L'8 novembre, gli Usa eleggeranno il loro 45° Presidente.

La gemma preziosa

Cosa c’è in gioco nella sfida tra Hillary e Trump per la corsa alla Casa Bianca? Prima tappa di un viaggio in due puntate nel Paese che si avvicina al voto. Partendo dal viaggio del Papa negli States dell'anno scorso... da "Tracce" di settembre
Mattia Ferraresi

Era un anno fa quando papa Francesco, in uno dei discorsi più potenti della sua visita negli Usa, ricordava ai membri del Congresso americano la chiamata dei rappresentanti del popolo a «salvaguardare e a garantire la dignità dei vostri concittadini nell’instancabile ed esigente perseguimento del bene comune, che è il fine di ogni politica». Il viaggio apostolico di Francesco, che prima di sbarcare negli States (il 23 settembre) era passato da Cuba, conteneva una missione profondamente politica, benché completamente priva di politicismi e manovre tattiche: il Papa aveva esortato il popolo e le istituzioni americane a superare gli steccati ideologici, ad andare oltre le etichette che, anche fra i cattolici, appiattiscono l’azione politica in un agone fra progressisti e conservatori, democratici e repubblicani.

Nel Paese che si fregia di essere la patria della libertà, l’evangelica “città sulla collina” che tutta la terra ammira e guarda come a un esempio, il Papa offrì un richiamo potente a rimettere al centro il bene comune, che, come dice la dottrina sociale della Chiesa, «non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale», ma è piuttosto la «dimensione sociale del bene morale».

Un rovesciamento della prospettiva, quindi. Netto. E una gemma preziosa nell’eredità di quel viaggio apostolico, in un contesto radicalmente polarizzato e dominato da lacerazioni anche all’interno degli stessi partiti.

A un anno di distanza, la situazione non potrebbe essere più frammentata: l’America va verso le elezioni presidenziali dell’8 novembre in un quadro dominato dall’incertezza. Il partito repubblicano si è sgretolato sotto i colpi di Donald Trump, candidato antisistema che cavalca l’immagine nazionalista di un’America isolata e ripiegata su di sé, protetta attraverso muri e dazi doganali dalle minacce esterne, che siano i migranti in arrivo dal confine con il Messico o le merci cinesi che mettono in crisi la manodopera locale.


















I sedici candidati che hanno provato a contendergli la nomination durante le primarie sono stati spazzati via, segno potente dell’incapacità dell’élite politica di capire e farsi carico dei bisogni del popolo. Fra i democratici si è affermata Hillary Clinton, che in questo momento appare favorita per la conquista della Casa Bianca, ma lungo il percorso ha arrancato al cospetto di Bernie Sanders, che all’inizio della campagna era uno sconosciuto senatore indipendente con ricette socialisteggianti, oggi è il rispettato autore di una formidabile campagna che ha saputo conquistare il cuore e l’immaginazione di milioni di giovani americani.

Questo panorama, che può apparire desolante, rende ancora più urgente la sfida lanciata dal Papa. In una fase in cui il crollo delle evidenze si declina anche nella crisi dei partiti e nell’erosione del concetto di rappresentanza, l’edificazione di un soggetto in grado di rimettersi in moto per costruire il bene comune è cruciale.

«Questa tornata elettorale è inedita e rivoluzionaria, soprattutto per il fatto che Trump ha messo sottosopra il movimento conservatore: per questo gli inviti del Papa a superare la polarizzazione sono ancora più importanti», dice lo storico Brad Gregory, professore alla Notre Dame University. Allo stesso tempo, il fatto che a contendersi la Casa Bianca siano due fra i candidati più impopolari della storia recente, nel contesto di una profonda crisi del sistema dei partiti, mostra «i limiti della politica, che non è in grado di rispondere a tutte le domande dell’uomo: è difficile per gli elettori credere che i due candidati siano “incarnazioni della moralità”, modelli da imitare, e questo lancia una sfida a essere creativi, a immaginare soluzioni che ci portano a lavorare insieme con realismo».




















Cita ad esempio la nascita dell’American Solidarity Party, una piccola compagine ispirata al motto “bene comune, terreno comune, senso comune”. Il candidato presidenziale di questo micropartito, Michael Maturen, si definisce nella sua nota biografica un «cattolico che per la maggior parte della sua vita è stato un repubblicano conservatore», ma «un approfondimento della visione della Chiesa e della pastorale di papa Francesco lo hanno portato a riconsiderare le sue posizioni sul conservatorismo». Realtà come l’American Solidarity Party non hanno conseguenze dal punto di vista delle percentuali e dei seggi, ma Gregory ne legge la nascita come «una piccola testimonianza del tentativo di superare la radicale dicotomia, diffusa anche fra i cattolici, fra progressisti e conservatori, quella estenuante dialettica fra chi punta tutto sulla giustizia sociale e chi sui temi etici».

Dietro la profonda confusione di questo momento politico, dove l’unica costante è la distanza abissale fra la classe dirigente e le persone, anche Thomas Reese, padre gesuita e analista del National Catholic Reporter, vede un’opportunità quasi paradossale: «La Chiesa è una delle pochissime realtà americane che raccolgono sia democratici che repubblicani, quindi è in una posizione privilegiata per iniziare una conversazione seria intorno al bene comune. Da un certo punto di vista, non c’è tempo più propizio di questo per rispiegare la pertinenza della dottrina sociale della Chiesa, una visione che unisce tutti quelli che vogliono dialogare, dentro e fuori dal cattolicesimo».

Per Reese, il grande risultato del viaggio di Francesco in America è quello di avere «definito un certo tono nella conversazione». L’America, spiega, magari «non ricorda i suoi discorsi, ma ricorda il senso, trasmesso soprattutto con i gesti, di un’apertura: apertura agli ultimi, ai diseredati, ai migranti, ma più in generale apertura all’altro». In questo clima politico “ultraideologico”, che vira sempre di più verso una “concezione europea” lontana dal pragmatismo americano che per decenni ha favorito l’arte del compromesso, Reese trova difficile aprire un dialogo: «Ma non riesco a immaginare promotore più convincente di Francesco per cominciare», aggiunge.


















È in questo contesto che all’inizio dell’estate è uscito un volantino di giudizio della comunità americana di CL, dove si coglie acutamente questa necessità di fronte alle elezioni imminenti: «La nostra azione politica si è ridotta solamente a esprimere un’opinione su Facebook o, in modo un po’ più attivo, a votare», si legge: «Sembra che si sia perso il desiderio profondamente radicato di essere protagonisti del processo politico che storicamente ha contraddistinto la democrazia americana. L’apatia che caratterizza la nostra epoca non ha origine dal processo politico e non si limita neanche all’ambito della politica. Ha una sorgente del tutto diversa; siamo di fronte a una crisi della persona. Sembra che ci basti guardare e commentare, ritirandoci nelle nostre sicurezze e lasciando che la storia faccia il suo corso. Tuttavia, così facendo, neghiamo il desiderio profondamente umano di essere attori responsabili, parte di qualcosa di grande, e di implicarci con la realtà sociale: proprio ciò che è al centro di ogni tentativo democratico».

La ricostruzione, il risveglio della persona è il cuore della sfida politica, e in questo contesto la crisi carsica dei partiti che nel corso dell’ultimo anno si è fatta largo in superficie, inondando lo spazio pubblico, rivela un’opportunità. Quale? Desacralizzare la politica, ricordando ciò che in quella «versione originale della modernità» che è l’America - lo diceva Jean Beaudrillard - non è affatto scontato: la politica non è in grado di risolvere tutto, non è lo strumento che, una volta calibrato correttamente, inaugurerà la società talmente perfetta che non ci sarà bisogno di essere buoni, come diceva T.S. Eliot. Che a novembre si affrontino due candidati scelti più per rabbia o rassegnazione che per convinzione, mostra uno spiraglio di disillusione in un sistema che talvolta si è illuso di poter ricomprendere ed esaurire ogni esigenza umana sotto il suo mantello.

È in quello spazio di realismo che la persona può tornare ad essere protagonista della politica, come spiega il volantino: «Siamo chiamati a essere protagonisti della nostra storia testimoniandoci reciprocamente ciò che abbiamo di più caro e sostenendoci nella ricerca della felicità. Questo è ciò di cui un Paese libero e democratico ha bisogno. Altrimenti diventeremo preda della tirannia di chi grida di più. A novembre voteremo per il candidato che rispecchia maggiormente i nostri autentici desideri, ma dopo il voto non è finita. C’è molto da fare».