Tedeschi in festa per l'apertura del Muro.

Sotto il cielo di Berlino

La fiumana di gente, le picconate, lo spumante... Vent’anni fa crollava un regime in cui non credevano più neanche i suoi sostenitori. Perché, come spiega su "Tracce" la slavista Serena Vitale, in realtà «il dissidente che combattevano era dentro di loro»
Fabrizio Rossi

«Il Muro? Si sapeva che sarebbe crollato». In che senso? «Era già marcio, come il sistema che rappresentava. Nessuno ci credeva più, neanche i pezzi grossi del Partito. Sa che scena ho visto a Mosca una volta?». No, quale? «Un funzionario dell’Unione degli scrittori che, ubriaco, si confidava col suo cappotto: “Io so le lingue e conosco tante cose nel Partito - gli diceva -. Ci pensi? All’estero chissà quanto mi darebbero...”. Una società di schizoidi, che servivano il Partito e al tempo stesso lo maledivano perché non si trovava nemmeno la carta igienica». Un sistema vuoto, come il cappotto contro cui si scagliava il suo proprietario. E destinato a crollare, quindi, in quel 9 novembre 1989 che Serena Vitale, docente di Lingua e letteratura russa all’Università Cattolica di Milano, non esita a definire «il giorno più bello della mia vita».
Sono immagini che hanno fatto il giro del mondo: la fiumana di gente che varca il Checkpoint Charlie, le picconate, i Vopos - la famigerata polizia del popolo - che guardano impotenti, le bandiere, le schitarrate in piedi sul Muro, gli applausi, le docce di spumante alla Porta di Brandeburgo... «Anch’io l’ho stappato, tra le lacrime, incollata ai tg con alcuni amici», ricorda la Vitale. Avendo girato in lungo e in largo i Paesi oltrecortina - i suoi studi l’hanno portata a Mosca, Praga, Dresda, Berlino... -, sa bene di che si trattava: «Venivi dall’Occidente? Eri guardato con timore e invidia, e nessuno ti parlava. Berlino Est era terrificante: poca gente in giro, facce cupe, un silenzio di paura... Avevi l’impressione che tutti fossero dietro le finestre a spiarti». Un’impressione accentuata dal fatto che, in fondo, tutto ciò avveniva appena svoltato l’angolo: «Non facevi in tempo a prepararti: una fermata di metro, passaporto, e finivi nell’orrore. Da un mondo a un altro». Non a migliaia di chilometri di distanza, come la Siberia: a Berlino un muro divideva il padre dalla figlia, quando entrambi vivevano nella stessa città e potevano guardare lo stesso cielo.
«Che dovesse succedere qualcosa da un giorno all’altro, quindi, era nell’aria: la gente non ce la faceva più e ormai criticava anche in pubblico il potere, che tra l’altro aveva proibito gli alcolici...». Sono tante piccole crepe nel monolite: compaiono pubblicazioni prima clandestine (come alcuni capitoli di Arcipelago Gulag, il capolavoro di Aleksandr Solženicyn, usciti nell’estate ’89 su una prestigiosa rivista russa), addirittura qualcuno scende in piazza: «Come m’è capitato nel 1988 a Leningrado. Pensavo di vedere un miracolo: una trentina di persone, al tramonto, in una manifestazione non organizzata dall’alto. Ma il malcontento si esprimeva anche in modi più terra terra». Quali? «Prenda le barzellette diffuse tra la gente: erano sempre più crudeli...». Un esempio? «A Mosca c’è una coda sterminata per comprare vodka e la gente dà la colpa al regime. Un ragazzo, a un certo punto, decide: “Basta, vado al Cremlino e ammazzo Gorbaciov!”. Torna dopo un po’: “Allora, ce l’hai fatta?” “No, c’era una coda ancora più lunga...”». Davanti a questa situazione, il potere cercò di salvare il salvabile, cambiando i vertici di Partito e Governo, o ammorbidendo la legge sui viaggi all’estero. Per queste aperture, Gorbaciov sarebbe stato salutato in Occidente come un “liberatore”, mentre i russi l’avrebbero criticato per non aver saputo evitare il caos: «Ha sollevato per primo il coperchio della pentola a pressione, ma non perché finisse il comunismo: era un uomo di potere che tentava di salvare l’Urss». Ma quella pentola gli è scoppiata in mano.

Una roccia più forte. È significativo che il crollo del regime sia partito da Berlino, dove il Muro stesso valeva come un simbolo della vera natura del potere. Come un’autodenuncia: visto che questa società non è il paradiso in terra promesso, costruiamo una barriera con filo spinato e cecchini perché la gente non scappi. Da qualche anno, a questo simbolo se ne contrapponeva un altro: «L’elezione di Giovanni Paolo II è stata fondamentale per il crollo dei regimi comunisti: proprio da un Paese che si vantava di aver annientato Dio, veniva l’uomo che è diventato Papa...». Non a caso, la roccia di Pietro si sarebbe rivelata più forte del Muro.
È la forza della verità, un’oggettività con cui anche il funzionario più “inquadrato” era costretto a fare i conti: «Un sistema retto su menzogna e ideologia era destinato a crollare. Forse Stalin e Lenin non hanno mai pensato di fuggire, ma tutti quelli che ho conosciuto io vedevano benissimo che così non andava. Alla scrivania erano fedeli alla causa, ma poi ti chiedevano di accompagnarli di nascosto a comprare la pelliccia alla moglie. Il dissidente che combattevano era dentro di loro». È il cuore, insomma. E dell’ideologia che ne era, allora? «Ormai, spesso cedeva il posto ad una pratica burocratica. In fondo, anche quelli del Kgb erano dei poveri impiegati: una volta m’hanno fermato cinque ore in aeroporto, e sa per cosa? Per ricopiare - a mano - la mia agendina e fare un disegno del mio asciugacapelli... Altro che metodi sofisticati, anche questi non aspettavano altro che timbrare il cartellino».
Alla fine degli anni 80 il dissenso sembrava sconfitto: le repressioni avevano eliminato gli elementi scomodi, altri - come Solženicyn - erano emigrati, l’accademico Andrej Sacharov sarebbe morto poco dopo, mancavano nuove leve... Ma, proprio allora, è arrivata la fine del regime. Non è un paradosso? «I dissidenti avevano portato una luce, contribuendo a cambiare le coscienze. E, anche se in quel momento non c’era più una forza morale che si contrapponesse al potere, il loro sacrificio non era andato perso. L’ho visto coi miei occhi ai funerali di Sacharov: mica quattro gatti, lì c’era tutta Mosca».

Effetti collaterali. La libertà aveva sgretolato il Muro. Intendiamoci, con l’occidentalizzazione non sono arrivati solo modelli positivi. Tanti, appena entrati in Berlino Ovest, per prima cosa sono corsi a comprare i jeans: «Ma cosa dovevano fare, se sono stati contaminati dal mito dell’Occidente? Gli abbiamo offerto qualcosa di meglio? La volgarità è un rischio, per noi come per loro». Con la fine dell’impero sono emerse anche questioni spinose: la ricerca di un’identità nei Paesi dell’ex blocco, il ritorno di pericoli come nazionalismo e xenofobia, la diffidenza verso le istituzioni europee. E i rapporti con l’islam, la libertà di espressione... «Da quando la Russia è diventata una democrazia, sono state uccise decine di giornalisti. Da anni, poi, vanno avanti le polemiche sulla storia che s’impara a scuola: alcuni manuali mettono in secondo piano i delitti di Stalin, rivalutandolo come un grande statista. Al tempo stesso, Arcipelago Gulag viene inserito nei programmi delle superiori... Non le pare una contraddizione?». E non mancano i nostalgici del «si stava meglio quando si stava peggio», che criticano gli “effetti collaterali” della caduta del Muro: «Era naturale che scoppiassero le questioni ibernate dal comunismo. Ma c’è un guadagno che viene prima di qualunque problema». Quale? «La libertà. Su questi Paesi si è riaperto il cielo, e questo è tutto».
(da Tracce, novembre 2009)