Enrico Letta.

Scusi, dove sta l'Europa?

L’Unione è scossa da ogni parte. Ma ci siamo sbagliati a credere nel sogno europeo? In queste ore si celebrano i 60 anni del Trattato di Roma. Da "Tracce" di marzo, un dialogo con Enrico Letta, ex presidente del Consiglio
Alessandro Banfi

Enrico Letta è un esempio raro di politico italiano che ha saputo staccare la spina. Via dal chiacchiericcio, dal Transatlantico, dalla polemica. Lasciato a 48 anni l’incarico politico più importante, quello di Presidente del Consiglio, ottenuto dopo una carriera istituzionale di tutto rispetto prima nella Margherita, quindi nell’Ulivo e poi nel Partito Democratico con diversi incarichi ministeriali, due anni fa è andato a dirigere a Parigi l’Istituto di Studi politici, Institut d’études politiques de Paris-Sciences Po, evitando da allora ogni contaminazione col Palazzo. Una decisione radicale di distacco dalla vita politica cui ha tenuto fede in modo inflessibile. Tracce lo incontra a Roma per un dialogo a tutto campo sui rischi che corre l’Europa, sugli scenari che si aprono - e che fino a qualche anno fa sarebbero stati impensabili - già nelle prossime settimane, visto che il calendario prevede, in sequenza, la formalizzazione della richiesta inglese di Brexit (prevista a giorni), le presidenziali in Francia (il 23 aprile, con l’antieuropea Marine Le Pen in lizza per vincere), il voto tedesco in autunno, l’incognita delle elezioni italiane. E un vertice come quello del 25 marzo a Roma, nato per festeggiare i 60 anni dei Trattati fondativi dell’Europa unita, ma che molti cominciano a vedere come l’ultima spiaggia di un progetto travagliato da tanti errori e su cui si sta abbattendo l’onda lunga dei populismi.

Insomma, ci siamo sbagliati a credere nel disegno europeo?
Bisogna partire dall’idea che l’Europa così non può continuare e il motivo per cui ho voluto scrivere un libro di riflessioni su questo tema (Contro venti e maree, il Mulino, esce il 16 marzo, ndr.) è proprio che abbiamo bisogno di discontinuità. Non possiamo ripetere le stesse cose di sempre, stare immobili. La crisi europea attuale, profonda, ci spinge ad una domanda che direi è quasi esistenziale: ha senso che facciamo qualcosa con i Paesi che stanno vicino a noi? Oppure è meglio che ognuno stia per conto suo? Serve davvero una dimensione europea o no? Per la prima volta, dopo tanti anni, nelle prossime elezioni che lei citava siamo di fronte, in modo anche drammatico, a questa domanda. E non possiamo rispondere coi soliti schemi e coi soliti pregiudizi. Le circostanze ci obbligano ad andare fino alla radice.

«È possibile un nuovo inizio?», si chiede Julián Carrón nel primo capitolo de La bellezza disarmata. Quando lei dice «andare alla radice» vuole forse evocare questo concetto?
Dobbiamo ripartire dall’uomo e dal mondo contemporanei. Sono due punti di partenza che ci raccontano una storia diversa rispetto ai motivi che fecero nascere l’Europa sessant’anni fa. Nel 1957 si voleva “ingabbiare” la Germania ed evitare che tornassero i demoni della guerra. Il punto di un possibile nuovo inizio è dunque la persona, ma dentro il mondo com’è oggi. Entrambi questi fattori sono radicalmente cambiati. Il mondo di oggi è tre volte più grande in termini quantitativi di popolazione, ma anche in termini di pesi. Comunque quel mondo girava attorno all’Europa. Oggi ci sono l’asse del Pacifico, i colossi asiatici, l’Africa che avrà una crescita massiccia... È cambiato tutto. Anche l’uomo di oggi è diverso. Gli europei del secondo Dopoguerra erano uomini liberi, con aspettative crescenti, rispetto agli uomini del resto del pianeta, che non erano in maggioranza né liberi, né ricchi. Faccio sempre l’esempio dei modelli di automobile della Fiat in quegli anni: 500, 600, 800 e poi 1100, 1500 eccetera. Una crescita graduale che costituiva anche una prospettiva di aumento di sicurezza sociale: negli anni Settanta e ancora Ottanta le 126, 127, 128 eccetera. Un passo dopo l’altro. L’uomo libero di oggi vive invece nell’angoscia di perdere quello che ha, è confuso ed incerto.





















Papa Francesco, nel bellissimo discorso in occasione della consegna del Premio Carlo Magno, l’anno scorso, poneva il dialogo come un possibile punto di ripartenza, di nuova generatività dell’Europa...
L’idea di fondo dei Padri fondatori, che rimane validissima, è l’idea della pace. Il fiume Reno, incubatore di guerre per secoli, oggi è il cuore di un Continente pacificato. Sono anche convinto che l’allargamento progressivo del disegno europeo, pur creando tante criticità, è stato fondamentale. La vicenda della Crimea ci dimostra che cosa sarebbe potuto accadere senza l’allargamento dell’Unione. Avremmo avuto un proliferare di guerre locali in Europa. E poi l’altro principio resta la libertà. Quando, sessant’anni fa, iniziò questa avventura, metà dei cittadini europei non erano liberi: dalla Spagna, alla Lituania, al Portogallo, alla Grecia... Dobbiamo applicare questi principi fondativi al complicato mondo di oggi. Salvare la democrazia reinventandola. Reincarnare le grandi intuizioni degli inizi, ricominciare daccapo.

Il suo saggio in uscita è su questo...
È soprattutto un tentativo di dire agli europei e ai dirigenti attuali dell’Europa: guardate che la difesa dello status quo è sbagliata! La prolungata crisi economica e una crisi dei migranti senza precedenti stanno stravolgendo il volto della nostra convivenza. Così com’è, l’Europa non funziona. Attenzione, non abbandono la bandiera dell’integrazione e mi sento profondamente alternativo agli approcci sovranisti, nazionalisti e isolazionisti che vanno oggi per la maggiore. A cominciare dall’Inghilterra della Brexit fino alla Francia della Le Pen, non a caso fino al secolo scorso due potenze colonialiste e che ora vivono certe nostalgie. Dico che l’integrazione oggi va ripensata e rilanciata nel modo giusto. Un secolo fa gli europei erano un quarto della popolazione mondiale, fra vent’anni, secondo le dinamiche demografiche, solo un abitante della terra su 20 sarà europeo.

Per integrare bisogna avere la capacità di essere sicuri della propria identità e allo stesso tempo sempre “secondi”, un po’ com’era l’antica Roma. Qualche anno fa Rémi Brague su questo tema ha scritto un saggio (Il futuro dell’Occidente, Bompiani) molto interessante: da questo punto di vista l’integrazione è anzitutto una questione educativa e di cultura...
La questione dell’identità e dell’integrazione dello straniero è oggi la questione chiave della convivenza europea. Ma direi di tutto il mondo. Quando arrivi a New York atterri in un aeroporto intitolato a Fiorello La Guardia, che non mi pare fosse un wasp... Però oggi dire solo: «Porte aperte a ogni migrante» è uno slogan che nella realtà non funziona. Ci vogliono transizioni, gestioni, progressioni, gradualità... È vero, è anche una battaglia culturale. Ma se nella classe di mio figlio ci sono il 20 per cento di stranieri, ci può essere un lavoro serio di integrazione. Se sono il 55%, no. E l’immigrazione dev’essere sempre anche integrazione, non possiamo continuare a creare piccoli stati ghetto nelle nostre metropoli, come ci sono oggi a Parigi e a Londra.





















La reazione isolazionista di Trump, dopo la Brexit, pone una grande questione all’Europa di oggi.
L’elezione di Trump spaventa perché con lui si trasforma uno dei concetti base della democrazia. Con lui il Presidente non rappresenta più tutti gli americani, ma solo i suoi elettori, i 61 milioni che lo hanno votato. Si sta comportando così. Allo stesso tempo, anche su come debba funzionare la democrazia non possiamo difendere lo status quo della classica rappresentatività dei Parlamenti per quattro o cinque anni... Va ripensata la partecipazione democratica. Sfruttando anche la potenzialità della rete, dando una possibilità continua di consultazione popolare. Anche se il referendum o è “alla svizzera”, cioè si occupa davvero del singolo problema, oppure rischia di essere un giudizio su chi lo propone. Come è successo in Italia in occasione di quello costituzionale: il tema della domanda referendaria è diventato secondario. Per non parlare di come gli inglesi sono usciti dall’Europa con un referendum che doveva essere consultivo...

Provi a indicare fatti o persone che rappresentino un punto di possibile nuovo inizio per l’Europa...
Trovo che i giovani siano molto più dentro l’idea di un’Europa da rinnovare. Se penso agli studenti della scuola che dirigo a Parigi, abbiamo mille e trecento studenti, in gran parte europei: francesi, tedeschi, italiani, spagnoli... Fra di loro l’identità europea esiste, ma hanno un’idea molto più avanzata di quella dei burocrati di Bruxelles che offrono sempre l’immagine di un’Europa matrigna. Europa per loro significa ancora dialogo, opportunità, libertà. Un’idea calda che, certo, sembra andare in direzione opposta al vento freddo che attraversa il pianeta.

Lei propone di viaggiare contro questo vento.
Sì, mi rifiuto di mettere le vele della politica al vento fortissimo, spesso irrazionale, che è la vera causa di tutte le Brexit, vittorie di Trump, referendum e populismi vari... Cerco di contrastare le due tendenze, quella conservatrice, diciamo “alla tedesca”, che fa finta non ci siano problemi, e quella populista così forte nell’Europa più debole economicamente, quella meridionale. Le prossime elezioni francesi saranno la chiave di tutto. Non dimentichiamoci che nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, oltre ad Inghilterra ed Usa, siede fra i membri permanenti la Francia, e poi ci sono la Cina e la Russia. Il mondo e la storia sono ad un bivio. Dopo Brexit e Trump, se vincerà Marine Le Pen sarà la fine dell’Europa, è inutile nasconderselo. Se, viceversa, prevarranno gli altri candidati francesi, si porrà la questione di una ripartenza della politica europea in una nuova fase.