Sfollati nella missione Notre Dame de Fatima <br> a Bouar.

«Noi non abbiamo fatto nulla se non rimanere»

La seconda parte del racconto dei missionari che resistono in una terra martoriata da continui scontri. Come le clarisse, che in pochi giorni hanno ospitato seimila persone. Accogliendo tutti: musulmani e cristiani. Una presenza più luminosa del male
Alessandra Stoppa

A Bangui, oggi, si spara ancora. Anche a Bouar, 450 chilometri dalla capitale centrafricana. Suor Mariachiara Parolari, clarissa, ora è in Italia ma con il cuore là, dove si trova il suo convento di clausura, in cui vive dal 1989. Anche lei e le sue otto sorelle, in questi mesi, hanno accolto le migliaia di persone in fuga dalla guerra che si è scatenata dopo il golpe di marzo. «Abbiamo ben poco, ma alla gente non importa tanto quel che gli dai, ma il fatto che li accogli e che sei lì per loro. Diamo quello che possiamo e riceviamo molto di più. Loro riconoscono la Presenza del Signore al di là delle nostre povertà e questo serve a noi, per ricordarci ciò che siamo chiamate ad essere». Tieni sempre davanti agli occhi il punto di partenza, si legge negli scritti di santa Chiara. Nel 1989, insieme a quattro sorelle, si è trasferita da Chiavari in questo altopiano nella savana per rifondare un monastero di clarisse francesi che era stato voluto nel '61: fino a qualche anno fa, era l’unica presenza contemplativa del Centrafrica, voluta dal Vescovo di allora perché, lì dove c’è una grande base militare francese, sentiva il bisogno di un luogo che risanasse. «Non aveva bisogno che andassimo nei villaggi o a lavorare nei dispensari. Ma del nostro esserci».

Quando sono arrivate, il Centrafrica non era come oggi. Era meglio. «Allora era un Paese povero, oggi è nella miseria. All’epoca c’erano la luce, dalle sei alle nove di sera, e le tubature dell’acqua. Oggi ci sono solo i pozzi che i missionari hanno scavato, nella stagione secca la gente si mette in fila fuori dalle chiese, e solo chi può permetterselo ha un gruppo elettrogeno. Ogni colpo di Stato è arrivato a distruggere il Paese un po’ di più. È come se dal 1993 si andasse indietro, nel tempo, non avanti. «Le scuole non funzionano», continua suor Mariachiara, «peggio gli ospedali. La gente vive di agricoltura e chi è funzionario dello Stato oggi si è ritrovato con un anno di salari non pagati. Oggi, proprio senza lavoro».

Suor Letizia Danesi, la sua superiora, ci risponde da là, nei giorni in cui la situazione è ancora molto tesa: «È un periodo pieno di insicurezza. E quindi di pieno abbandono nelle mani del Padre». In pochi giorni il convento e la vicina chiesa, con parrocchia e centro giovanile, si sono ritrovati ad accogliere seimila persone. I cappuccini, a cinque chilometri da loro, ne hanno accolti altri diecimila. In mezzo al suono delle armi pesanti che viene dal campo militare poco distante, non perde la dolcezza della voce: «Il nostro monastero e il nostro cuore si sono aperti. Ne siamo grate». Hanno accolto tutti, cristiani e musulmani. La prima famiglia arrivata nella loro foresteria è quella dei loro vicini di casa musulmani, quindici persone. Un grande conforto è stato l’arrivo della Misca, la forza di sicurezza panafricana, che si è insediata appena fuori dal monastero: «È stata una tenerezza di Colui che ci ha promesso: Io ti proteggerò per sempre».

Da quando la situazione è precipitata, oltre alle ong, nel Paese sono rimasti quasi unicamente i missionari cattolici. Le altre confessioni hanno obbedito al rimpatrio chiesto dai loro Stati. «Noi non rispondiamo alle Ambasciate», spiega netto padre Beniamino Gusmeroli, della Congregazione del Sacro cuore di Gesù di Betharram e parroco della missione Notre Dame de Fatima: «Sono qui da vent’anni. E non ho mai visto nulla di simile. Ci sono state tante crisi, ma per riequilibri interni, nell’esercito o tra tribù. Invece, questa è una guerra creata dall’esterno, che di certo ha almeno due radici: da una parte, gli interessi economici per la distribuzione delle materie prime, come l’uranio; dall’altra, le infiltrazioni del fondamentalismo islamico». Lui è appena tornato dal giro tra le missioni e i conventi della zona: è andato a controllare che stiano tutti bene. Sono tante le presenze religiose a Bouar: carmelitani, cappuccini, betharramiti, le suore della Carità di santa Giovanna Antida, le francescane, le clarisse. E, in questi mesi di guerra, tra le varie missioni è fiorita una fraternità totale: «Viviamo una comunione molto forte», dice suor Letizia: «Ci aiutiamo in tutto».

Quando è stato ucciso il loro generale, il 19 gennaio, i mercenari della Séléka si sono organizzati per fuggire. Sono partiti portandosi via tutto quello che hanno rubato, e sulla strada del ritorno verso il Ciad e il Sud Sudan, da dove sono arrivati, hanno incendiato case e avuto altri scontri con gli squadroni di difesa fai-da-te. «I militari della Misca si erano proposti di accompagnarli fuori dal Paese», spiega padre Beniamino, «ma a condizione che si lasciassero disarmare. Non hanno accettato questo aiuto». E ora a bruciare è l’odio esploso contro i musulmani, soprattutto contro i Bororo, un’etnia di minoranza, inerme. Gli anti-Balaka si stanno vendicando su di loro: saccheggiano, chiedono soldi, minacciano di uccidere. «La vendetta è frutto di un’esasperazione», dice padre Federico Trinchero, carmelitano scalzo in missione nella capitale: «Sulla strada da Bouar verso Bangui, c’è un Centro della missione dei padri carmelitani che si chiama Baoro. Lì, Séléka e anti-Balaka continuano a farsi la guerra. Ci sono stati almeno cento morti. In quella zona non c’è la Misca, che può frapporsi, e quindi si uccide come se nulla fosse». La scelta, come presidente di transizione, di Catherine Samba-Panza fa ben sperare. È l’ex sindaco di Bangui, ha guidato le donne giuriste del Centrafrica e «sembra essere la migliore delle ipotesi possibili, perché non è coinvolta in nessuna delle fazioni e ha già partecipato a dei processi di riconciliazione in passato», continua padre Federico. «È un fatto straordinario, ancor di più qui», aggiunge suor Letizia: «Una donna, una madre. Bisogna pregare per lei, per sostenere la responsabilità che le è stata affidata».

Anche se le settimane di follia sembrano passate, «la ferita nel popolo è molto profonda. Proprio qui dove cristiani e musulmani hanno sempre vissuto insieme. Non c’è mai stato il problema della convivenza, ma c’è qualcuno da fuori che ha voluto creare questa frattura». Ora molti musulmani stanno fuggendo, i più in Camerun, accompagnati dalla Misca. Li vedono partire su camion, famiglie intere, senza sapere bene dove andranno. «Ma qui tutti abbiamo visto in questi mesi un bene presente. Più luminoso del male. Noi non abbiamo fatto nulla, se non rimanere, per vivere con questo popolo la sua difficile storia. Perché questo è ciò che fa il Signore: rimane con noi. Così è possibile vivere la pace in una situazione che è solo da piangere». Dice che non c’è niente di sconosciuto: «La storia sacra ci ha sempre indicato che il bene deve venire. E viene. Nel tempo, si svela il disegno di Dio. Ma nulla di vero nasce se non dalla croce».