«Ecco, io faccio nuove tutte le cose»

Pino, Denise, Lucio. Da una comunità per tossicodipendenti al Brasile, a una cella di San Vittore... Tre storie di uomini rinati. Quando loro stessi non ci speravano più
Paola Bergamini e Alessandra Stoppa

«Ero una larva che viveva di cocaina. Questa nuova vita era impossibile, ma è»

A trentatre anni andava in giro con sua madre che lo teneva sottobraccio. Lo accompagnava dappertutto perché lui non riusciva nemmeno a camminare. «Ero ridotto a una larva». Dopo quindici anni di droga, con la vita che era diventata tutta cocaina e psicofarmaci. Finché un giorno ha guardato la mamma e le ha detto l’unica cosa che la sua mente riusciva a mettere a fuoco: «Questa volta o ne esco o mi ammazzo». Un’assistente sociale gli aveva proposto di entrare nella comunità Pars, nelle Marche. Non sapeva nemmeno cosa fosse. «Sapevo solo che era l’ultimo treno», dice Pino oggi, dopo dieci anni.
L’impatto è stato con una cosa mai vista prima. «Mi guardavano per quello che ancora potevo essere. Per quello che di grande poteva venire fuori da me. Ma io non riuscivo a pensarci, una vita diversa non sapevo nemmeno immaginarla». Per lui era impossibile quello che ha fatto oggi. Stamattina è andato a lavorare, ci è andato in bicicletta. È tornato a casa, la sua casa. In cucina ha trovato Carla, sua moglie. Guarda questa vita e si chiede da dove sia venuta fuori. «Era impossibile», ma è. Dice che si sveglia contento. «Non perché sono scemo. Ma perché ho il cuore pieno: sono contento di esistere e prima mi sarei ammazzato».
Quando è arrivato in comunità ha fatto una brutta scoperta: continuava a sbagliare come prima. «Io sapevo che quando sbagli vieni fatto fuori. Ero abituato così. Nei rapporti era così. Lì no. Ero continuamente perdonato. Nessuno mi giudicava. Quando non ci speravo più, ancora venivo perdonato, ancora mi facevano ripartire».
All’inizio era tutto strano, la vita della comunità era fatta di regole e preghiere. Poi sono iniziati i primi lavori, le prime responsabilità. «Ma la cosa più nuova era che venivo considerato. Questo, col tempo, pian piano, mi ha ridato fiducia». E col tempo, pian piano, ha conosciuto «un fatto che mi ha preso tutto l’essere: il cristianesimo. È quello che mi ha reso libero. Capisco che possa sembrare un bel paradosso», sorride: «Ma io ho scoperto la libertà appartenendo a qualcuno. E ora so perché». Ripensa al perdono che arrivava, sempre, quando non ci credeva più, fin dal primo giorno in comunità. «È Dio che perdona così. Tu cadi e Lui ti rialza. Sono libero perché è Lui che mi lascia libero di sbagliare. Prima non conoscevo questo, e non conoscevo me».
Dopo dieci anni, nella sua casa di Macerata insieme a Carla, fa fatica a ripensare ai dubbi che aveva su una vita nuova. Eppure di dubbi era pieno, lo soffocavano. «Li ha vinti tutti il cristianesimo». Per lui non sarebbe stato possibile senza quella comunità nata dall’incontro tra don Giussani e don Gelmini, dove ha trovato gente che faceva sul serio con la propria vita e quindi non giocava con la sua. «Quest’amicizia è stata il mio incontro con Cristo perché non finisce». Tutto il resto, nella sua vita, è finito. Pensava di dover correre sempre dietro a cose nuove per cambiare. Per cui continuava a cambiare tutto. La fidanzata. Il lavoro. La città. E non cambiava niente. «Poi sono cambiato io. Dal correre dietro alle cose, la mia vita è diventata Cristo che mi viene incontro. Ora seguo una cosa più grande che non raggiungerò mai. Ma sono rinato per la seconda volta. E ho quarantadue anni...».


«Non sono nessuno, solo una mendicante a Belo Horizonte. Ma quelle donne sono venute a casa mia...»

«Loro sono persone, e io che cosa sono?». Denise era una bambina quando se lo chiedeva guardando la gente. Non riesce a dire bene quanto fosse senza senso la sua vita, ma lo era al punto che non sapeva che cosa era lei stessa.
Da ragazzina, mentre andava al lavoro, è stata violentata da uno sconosciuto. Il padre ha cacciato di casa lei e la figlia che aspettava. Ha preso un treno a caso ed è scesa alla stazione di Belo Horizonte. Col suo pancione viveva come una mendicante. Davanti ai poliziotti che le chiedevano chi fosse, ha saputo solo dire che in quella città abitava la sorella di suo padre. L’hanno portata là, dove è stata accolta. Ma solo fino a quando non è nata sua figlia. Sbattute fuori di nuovo, tutte e due. Ha iniziato a lavorare senza essere pagata, accampata di casa in casa e sfruttata da tutti. «Come fosse l’inferno». Poi ha visto la salvezza in uomo che è diventato suo marito. Più la famiglia cresceva, più lui beveva e la picchiava. Ma meno male che i figli avevano bisogno di un asilo.
In città ce n’era uno in costruzione. Denise è venuta a sapere che poteva portarli lì. E ha incontrato due maestre, insieme a Rosetta Brambilla, la responsabile delle Opere Educative don Giussani. Senza conoscerla, le hanno garantito un posto per i figli. Lei era di nuovo incinta, senza più un marito e con i soldi soltanto per mangiare. Ma, quando ancora l’asilo non era aperto, quelle due maestre con Rosetta sono andate a trovarla. «Non ero ancora nessuno e loro sono venute a casa mia. Quel giorno ho pensato che solo Dio poteva mandarmele».
L’hanno aiutata ad avere un terreno e una casa, senza luce né acqua, ma sua. «Ho iniziato a desiderare la vita», dice Denise. È rimasta incinta per la quinta volta e di nuovo ha pensato che fosse tutto finito. «Ma quelle donne venivano a casa mia e mi dicevano che la vita era bella, di reagire». E lei lo faceva perché c’erano loro.
È nata Samara, l’ultimogenita, malata e denutrita. Denise non riusciva ad allattarla. Fissava la piccola che si ammalava sempre più, e ammalandosi insieme a lei ha iniziato a dubitare che Dio ci fosse. «Ma non vedi le amicizie che ti sta donando?», le ripeteva Rosetta. Ha cominciato a guardarle, andando tutti i giorni all’asilo dei suoi figli. Quando ha chiesto di poter lavorare lì, era sicura di una cosa: «Io non avrò mai un lavoro fisso». Ora fa la cuoca. Mantiene da sola i suoi cinque figli. A loro glielo dice sempre: «Figli miei, adesso sono una persona».


«La mia vita per Te, che hai sgretolato il mio carcere»

A San Vittore Lucio doveva scontare una pena pesante: associazione mafiosa. Di poche parole, il suo contegno, il suo modo di fare incuteva rispetto da parte degli altri detenuti. Ogni settimana la moglie e i due figli lo venivano puntualmente a trovare. Aveva anche trovato un lavoro come impiegato tra le mura del carcere. Poi un giorno il suo compagno di cella, Vittorio, gli dice: «Perché non vai a parlare con il cappellano, don Luigi? È uno in gamba». Lucio ci pensa un po’, poi si decide a chiedere un appuntamento. È il 1986. Parlano. E poi si rincontrano. Diventano amici. Don Luigi ha un altro "rispetto" per Lucio. Gli parla di un altro Amico, della fede. Riaffiora la memoria delle cose belle della vita.
È come se la testa cominciasse a riaprirsi. Non c’è più l’unico pensiero che sembra annebbiare tutta la realtà: uscire. Ad ogni incontro è come se un pezzetto del carcere si sgretolasse. Don Luigi si fida di lui, è sicuro del suo cambiamento. Così si fa garante per un permesso di uscita per un fine settimana. Lucio dà la sua parola. Quel sabato mattina i detenuti lo salutano certi che non lo avrebbero più visto. Qualcuno mormora: «Con la storia della fede li ha gabbati tutti! Quello prende il volo». Lui quando il portone si chiude alle sue spalle tira un lungo sospiro. Le macchine, i passanti, il cielo, gli alberi rinsecchiti di piazza Filangeri… «Come si sta bene!». Solo per due giorni. Quella sera qualche "compagno" della vecchia vita lo passa a trovare, si fa sentire. Anche per loro è scontato che non rientri. Lui parla poco. Non dà spiegazioni. Quella è un notte d’inferno. La libertà è lì a un passo. Sa come fare. Ma la faccia di don Luigi gli si para davanti. C’è qualcun Altro che lo chiama. Che gli vuole bene. Vorrebbe resistere. È una lotta. Come l’Innominato, alla fine si arrende all’unico Amico per cui vale la pena dare tutto. Quando si assopisce, fuori albeggia.
Domenica sera una voce corre di cella in cella a San Vittore: «Lucio è tornato». Nessuno ha il coraggio di dirgli niente. Ma quel fine settimana la decisione è stata presa: «La mia vita per Te. Ho chiuso con il male fatto».
Ricominciano gli incontri con don Luigi. Un’amicizia sacra li unisce. Quando gli viene concessa la semilibertà, attraverso alcuni preti, amici di don Luigi, trova il primo lavoro. Lucio ha sempre avuto testa, e mani che non stavano mai ferme, per questo era diventato un "capo". Si dà da fare e piano piano trova occupazioni sempre più interessati e remunerative fino a mettersi in proprio. Ogni tanto qualche "vecchio" amico si fa sentire pur sapendo che ha chiuso con quella vita. Quando può aiuta a uscire dal giro. La frase che ripete è sempre la stessa: «Senza fede non si va da nessuna parte».
Torna spesso a San Vittore, Lucio. Porta vestiti, panettoni, quello di cui sa che hanno bisogno. Poi, poi c’è il legame con don Luigi, che negli anni è diventato ancora più saldo. Lucio appena può va a trovarlo, corre tutte le volte che lo chiama. Il figliol prodigo non abbandonò più la casa del padre.