Bologna, l'auto dell'uomo che si è tolto la vita <br>davanti all'Agenzia delle Entrate.

«Caro Sofri, è davvero quello l'ultimo sussulto della dignità?»

Il giornale che chiude, le preoccupazioni e la ricerca di un nuovo posto. Un giornalista nella crisi: «Ma io sono stato liquidato?». E quali sono le ragioni per cui non abbandonare tutti?
Ubaldo Casotto

Perdere il lavoro vuol veramente dire, come sostiene Adriano Sofri (la Repubblica, 30 marzo 2012) perdere la libertà? Il giorno prima dell'articolo di Sofri io ho perso il lavoro. Il mio giornale ha chiuso. Ho quasi la stessa età di quell'uomo che si è dato fuoco a Bologna davanti alla sede delle commissioni tributarie, lui 58 anni io 54. Ho quattro figli, una è sposata, gli altri tre, come si dice con brutta espressione, "a carico". Nelle notti insonni in cui si pensa di tutto (l'affitto troppo caro, le tasse universitarie e la retta scolastica, gli imprenditori da contattare per vedere se sono interessati a rilevare la testata, tutte le persone da sentire cui chiedere una collaborazione se il tentativo va male, l'ipotesi di cambiare totalmente lavoro, come ridurre i costi...) ho pensato anche al suicidio. Non al mio, tranquilli. Ho pensato alle persone che in questa situazione, sicuramente in situazioni più esasperate della mia, si tolgono la vita.
Sofri dice che in quel gesto estremo c'è un sussulto di dignità. Per definirli, e distinguerli dalle morti bianche, dice: «Caduti sul lavoro, caduti per il lavoro». All'ingresso della fermata "Duomo" della metropolitana di Milano c'è una lapide con tre nomi, tre operai che morirono durante la costruzione: «Vittime del lavoro». Quando l'ho notata, per la prima volta venerdì scorso, poco prima di leggere l'articolo di Sofri, pur essendoci passato davanti centinaia di volte nei miei anni di lavoro a Milano, sono tornato indietro per essere certo di aver letto bene: "vittime del lavoro".
Dunque, il lavoro «rende veramente liberi», come dice la citazione paradossale dell'iscrizione di benvenuto nel lager di Auschwitz, ma il lavoro uccide, il lavoro schiavizza, il lavoro aliena...

Per esperienza diretta negli anni giovanili in cui lo cercavo per aiutare in famiglia, e poi subito dopo la laurea per sposarmi, e poi da sposato (non avevo ancora trovato il posto fisso), so che non lavorare deprime il senso di sé, il significato del vivere, della propria utilità per il mondo. E infatti facevo di tutto. Lo so per esperienza anche adesso: non è possibile, mi dico, che tutto quello che ho imparato, quello che so fare, l'energia che mi ritrovo addosso non servano a nessuno. Mi hanno messo "in liquidazione", ma io sono liquidato?
Saranno stati questi i pensieri delle «persone che si arrendono, fino al gesto estremo», come dice Sofri? Sinceramente non ho risposta, ho un rispetto assoluto e misterioso per quello che succede nel cuore di ognuno. Forse Sofri ha ragione, in quella negazione di sé c'è una rivendicazione estrema di dignità, ma è un impeto che nega se stesso, non può essere lì la risposta. Io sono utile al mondo (alla moglie, ai figli, addirittura al fisco cui quell'uomo scrive chiedendo perdono) certo perché lavoro, ma sopra ogni condizione perché ci sono. Il mio esserci in quanto tale può essere ragione di speranza per chi mi è vicino, per chi incontro, per chi lavora ha lavorato lavorerà con me. Il rifiuto del mio essere non riguarda solo me stesso, getta un ombra di inutilità e di non dignità su tutto e su tutti. Sofri dice che chi si toglie la vita lo fa perché «si sente abbandonato da tutti», e penso che abbia ragione, forse non come realtà, ma sicuramente come sentimento. Io invito a pensare al fatto che chi si toglie la vita "abbandona tutti" a un destino di non senso, compresi i cari a cui chiede perdono.

La dignità di sé è cosa troppo decisiva per affidarla a qualsiasi forma di riconoscimento sociale, fosse anche il lavoro; ché, ad esempio, da vecchi (d'ora in poi sempre più da vecchi) non si lavora più.
Perché io, non solo non mi sento, ma so di non essere stato abbandonato da tutti? Perché mi faranno fare i corsi di formazione per ricollocarmi? Li frequenterò, se del caso, ma non scherziamo.
È una questione di memoria. La tremenda solitudine che porta coerentemente alla disperazione, o che si ferma prima nella rassegnazione, è un presente immemore. Invece ognuno di noi è un portato di ragioni e di fatti che danno stoffa al suo io e alla sua speranza. Io penso a mia madre venuta via a vent'anni dal Veneto con me in pancia e 5mila lire in tasca, e ai milioni come lei; penso a come siamo usciti dalla Seconda Guerra mondiale e come abbiamo (hanno) ricostruito questo Paese, penso alle carestie che l'hanno attraversato nei secoli passati, penso alla fine dell'Impero romano e alla rinascita benedettina, penso al popolo di Israele che non si è fatto tre anni di caduta del pil ma quaranta di traversata del deserto, e penso al presente (la memoria senza presente è nulla), ai piccoli imprenditori che non ce la fanno e si impegnano la casa per non licenziare (ce ne sono), alle persone che conosco che vivono per aiutare l'umanità dolente che incontrano. Ecco, la mia non solitudine è fatta di questa positività che attraversa il tempo fino alla faccia del mio quarto figlio. Non c'è brutta possibilità della storia che possa sconfiggerla, adesso. In futuro? Non sono così moralista da ipotecarlo con tronfie promesse, ma vedo ragioni sufficienti e adeguate per affrontarlo con dignità.

Ho un vero grande cruccio, che è il dolore che anima le parole di Sofri: che questa "compagnia" non è arrivata in tempo al cuore, al volto e alla mano di quell'uomo.
Tanti anni fa su Lotta Continua fu pubblicata una lettera sul suicidio di un giovane militante, il "compagno Roberto". Diceva: «C'è il desiderio che tra la nostra splendida teoria piena di futuri paesi delle meraviglie e la nostra "squallida" pratica quotidiana non si lasci più aperto un varco così grande che un uomo possa perdersi».
La questione è ancora questa, non l'articolo 18.