dell’arte è il tempo… Sono interessato alla scultura che manipola lo spettatore obbligandolo ad una relazione con lo spazio e il tempo». A concederglielo, questo tempo, a lasciarsi manipolare, sostando di fronte all’incedere del gigante rosso, lo spettatore può portare a casa un’immagine indelebile di sentimenti ed esperienze che sarebbe difficile rappresentare con una sola immagine figurativa. È così che, in pochi minuti di osservazione ti trovi di fronte ad un’imponente metafora di molti frammenti della tua vita, qui eternati in poesia visiva: lo struggimento di quell’amore che vedi pian piano, ma inesorabilmente scivolar via… Il segno profondo che quella persona ti ha lasciato attraversandoti la vita, la certezza che le cose prenderanno quasi impercettibilmente la loro strada verso una direzione… Tutte esperienze che sembrava impossibile rappresentare con questa semplicità e che, volutamente, vanno ben oltre l’intenzione dell’artista.

Di fronte al nostro io.
Nel 2011, al Grand Palais di Parigi, Kapoor allestisce la sua più monumentale scultura: Leviathan. Si tratta di un’installazione titanica che nasce dalla necessità di fare i conti con l’enorme e straordinario spazio del Grand Palais. I numeri sono da capogiro, perché questo enorme pallone, progettato in Inghilterra e realizzato con pvc tagliato in Germania, assemblato in Italia e allestito a Parigi da una squadra di ingegneri della Repubblica Ceca, è alto 33 metri, largo 100 e profondo 72, occupa 13.500 metri quadri, ingombra 72.000 metri cubi e pesa “solo” 18 tonnellate. È un’opera d’ingegneria mirabile e nessuna prova è stata fatta prima di allestirlo in loco. È andata bene perché, su una superficie di migliaia di metri, un errore di millimetri avrebbe creato delle grinze e l’artista era stato chiaro: «Le grinze non sono ammesse». Sono dati importanti, perché tutti percepibili vivendo l’opera: dal vero si ha contemporaneamente la sensazione di enormità e leggerezza, di stabilità ed effimero. Bene, entrando nel ventre rosso infuocato dell’opera, l’effetto è claustrofobico ed estasiante insieme e quando si ritiene di aver assorbito abbastanza pulsazioni di luce-calore-colore-vuoti-pieni-righe-spazi si esce fuori dal ventre e ci si ritrova all’interno del Grand Palais. Girando intorno al mostro, ci si rende conto della vastità della “bestia”, della reale forma trilobata, dello splendido color melanzana che dialoga con il senape e salvia delle strutture liberty del palazzo. Ancora una volta, il punto non è che cosa voglia dirci con quest’opera l’artista, ma che esperienza voglia farci fare. Kapoor ci porta al culmine del suo percorso artistico accogliendoci dentro ad uno spazio di fusione tra colore e materia, creando un oggetto monocromo con un’unica forma continua, ci attrae in una caverna di percezioni sensoriali irripetibili, forse introvabili in natura, costringendoci a fare i conti con le nostre paure, il nostro senso di intimità, la nostra percezione affettiva e l’esperienza di ricordi e pulsioni che non saranno mai uguali tra due visitatori. Uscendo ci fa prendere confidenza con la vastità e l’ingombro delle esperienze provate, con la profondità del nostro essere e con la straordinaria capacità che ognuno di noi ha di scatenare il proprio io reagendo alla vita. Sono esperienze che fanno paura. E, infatti, girando intorno alla vastità del nostro io, dopo un tempo di silenzio variabile per ognuno, ammirazione e sconcerto lasciano spazio al richiamo del gioco, della foto alla giapponese o, che è l’altra faccia della fuga, a dotte considerazioni estetiche engagé. Ciò che conta è che nessuno potrà mai dirsi che, dentro a quel ventre madido, qualcosa (di sé) non abbia visto.

Quella corda universale.
È ingaggiando questi meccanismi nello spettatore che le opere di Kapoor, apparentemente solo astratte, sono a ben guardare il risultato di una sintesi che punta a raccontare un livello delle cose veramente comune a tutti, universale. Certo, spesso ciò che trasmette a colui che guarda sono solo sensazioni, suggestioni, ma si tratta di un livello, anche emozionale, che traccia dei punti di unità tra gli uomini, che si trovano a condividere ferite e sensazioni comuni. Kapoor ha sempre rigettato la critica che rinchiude la sua sensibilità nella sua origine indiana. Lo scultore naturalizzato londinese è in tutto per tutto globale e capace di solleticare corde comprensibili nei cinque continenti. Certo, spetta al fruitore dell’opera non costruire su questo livello basico, universale, delle opere di Kapoor un sincretismo a buon mercato. Ma la dimostrazione che il procedere dello scultore sul crinale del senso religioso è frutto di una profonda serietà, attenta alla verità umana che incontra, è che Kapoor è capace di accorgersi quando una fede particolare, come il cristianesimo, interviene a toccare corde universali.

La Madonna e la “guarigione” di Tommaso.

È così che, alla Biennale di Venezia del 1989, decide di fare due omaggi alla città che lo ospita e alla sua tradizione. Prendendo spunto dalla Vergine del grande mosaico di Torcello, dà vita all’opera Madonna, sintetizzando la bellezza e purezza di Maria in un disco concavo blu cobalto in fibra di vetro, come le tessere di un mosaico. Kapoor crea in questo modo, in un’opera di sintesi oggettivamente irraggiungibile per qualunque critico, a un’immagine della centralità di Maria come ponte tra le tre religioni monoteiste e di Venezia come crinale tra la ieraticità bizantina e la cultura figurativa occidentale.
Alla stessa Biennale, Kapoor presenta The Healing of St. Thomas (La guarigione di san Tommaso): un grande muro bianco è segnato da un piccolo taglio di una quindicina di centimetri e, all’interno del foro, trovano posto dei pigmenti rossi. Allo scultore non serve altro per fare un omaggio alla Incredulità di san Tommaso di Caravaggio, perché «il rosso è un colore della terra e, ovviamente, del sangue e del corpo... Ma è anche il colore della ferita…». Ciò che colpisce Kapoor è che Tommaso è «guarito, nella sua incredulità, dalla ferita di Cristo, da una ferita capace di accogliere». Anche il suo taglio nel muro è profondo, fatto per accogliere, perché «una dimora è passata attraverso il dubbio, una dimora è nata dal dubbio».