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«Anni di piombo? No, ma potrebbe essere peggio…»

Il rifiuto dello sviluppo per affermare una diversità. Il rischio dell'anti-società e una politica «senza difese». Aldo Brandirali, ex marxista-leninista, legge l'attentato al dirigente Ansaldo. La sconfitta non di una maggioranza, «ma della ragione»
Paolo Perego

Genova. La moto fuori dal portone con in sella due uomini nascosti dai caschi. L’uomo che esce, in parte al figlio. Pochi passi, e un proiettile calibro 7,62 passa da parte a parte la gamba di Roberto Adinolfi, 59 anni, amministratore delegato di Ansaldo Nucleare, società del Gruppo Ansaldo Energia, di proprietà di Finmeccanica. Nessuna rivendicazione. «Chiara matrice terroristica», dicono dalla Questura, ributtando il calendario indietro di quarant’anni, al rapimento Gadolla del 1970, agli attentati "rossi" che insanguinarono la città ligure fino al 1979, con l’uccisione dell’operaio sindacalista Guido Rossa.
«Ma qui il marxismo non c’entra, questo è anarco-insurrezionalismo. Le Brigate Rosse erano un movimento politico, rivendicavano pubblicando dei documenti. Qui si parla di "antipolitica", senza motivazioni: come se dicessero: "Ci siamo anche noi, e rifiutiamo la società"». È tranchant il giudizio di Aldo Brandirali, classe 1941, un passato da militante delle frange extraparlamentari comuniste abbandonate proprio per il rischio di derive violente, fino alla conversione nell'incontro con don Giussani negli anni Ottanta. «L’unica continuità che vedo con quegli anni è data dal fatto che il sistema politico non ha anticorpi. Sinistra e destra finiscono sempre per proteggere in qualche modo le loro frange estremiste. Non ci sono paletti discriminanti con un sistema bipolare in cui per vincere serve anche lo 0,5 per cento dei voti». Un sistema politico, quindi, che continua a mantenere un connubio equivoco con l'antisistema. Con gli "asociali", come li chiama lui: «Asocialità come rifiuto dello sviluppo, il male assoluto». Non solo un problema di tensioni sociali generate dalla crisi. «Il nodo è la struttura stessa della crisi: se è vero che la speculazione finanziaria ha potuto fare tutti i disastri che ha fatto, allora cosa vuole dire sviluppo? Cos’è lo sviluppo se produce chi ci distrugge? Il Papa continua a richiamare al bene comune, alla dimensione comunitaria, all'andare al fondo di perché vale la pena costruire. Ma nel dibattito pubblico non viene mai ripreso».
Tutta l’antipolitica di oggi, dai No Tav a Beppe Grillo, fino ai movimenti politici di Di Pietro e Maroni, cavalcano quest’onda: «In questo indebolimento del concetto di bene comune lo spirito antisociale diventa più forte. Tutti nuotano nel lago del rifiuto della logica comune. "Noi non ci faremo fregare da voi". Ma se tutto diventa irrazionale, allora è la ragione a uscirne sconfitta, non una maggioranza politica. L’unico problema per certa gente è affermare una diversità, anche attraverso fatti violenti. Vedi Genova. Come se dicessero: "Ma perché dobbiamo spiegare, motivare? Siamo solo altro da voi". La questione è che bisogna iniziare a fare i conti con quest’idea sempre più diffusa che si possa vivere contro la società. Un modello anarchico fondamentale, a ben vedere».
Quarant’anni fa, ad ammortizzare in qualche modo certe tendenze, c’erano luoghi come i centri sociali: «Erano antisociali, delle "isole di società parallele" dove dicevano: "Siamo liberi, facciamo quello che vogliamo…". Ma si andava contro a una società per costruirne un’altra». E oggi? A Parma e a Genova i "grillini", per esempio, hanno fatto il pieno di voti… «L’ha scoperto Umberto Bossi per primo, che se dicevi "Padania" al posto di "Italia" trovavi consensi. E via via si sono sviluppate esperienze analoghe. Irrazionali, che però nella contraddizione e nel lacerarsi della società ti danno il potere di rappresentarne un pezzo. Le urla di Grillo sono di questa natura: raccolgono i frammenti, diventando portatrici di questa scelta per l’antisociale. Ma l’antisociale, oggi, non costruisce. I No Tav non costruiscono nulla. Non fanno neppure feste o momenti ludici tra loro. Non hanno nulla da costruire». Detto da uno che nel ’68 urlava: «Vogliamo cambiare il mondo», e del suo essere "contro" diceva: «Perché la società ci frega».
Quindi, il pericolo non sarebbe tanto un ritorno agli "anni di piombo"… «Peggio. Il pericolo è la crescita di tutti i rifiuti alla società, alla relazione, alla ragionevolezza. Alla ragione. Con la Repubblica di Weimar, nella Germania tra le due Guerre mondiali si era generato un processo di autodistruzione dello stesso tipo. Molto peggio del terrorismo. Allora si sviluppò una tale disgregazione della società che solamente un progetto autoritario poteva rispondergli. La strada che stiamo imboccando non è molto diversa…». E la speranza? Dove sta? «Nella politica, quella dei principali partiti. Quella vera e responsabile, che guardi davvero al bene comune, in cui tutti gli attori possano dare una risposta di speranza. Insieme, però. Se no sarà una battaglia persa».