Terremoto in Emilia. Si dorme nelle tende.

Qui si vede chi siamo

Il 20 maggio, la prima scossa. La terra, però, continua a tremare. Ventiquattro vittime, le chiese distrutte, le aziende in ginocchio. Ma come vive chi è rimasto? Alberto, Yvonne, Gigi... Storie di gente costretta a «non rimanere nell’apparenza»
Paolo Perego

La voce ancora rotta. I muscoli che tremano, mentre ti stringe sottobraccio. E la paura accesa negli occhi di Marilara, mentre racconta del terremoto del mattino. A una settimana dalla scossa del 20 maggio che ha squassato la Bassa modenese, a Rivara, frazioncina alle porte di San Felice sul Panaro, avevano ricominciato a dormire nella villetta. Al pianterreno. In salotto, tra le crepe e i resti di una grossa libreria da cui Stefano, il figlio maggiore che fa Fisica a Bologna, ha ricavato una scarpiera. L’altra figlia, Margherita, è a scuola, a Modena. Il pensiero è ad Alberto. È in carrozzeria. Ha ripreso a lavorare qualche giorno fa, nel capannone rimasto in piedi dei due che aveva a Massa Finalese. Per ripartire, per recuperare un po’ di normalità, anche se la terra sotto i piedi non ha mai smesso di tremare da quella notte.
La normalità. È il boato a sgretolarla ancora. E poi i telefoni muti. La corsa in macchina, dal marito. L’altro giorno era il loro anniversario... «Nessun danno per noi, solo tanta paura. Ma intorno morti, crolli. Chiudiamo ancora», dice Alberto. Sono passate poche ore, e tante scosse, una forte verso l’una. Un tavolino apparecchiato per mangiare qualche avanzo del giorno prima in giardino. Alberto è al telefono con Piero, di Cavezzo, una manciata di chilometri da San Felice, verso Carpi. La scossa del mattino ha raso al suolo il paese. «Una collega sotto le macerie, la stanno cercando. In due siamo usciti, ma lei non ce l’ha fatta, è venuto giù l’ufficio». La troveranno poche ore dopo senza vita. Vanna.
Saranno diciassette a fine giornata, le vittime. Ventiquattro dalla prima scossa. Almeno 14mila gli sfollati, secondo la Protezione Civile. La stima dei danni supera i cinquecento milioni di euro solo nel settore agricolo, in un’area che occupa le provincia di Modena, Ferrara, Parma, Piacenza, Mantova, Reggio Emilia. E le fabbriche. Solo a Mirandola, nel modenese, sorgeva il più grande distretto europeo di aziende biomedicali, circa trecento, che danno lavoro a più di 4.500 addetti. Poi ci sono i danni ai castelli medievali, alle chiese, alle opere d’arte. E le scosse che non si fermano. Più di mille nei primi dieci giorni dal quel 20 maggio.
«Sono andato a fare un giro stamattina», dice Alberto: «A trovare amici, a vedere come stavano». Lungo la strada le scosse, col campanile di San Pollidonio che viene giù in lontananza, e campi di grano che ondeggiano, mentre l’auto schiva i pezzi che cadono dalle case. Cavezzo, Medolla. Coi loro morti. L’epicentro della scossa è proprio lì sotto.

«IL DISASTRO È IL LAVORO». Dieci chilometri più in là, a Carpi, tante case sono inagibili. E anche il duomo è lesionato, e sembrava che il parroco fosse rimasto sotto. Invece si è salvato. Mirandola, stessa scena. Danni al duomo, all’ospedale. A Rovereto sul Secchia il parroco, don Ivan, è rimasto sotto le macerie della chiesa. Era rientrato per portare in salvo la statua della Madonna.
A San Felice sono morti degli operai. Colpa dei capannoni, quelli con le architravi solo appoggiate ai pilastri. Si sono sfilate facendo cadere il tetto. Damiano, 23 anni, era al lavoro, alla Menu di Medolla. Un’azienda con 200 dipendenti, 75 milioni di fatturato, nel settore della ristorazione. Uno dei capannoni più grandi ha ceduto. La facciata è caduta, e la copertura si è adagiata sugli scaffali del magazzino. «Siamo scappati fuori. Per un pelo. Nessun morto». Ma intorno tante fabbriche sono crollate lasciando sotto i detriti cadaveri e dispersi. «Ora il disastro è il lavoro. Quando riapriranno? E soprattutto, riapriranno?», dice Damiano nel cortile della sua casa di San Felice, due piani, nessun danno: «Solo l’intonaco ha qualche segno», aggiunge il fratello Giovanni, aspirante geometra, evacuato da scuola a meno di un mese dalla maturità. Se ne stanno accampati sotto un gazebo, con il papà Alfredo, la mamma, il fratello Mattia, che si deve sposare tra due settimane. L’altro fratello e la sorella vivono lontani. Un fornelletto, un tavolo, qualche sedia e l’iPad, per leggere le notizie. E si raccontano quello che hanno vissuto. «Quella casa? Ma hai visto le travi non ancorate ai plinti? E le tamponature?». Ormai tutti esperti di magnitudo e costruzioni. In un posto dove di terremoti non se ne vedevano da secoli. Con loro qualche amico, della zona o venuto da fuori. Perché di compagnia c’è bisogno.
«La solitudine della gente ti colpisce», dice Alberto. E sarà che il nuovo scossone è arrivato da poche ore, sarà la confusione e il disorientamento che ancora si accompagna alla polvere che aleggia nell’aria. Ma questa parola, soli, è una costante sulla bocca di tanti. Quella di don Giorgio, parroco a San Felice, che ha appena detto messa sotto il tendone nell’oratorio, tra i tavoli di raccolta degli aiuti e qualche camper. La chiesa è distrutta, quella in centro vicino alla stazione, sotto la Rocca a cui è rimasta in piedi, pericolante, una torre su quattro. E anche delle altre due chiese più piccole del paese non rimane nulla. «Sono andato a trovare la gente, alla tendopoli. Sono confusi, prevale il lamento. Hanno bisogno di compagnia... Eccola, sentito? La scossa...», si interrompe il parroco. Mentre il terreno vibra.

QUELLA CHE VERRÀ. Non smette mai. Qualche volta dà un colpo più forte. Oppure qualche ora di tranquillità. Ma sul ciglio della strada, tra sedie, tavolini, cibo e quel poco di utile che si può prendere dalle case, tutti aspettano la prossima. Aspettano. Fermi. Come chiedendosi come sarà quella che verrà, tenendo a mente la via di fuga nel caso sia forte. Cosa salvare, chi aiutare.
Anche il vecchietto in canottiera lungo il viale di villette. Da solo, al tavolo, una bottiglia di naturale e un sacchetto con un po’ cibo. Gli passi di fianco, straniero a casa sua, e ti sbircia appena. Due settimane fa ti avrebbe squadrato, forse. Ora no. Aspetta. E basta. La scossa? Qualche aiuto? «La realtà è che davvero non sappiamo neppure di cosa abbiamo bisogno», dice Alberto: «Siamo ancora frastornati. E poco lucidi, forse». E poi si ferma a guardare il capannone della carrozzeria sventrato, e il forno sotto tonnellate di cemento delle travi che lo hanno schiacciato. «E volevo ripartire... Un mio operaio rumeno vuole tornare a casa sua: “Torno a settembre”, mi ha detto stamattina. E io a dirgli no, che è un’occasione. È quello che ci è dato e scappare non risolve». Perché prima o poi, dice, ce ne saranno altre di scosse. E non solo sismiche. «Ripartirò ancora. A 57 anni. E guarda, avevo anche appena tagliato l’erba lì, sotto quelle macerie...».

«VUOLE UN PO’ DI INSALATA?». Quello che è dato. Lo dice anche Yvonne, che col marito ha un’officina a Massa Finalese. E che oggi, nell’officina, ci ha messo il frigorifero, i tavoli, le sedie, la macchina del caffè. E all’ingresso, su un tavolino, una statuetta della Madonna, con fiori freschi davanti e le mani spezzate. «Quasi ringrazio per quello che è accaduto. Lo dico sottovoce, eh... Ma dopo vent’anni ho iniziato a conoscere i miei vicini, la loro umanità. Che oggi passano, si siedono qui, davanti all’officina, ci facciamo compagnia. Mentre prima avevo i miei giri, gli amici, la parrocchia...».
Così è dappertutto, in questo fazzoletto di terra che è la Bassa modenese terremotata. Tanti sono scappati, potendo. Via dagli epicentri. Lontano. Altri non se ne vanno. Dormono in auto, in tenda: «Dopo le scosse di stamattina nessuno vuol più dormire in casa», dice Alberto. Anche sua madre, 86 anni, socialista di ferro di Rivara, si farà piantare un igloo in giardino: «Sono stata qui da sempre. C’è il mio orto, i pomodori... La vuole un po’ di insalata?», dice guardando i campi vicino a casa. In fondo, poco distante il cimitero: «E sì che è lì, a due passi... Ma sono ancora qui, non ho paura».

BASTANO DIECI MINUTI. «Qualche tenda da distribuire alla gente arriverà in serata», spiega Alberto al parroco di San Felice che ha aperto un centro di raccolta, mettendo a disposizione anche i bagni di una struttura della parrocchia. «La Compagnia delle Opere ha chiesto in tutta Italia di farci arrivare tende e camper». Così, alle 22, da Parma arriva Gigi, con due furgoni pieni e un gruppo di amici che hanno raccolto materiale nella loro cittadina. Una ventina di tende, decine di sacchi a pelo, coperte, materassini. E un grande abbraccio per la gente di lì. Per l’amico Alberto e sua moglie, commossi davanti ai nove che a mezzanotte, alla luce dei telefonini e con una allegria impensabile piantano le loro nuove “camere da letto” in giardino. Una compagnia necessaria. Non per consolarsi. Ma per vivere. «Per stare davanti a quello che accade, pieni».
Non sono parole. Le vedi incarnate nel volto di un altro Alberto, viticoltore di Sorbara, che dopo lo scossone del mattino ha aperto la sua casa a decine di amici, con una tavola sempre imbandita di lambrusco e affettati per qualunque amico passasse di lì. Ci capitiamo anche noi, a quel tavolo. Dieci minuti. Sufficienti. Con le facce di Giovanni, Alberto, Marilara. E di Cristina, che legge a tutti un messaggio che don Julián Carrón ha inviato agli amici del movimento colpiti dal sisma: «Io chi sono? Sono una parte di questo tutto che crolla, o sono qualcosa d’altro? Ciascuno, per stare davanti al reale, è costretto a non stare nell’apparenza. Qui si vede chi siamo, dov’è la nostra consistenza». E questa, il terremoto, non può davvero tirarla giù.

Qui si vede chi siamo

ITALIA - IL TERREMOTO
Paolo Perego

Il 20 maggio, la prima scossa. La terra, però, continua a tremare. Ventiquattro vittime, le chiese distrutte, le aziende in ginocchio. Tanti sono scappati. Ma come vive chi è rimasto? Alberto riparte «ancora, perché questo mi è dato». Yvonne mette i fiori ai piedi della Madonna. E Gigi arriva di notte da Parma, con due furgoni pieni... Così tutto costringe a «non rimanere nell’apparenza»

La voce ancora rotta. I muscoli che tremano, mentre ti stringe sottobraccio. E la paura accesa negli occhi di Marilara, mentre racconta del terremoto del mattino. A una settimana dalla scossa del 20 maggio che ha squassato la Bassa modenese, a Rivara, frazioncina alle porte di San Felice sul Panaro, avevano ricominciato a dormire nella villetta. Al pianterreno. In salotto, tra le crepe e i resti di una grossa libreria da cui Stefano, il figlio maggiore che fa Fisica a Bologna, ha ricavato una scarpiera. L’altra figlia, Margherita, è a scuola, a Modena. Il pensiero è ad Alberto. È in carrozzeria. Ha ripreso a lavorare qualche giorno fa, nel capannone rimasto in piedi dei due che aveva a Massa Finalese. Per ripartire, per recuperare un po’ di normalità, anche se la terra sotto i piedi non ha mai smesso di tremare da quella notte.
La normalità. È il boato a sgretolarla ancora. E poi i telefoni muti. La corsa in macchina, dal marito. L’altro giorno era il loro anniversario... «Nessun danno per noi, solo tanta paura. Ma intorno morti, crolli. Chiudiamo ancora», dice Alberto. Sono passate poche ore, e tante scosse, una forte verso l’una. Un tavolino apparecchiato per mangiare qualche avanzo del giorno prima in giardino. Alberto è al telefono con Piero, di Cavezzo, una manciata di chilometri da San Felice, verso Carpi. La scossa del mattino ha raso al suolo il paese. «Una collega sotto le macerie, la stanno cercando. In due siamo usciti, ma lei non ce l’ha fatta, è venuto giù l’ufficio». La troveranno poche ore dopo senza vita. Vanna.
Saranno diciassette a fine giornata, le vittime. Ventiquattro dalla prima scossa. Almeno 14mila gli sfollati, secondo la Protezione Civile. La stima dei danni supera i cinquecento milioni di euro solo nel settore agricolo, in un’area che occupa le provincia di Modena, Ferrara, Parma, Piacenza, Mantova, Reggio Emilia. E le fabbriche. Solo a Mirandola, nel modenese, sorgeva il più grande distretto europeo di aziende biomedicali, circa trecento, che danno lavoro a più di 4.500 addetti. Poi ci sono i danni ai castelli medievali, alle chiese, alle opere d’arte. E le scosse che non si fermano. Più di mille nei primi dieci giorni dal quel 20 maggio.
«Sono andato a fare un giro stamattina», dice Alberto: «A trovare amici, a vedere come stavano». Lungo la strada le scosse, col campanile di San Pollidonio che viene giù in lontananza, e campi di grano che ondeggiano, mentre l’auto schiva i pezzi che cadono dalle case. Cavezzo, Medolla. Coi loro morti. L’epicentro della scossa è proprio lì sotto.

«Il disastro è il lavoro». Dieci chilometri più in là, a Carpi, tante case sono inagibili. E anche il duomo è lesionato, e sembrava che il parroco fosse rimasto sotto. Invece si è salvato. Mirandola, stessa scena. Danni al duomo, all’ospedale. A Rovereto sul Secchia il parroco, don Ivan, è rimasto sotto le macerie della chiesa. Era rientrato per portare in salvo la statua della Madonna.
A San Felice sono morti degli operai. Colpa dei capannoni, quelli con le architravi solo appoggiate ai pilastri. Si sono sfilate facendo cadere il tetto. Damiano, 23 anni, era al lavoro, alla Menu di Medolla. Un’azienda con 200 dipendenti, 75 milioni di fatturato, nel settore della ristorazione. Uno dei capannoni più grandi ha ceduto. La facciata è caduta, e la copertura si è adagiata sugli scaffali del magazzino. «Siamo scappati fuori. Per un pelo. Nessun morto». Ma intorno tante fabbriche sono crollate lasciando sotto i detriti cadaveri e dispersi. «Ora il disastro è il lavoro. Quando riapriranno? E soprattutto, riapriranno?», dice Damiano nel cortile della sua casa di San Felice, due piani, nessun danno: «Solo l’intonaco ha qualche segno», aggiunge il fratello Giovanni, aspirante geometra, evacuato da scuola a meno di un mese dalla maturità. Se ne stanno accampati sotto un gazebo, con il papà Alfredo, la mamma, il fratello Mattia, che si deve sposare tra due settimane. L’altro fratello e la sorella vivono lontani. Un fornelletto, un tavolo, qualche sedia e l’iPad, per leggere le notizie. E si raccontano quello che hanno vissuto. «Quella casa? Ma hai visto le travi non ancorate ai plinti? E le tamponature?». Ormai tutti esperti di magnitudo e costruzioni. In un posto dove di terremoti non se ne vedevano da secoli. Con loro qualche amico, della zona o venuto da fuori. Perché di compagnia c’è bisogno.
«La solitudine della gente ti colpisce», dice Alberto. E sarà che il nuovo scossone è arrivato da poche ore, sarà la confusione e il disorientamento che ancora si accompagna alla polvere che aleggia nell’aria. Ma questa parola, soli, è una costante sulla bocca di tanti. Quella di don Giorgio, parroco a San Felice, che ha appena detto messa sotto il tendone nell’oratorio, tra i tavoli di raccolta degli aiuti e qualche camper. La chiesa è distrutta, quella in centro vicino alla stazione, sotto la Rocca a cui è rimasta in piedi, pericolante, una torre su quattro. E anche delle altre due chiese più piccole del paese non rimane nulla. «Sono andato a trovare la gente, alla tendopoli. Sono confusi, prevale il lamento. Hanno bisogno di compagnia... Eccola, sentito? La scossa...», si interrompe il parroco. Mentre il terreno vibra.
Non smette mai. Qualche volta dà un colpo più forte. Oppure qualche ora di tranquillità. Ma sul ciglio della strada, tra sedie, tavolini, cibo e quel poco di utile che si può prendere dalle case, tutti aspettano la prossima. Aspettano. Fermi. Come chiedendosi come sarà quella che verrà, tenendo a mente la via di fuga nel caso sia forte. Cosa salvare, chi aiutare.
Anche il vecchietto in canottiera lungo il viale di villette. Da solo, al tavolo, una bottiglia di naturale e un sacchetto con un po’ cibo. Gli passi di fianco, straniero a casa sua, e ti sbircia appena. Due settimane fa ti avrebbe squadrato, forse. Ora no. Aspetta. E basta. La scossa? Qualche aiuto? «La realtà è che davvero non sappiamo neppure di cosa abbiamo bisogno», dice Alberto: «Siamo ancora frastornati. E poco lucidi, forse». E poi si ferma a guardare il capannone della carrozzeria sventrato, e il forno sotto tonnellate di cemento delle travi che lo hanno schiacciato. «E volevo ripartire... Un mio operaio rumeno vuole tornare a casa sua: “Torno a settembre”, mi ha detto stamattina. E io a dirgli no, che è un’occasione. È quello che ci è dato e scappare non risolve». Perché prima o poi, dice, ce ne saranno altre di scosse. E non solo sismiche. «Ripartirò ancora. A 57 anni. E guarda, avevo anche appena tagliato l’erba lì, sotto quelle macerie...».

«Vuole un po’ di insalata?». Quello che è dato. Lo dice anche Yvonne, che col marito ha un’officina a Massa Finalese. E che oggi, nell’officina, ci ha messo il frigorifero, i tavoli, le sedie, la macchina del caffè. E all’ingresso, su un tavolino, una statuetta della Madonna, con fiori freschi davanti e le mani spezzate. «Quasi ringrazio per quello che è accaduto. Lo dico sottovoce, eh... Ma dopo vent’anni ho iniziato a conoscere i miei vicini, la loro umanità. Che oggi passano, si siedono qui, davanti all’officina, ci facciamo compagnia. Mentre prima avevo i miei giri, gli amici, la parrocchia...».
Così è dappertutto, in questo fazzoletto di terra che è la Bassa modenese terremotata. Tanti sono scappati, potendo. Via dagli epicentri. Lontano. Altri non se ne vanno. Dormono in auto, in tenda: «Dopo le scosse di stamattina nessuno vuol più dormire in casa», dice Alberto. Anche sua madre, 86 anni, socialista di ferro di Rivara, si farà piantare un igloo in giardino: «Sono stata qui da sempre. C’è il mio orto, i pomodori... La vuole un po’ di insalata?», dice guardando i campi vicino a casa. In fondo, poco distante il cimitero: «E sì che è lì, a due passi... Ma sono ancora qui, non ho paura».

Bastano dieci minuti. «Qualche tenda da distribuire alla gente arriverà in serata», spiega Alberto al parroco di San Felice che ha aperto un centro di raccolta, mettendo a disposizione anche i bagni di una struttura della parrocchia. «La Compagnia delle Opere ha chiesto in tutta Italia di farci arrivare tende e camper». Così, alle 22, da Parma arriva Gigi, con due furgoni pieni e un gruppo di amici che hanno raccolto materiale nella loro cittadina. Una ventina di tende, decine di sacchi a pelo, coperte, materassini. E un grande abbraccio per la gente di lì. Per l’amico Alberto e sua moglie, commossi davanti ai nove che a mezzanotte, alla luce dei telefonini e con una allegria impensabile piantano le loro nuove “camere da letto” in giardino. Una compagnia necessaria. Non per consolarsi. Ma per vivere. «Per stare davanti a quello che accade, pieni».
Non sono parole. Le vedi incarnate nel volto di un altro Alberto, viticoltore di Sorbara, che dopo lo scossone del mattino ha aperto la sua casa a decine di amici, con una tavola sempre imbandita di lambrusco e affettati per qualunque amico passasse di lì. Ci capitiamo anche noi, a quel tavolo. Dieci minuti. Sufficienti. Con le facce di Giovanni, Alberto, Marilara. E di Cristina, che legge a tutti un messaggio che don Julián Carrón ha inviato agli amici del movimento colpiti dal sisma: «Io chi sono? Sono una parte di questo tutto che crolla, o sono qualcosa d’altro? Ciascuno, per stare davanti al reale, è costretto a non stare nell’apparenza. Qui si vede chi siamo, dov’è la nostra consistenza». E questa, il terremoto, non può davvero tirarla giù.

PER AIUTARE
Sottoscrizione per le famiglie e le imprese colpite dal terremoto
Dopo l’aggravarsi della situazione e il succedersi delle scosse di terremoto in Emilia Romagna, Compagnia delle Opere avvia una sottoscrizione per sostenere in modo concreto le popolazioni colpite dal sisma. Le sedi locali CdO sono impegnate per aiutare le famiglie, le imprese, le opere sociali e le scuole nella difficile ripresa delle attività.

Il conto corrente su cui versare è intestato a:

Associazione Compagnia delle Opere
IBAN IT 55 J 05584 01602 000000005680
indicando nella causale
“Terremoto Emilia”