L'incontro tra Albacete (a sin.) e Hitchens (a destra).

I nuovi atei e quella vita che crede in Dio

Per l'opinionista Christopher Hitchens, la fede è solo «una faccenda politica». Ma ora, davanti ad una malattia, può reggere questa posizione? Nel nuovo editoriale di "Traces", chi l'ha conosciuto spiega perché non siamo noi a decidere cosa desiderare
Lorenzo Albacete

Un paio d’anni fa fui invitato a partecipare a un pubblico dibattito sul “nuovo ateismo” e sulla sua pretesa di rimuovere dalla scena pubblica qualsivoglia influenza di tipo religioso. Questo “nuovo ateismo” non è una posizione filosofica contro l’esistenza di Dio. Piuttosto, è un fine politico aggressivo, il punto di arrivo di una ideologia secolarista militante.
L’incontro avrebbe dovuto svolgersi all’interno di una cena di gala in un elegante albergo di Manhattan, e avere come moderatori alcune figure molto note nel mondo dei media. Sembrava interessante, così accettai di partecipare a quella che pensavo fosse una tavola rotonda.
Pochi giorni prima dell’evento, tuttavia, mi resi conto con preoccupazione che non sarebbe stato così. A rappresentare il mondo della religione e della fede ci sarei stato solo io... E, ad argomentare a favore del secolarismo militante, niente meno che il formidabile Christopher Hitchens! Pare che gli organizzatori avessero invitato anche altri a difendere la religione dagli attacchi di Hitchens, ma che questi avessero rifiutato, ben sapendo che dall’altra parte c’era un maestro in questo genere di spettacoli.
Avevo solo pochi giorni per prepararmi, e cominciai a leggere le trascrizioni dei suoi precedenti incontri. Erano sgradevoli come pensavo: Hitchens era in gamba, proprio come temevo. Ma c’era qualcosa di più, che non mi aspettavo: considerando come le discussioni si erano sviluppate, il più delle volte mi trovavo d’accordo con Hitchens.
Ho avuto la stessa reazione di recente leggendo alcuni interventi sull’ultimo libro di Hitchens, Hitch-22, appena pubblicato.
David Brooks, l’opinionista “conservatore interno” del New York Times, ha scritto un pezzo interessante su Hitchens e sul libro (il Corriere della Sera l’ha ripubblicato il 5 luglio, ndr), notando che «vi sono poche persone in questo Paese che portano una simile prospettiva letteraria nella politica e nelle sue controversie». Per Hitchens, le questioni di religione e di fede sono a pieno titolo faccende politiche.
Brooks descrive le esperienze giovanili di Hitchens e il tremendo influsso che hanno avuto sul suo modo di pensare (e sul suo modo di argomentare, aggiungo io). Riguardo alle sue idee su religione e fede, così scrive Brooks: «La prospettiva letteraria detta l’agenda di Hitchens. In termini ideologici, i suoi interessi spaziano da un punto all’altro del globo... La prospettiva letteraria ha contribuito inoltre al suo senso di avventura, al suo gusto per le battaglie da combattere, se necessario, anche da solo. La fatwa scagliata dall’ayatollah Khomeini contro Rushdie “ha segnato il mio destino - scrive Hitchens - Di colpo ho compreso, come dire, che era in ballo tutto quello che amavo contro tutto quello che odiavo”. Dittature, religioni, censure di ogni genere contro la letteratura, l’ironia e la libertà di espressione. Non ci sono mezze tinte: Hitchens giudica tutti sul metro del suo coraggio morale».
Quando il nostro incontro finalmente ebbe luogo, mi rifiutai di stare al gioco. Mi ripetevo a più riprese che, stando a come Hitchens aveva vissuto l’esperienza della fede e della religione, il più delle volte mi trovavo d’accordo con lui.
A un certo punto, Hitchens era visibilmente seccato: «Pensavo che mi sarei trovato a dibattere con un credente, ma lei sembra più vicino alla mia posizione di ateo», disse più o meno.
Molti fra il pubblico, che pensavano che avrei abboccato all’esca di Hitchens, erano delusi dal fatto che io avessi “battuto in ritirata”, e molti dei suoi seguaci erano delusi per il fatto di non poter godere delle sue magistrali strategie di discussione.
Da allora, ho avuto due rimpianti. Il primo è di non aver fatto riferimento a un’opera letteraria che avrebbe risposto all’interpretazione in chiave ateistica che Hitchens dava della propria esperienza. Penso al Blues per l’uomo bianco di James Baldwin, citato da Luigi Giussani ne Il senso religioso. In particolare, Giussani cita una conversazione fra il personaggio di Richard e sua nonna. Questa fa un accenno all’importanza della fede nella propria vita, e Richard commenta: «Lo sai che non credo in Dio, nonna». E lei replica: «Tu non sai quello che dici. Non è possibile che tu non creda in Dio. Non sei tu a decidere». Richard le chiede: «E chi altro decide, allora?». E lei: «La vita che è in te decide. Lei sa da dove viene, lei crede in Dio».
Ho visto in Hitchens quella vita di cui scrive Baldwin, e avrei voluto parlare con lui faccia a faccia, lontano dallo show pubblico, del desiderio del cuore che lui sottolinea. Il secondo rimpianto è di non aver fatto nulla per verificare questa possibilità.
Ora Hitchens ha annunciato che gli è stato diagnosticato un tumore all’esofago, e non voglio in alcun modo sembrare di trarre vantaggio da una simile situazione per vedere se sia interessato a un incontro di questo genere. Spero che si rimetta presto, e che un giorno possiamo organizzare al Centro Culturale Crossroads un evento su quella vita di Baldwin, al quale voglia e possa partecipare.