Pio VI in un ritratto di Pompeo Batoni.

PIO VI Prigioniero della Rivoluzione Francese

Gian Angelo Braschi si rifiutò di riconoscere i moti parigini. Per questa ragione Napoleone, dopo aver invaso lo Stato pontificio, lo mandò in esilio in Francia. Accettò «la sua via crucis» con serenità e, al momento della morte, perdonò i suoi nemici
Eugenio Russomanno

«Pio era molto amante dello sfarzo e del cerimonioso protocollo; fece rinascere il nepotismo, assegnando ai parenti generose pensioni e costruendo per il nipote Luigi il palazzo Braschi. Desiderando di essere ricordato come patrono delle arti, impiegò ingenti somme per costruire splendidi edifici come la sacrestia di S. Pietro e il museo Pio-Clementino e per migliorare la rete stradale. Queste spese eccessive, oltre al suo audace ma infruttuoso tentativo di prosciugare le paludi Pontine, provocarono il dissesto del tesoro papale. Egli cedette inoltre ai nipoti la proprietà assoluta di gran parte dei territori bonificati».
Queste parole di John Kelly dicono molto su Papa Pio VI, ma di sicuro non dicono tutta la verità sul Papa che ha dovuto affrontare i fatti della Rivoluzione Francese.

Gian Angelo Braschi nacque a Cesena il 25 dicembre 1717. Conseguì il titolo di dottore in giurisprudenza nel 1735. Intraprese la carriera ecclesiastica, fino a quando nel 1753 fu scelto da Benedetto XIV come segretario privato per la sua abilità diplomatica. Clemente XIV nel 1773 lo nominò cardinale. Un difficile conclave durato 134 giorni durante gli anni 1774-1775 lo elesse Papa; egli prese il nome di Pio VI.
Per quanto riguarda la politica estera, le grandi potenze erano in generale ben disposte verso di lui e il suo pontificato. Occorre però ricordare il caso austriaco. Qui, nella cattolica Austria, l’imperatore Giuseppe II (1780-1790), il figlio “illuminato” di Maria Teresa, influenzato dal febronianismo (dottrina che limitava il ruolo del Papa ad una carica onorifica e prevedeva che a capo della Chiesa ci fosse un concilio universale) e dall’illuminismo, si servì del suo sistema di assoluta supremazia dello Stato sulla Chiesa per instaurare il cosiddetto «giuseppinismo»: completa tolleranza religiosa, limitazione dell’intervento papale alla sfera spirituale, subordinazione della Chiesa allo Stato sotto ogni aspetto, così da attuare riforme dispotiche, avvalersi dei diritti di giurisdizione ecclesiastici e sopprimere, in modo graduale, i monasteri e le altre fondazioni ecclesiastiche. Neppure un viaggio di Pio VI a Vienna (1782) riuscì a smuovere l’imperatore; ciò a dimostrazione del fatto che la reputazione del papato era scesa di nuovo, come altre volte nella storia, a un livello piuttosto basso.

«Con la rivoluzione francese iniziò un capitolo molto più infausto», annota John Kelly. All’inizio Pio VI non prese provvedimenti contro la «Costituzione civile del clero» (12 luglio 1790). Ma quando ai sacerdoti fu richiesto un giuramento di fedeltà al regime, il papa condannò come scismatica la Costituzione, dichiarò sacrileghe le ordinazioni dei nuovi vescovi di stato, sospese i preti e i prelati che avevano prestato il giuramento civile e condannò la «Dichiarazione dei diritti dell’uomo». Le relazioni diplomatiche furono interrotte e la chiesa francese fu profondamente divisa.
Nel 1796 Napoleone Bonaparte occupò Milano, ma papa Pio VI continuava a respingere le richieste francesi riguardo al ritiro della condanna pronunciata contro la Costituzione e la Rivoluzione. Quando Napoleone invase gli stati pontifici, papa Pio VI dovette accettare dure condizioni di pace: un sostanzioso tributo di guerra, la consegna di preziosi manoscritti e opere d’arte e la cessione di vasti territori dei suoi stati (pace di Tolentino, 19 febbraio 1797).
Quando il generale francese Duphot fu ucciso in una sommossa a Roma, il Direttorio ordinò una nuova occupazione degli stati pontifici. Il 15 febbraio 1798 il generale Berthier entrò in Roma, proclamò la repubblica romana e, deposto il pontefice (considerato come un capo di stato), lo costrinse a ritirarsi in Toscana; per vari mesi il Papa visse nella Certosa di Firenze. Per evitare qualsiasi tentativo di liberazione venne trasferito da Firenze, attraverso Torino e le Alpi, a Briançon e poi a Valence. Pio VI morì prigioniero nella cittadella di Valence il 29 agosto 1799.

Ha scritto Giovanni Paolo II: «Gli ultimi mesi di Pio VI furono la sua via crucis. A più di ottant'anni, gravemente colpito dalla malattia, fu strappato alla sede di Pietro. A Firenze poté ancora beneficiare per qualche tempo di una relativa libertà che gli permise di esercitare la sua responsabilità di Pastore universale. Fu poi costretto ad attraversare le Alpi lungo sentieri innevati. Giunse a Briançon e quindi a Valence, dove la morte pose termine al suo viaggio terreno, lasciando credere ad alcuni che era giunta la fine per la Chiesa e il Papato. È bene ricordare qui le parole di Cristo a Pietro, che corrispondono all'esperienza vissuta da Papa Pio VI in quell'anno 1799: «Quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi» (Gv 21, 18).
Pio VI accettò la prova con serenità e nella preghiera, e, al momento della sua morte, perdonò i suoi nemici, suscitando così la loro ammirazione. Tuttavia, alle sue sofferenze fisiche si aggiunse un tormento morale riguardo alla situazione ecclesiale. Nonostante l'agitazione che regnava a quel tempo in Francia, ricevette numerose e commoventi testimonianze di rispetto, di compassione e di comunione nella fede da parte della gente semplice, lungo il cammino, a Briançon, a Grenoble e a Valence. Per quanto umiliato, il «padre comune dei fedeli», come lo chiamava il poeta Paul Claudel, era riconosciuto e venerato dai figli e dalle figlie della Chiesa. Questa accoglienza semplice e sollecita, in quelle circostanze drammatiche, è una consolazione per tutti».