Norcia, la Basilica di San Benedetto dopo il sisma.

Vedere altro, oltre la paura

La scossa di domenica mattina, fortissima, che ha devastato un altro pezzo d'Italia. Il matrimonio alle porte, il pensiero agli amici in Siria. E quell'abbraccio, fermandosi un istante per dire l'Angelus

Domenica mattina ero a Macerata e come tanti altri sono stato svegliato bruscamente dal terremoto. La scossa delle 7.41 che ha distrutto Norcia e diviso in due il Monte Vettore si è avvertita molto chiaramente anche nella “Atene delle Marche”. Per quanto cerchi di ricordare, in tutta la vita non mi è mai capitata un’esperienza simile.

I primi momenti, quando ti accorgi di essere in balìa della forza cieca della natura, sono agghiaccianti: nel letto, immobile, guardavo le pareti muoversi tutt'intorno, mentre decine di libri mi cadevano davanti. Non ho mai corso reali pericoli, ma non credo di poter descrivere adeguatamente il timore che ho provato. Ero “pietrificato”, stringevo le mie lenzuola gialle nelle mani e non sono riuscito nemmeno a rifugiarmi sotto lo stipite di qualche porta per mettermi in salvo. Per un istante – un lunghissimo istante - ho avuto paura, quella paura autentica che nasce dall’impotenza, capace di toglierti il respiro per qualche attimo. Nella mente i pensieri corrono veloci, ma senza meta. Trovarsi senza un nascondiglio, o una zona franca. Dipendere totalmente da quella furia senza una logica che aveva già rubato altre vite nei mesi scorsi.

Ecco, la prima percezione chiara è stata questa, la totale impotenza. Chi avrebbe potuto salvarmi, se quei muri avessero ceduto? E chi avrebbe potuto salvare chi dormiva a pochi metri da me? A terremoto finito, ho guardato fuori dalla finestra per osservare la città: un sole di fine estate scaldava ancora le colorate colline marchigiane, come se non fosse successo niente. Sotto casa però, alcune persone con i bagagli in mano erano pronte per scappare verso il mare. I genitori della mia fidanzata mi avrebbero poi detto che nei giorni precedenti, dopo la prima scossa, nel condominio non era rimasto nessuno. Erano fuggiti tutti, la paura li aveva costretti a lasciare la casa. Solo loro due erano rimasti lì, a vivere la precaria quotidianità di questo periodo.

Non è stato un gesto da eroi, o peggio ancora da incoscienti. Le probabilità che una scossa di terremoto facesse crollare i palazzi così vicini al mare era effettivamente piuttosto bassa, ma in fondo le alternative sono sempre due: o farsi dominare dalla paura, o viverla (e vincerla), nella certezza che anche quella paura può essere abbracciata. Non è forse quello che vivono quotidianamente i nostri fratelli cristiani in Medio Oriente? Amati, abbracciati da quella presenza buona e misericordiosa che ti permette addirittura di sorridere di fronte alla morte, per cui il pericolo non viene da solo, ma accompagnato da quel destino buono, a volte misterioso, che ti tiene vicino.

E allora, oltre alla paura, al pericolo, vedi anche altro. Quella mattina eravamo di corsa, dovevamo sbrigare diverse faccende. E presa la macchina, correndo agli appuntamenti per preparare la festa del nostro matrimonio, ci fermiamo. Anche la mia fidanzata e io sentiamo il bisogno di essere abbracciati. Diciamo l’Angelus. Perché quel grande “sì” diventasse anche il nostro, di fronte a quello che stava accadendo.

Solo ieri riprendo il treno per tornare. E penso ai genitori di Cecilia, che sono rimasti a casa. Sereni, abbandonati fiduciosi alle mani del buon Dio che sa cosa è meglio per loro. Penso ai miei amici di Aleppo, anche loro rimasti lieti nelle loro case scosse da un terremoto perenne. E comprendo - forse - la piccola grande testimonianza che ciascuno può dare al mondo: mostrare a tutti la gioia di vivere sperimentata quando si è amati. Quella certezza che nessun terremoto potrà togliere, che nessuna catastrofe, causata dall’uomo o dalla natura, potrà mai rovinare. Quell’abbraccio che non può crollare, mai.

Andrea, Milano