Il Ministro Gelmini.

UNIVERSITÀ Riforma fuori pista alla prima curva

Provvedimento bloccato in Parlamento. Studenti e ricercatori che tornano in piazza. Ma cosa succede davvero negli atenei? Ne abbiamo parlato con Daniele Checchi, preside di Scienze politiche alla Statale di Milano
Paolo Perego

Corsi che non partono, anni accademici che slittano, tutti in attesa di vedere cosa accadrà alla “prima curva stretta” dell’approvazione o meno del testo della Riforma. Scenario da gran premio, quello che si profila per l’università. Una corsa di cui però le regole non sono ancora chiare e tutt’altro che scontato l’esito. I tagli, le proteste dei ricercatori che minacciano di non insegnare in corsi che sulla carta non dovrebbero neppure tenere... Chiedono più garanzie, concorsi, più fondi per la ricerca. E poi la discussione del decreto che è stata rimandata proprio oggi a dopo la sessione di bilancio: rimarrà bloccata fino a che si parlerà di finanziaria alla Camera. E nel frattempo bisognerà trovare le risorse per rendere reali i 9.000 posti da associati in sei anni promessi dal Ministero ai ricercatori.
Insomma, sono i tratti di un quadro poco esalante. Che ad occhi stranieri potrebbe confermare i dati sempre desolanti di certe classifiche “di merito” che confinano sempre gli Atenei italiani in posizioni medio basse a livello internazionale. Allora qual è la fotografia reale dell’università italiana dal punto vista della “questione ricercatori”, considerato che è uno punti cardine della discussione sulla Riforma? E perché all’estero non si hanno problemi analoghi?
«All’estero un ricercatore viene assunto con un contratto a tempo determinato (tenure track) nell’arco del quale in due momenti, durante e alla fine del contratto, viene valutato nel suo operato. Quindi può essere assunto a tempo indeterminato o lasciato a casa», spiega Daniele Checchi, preside della facoltà di Scienze Politiche alla Statale di Milano dove si occupa di Economia dell’istruzione. Nessun concorso dunque. Un professore trova uno valido, lo fa assumere. Con tutte le garanzie del caso. «Contro il consociativismo esistono delle difese. Intanto la valutazione è ad opera di membri esterni al dipartimento. E poi qui agisce davvero il sistema meritocratico basato su premi e punizioni. Se un professore assume uno che non produce ricerca, pubblicazioni, verrà “punito” ricevendo meno fondi dall’ateneo. È un principio semplice: ampia libertà di scelta e grande responsabilità di fronte all’ateneo. Questo genera un circolo virtuoso». Un sistema che attira anche tanti ricercatori da Paesi stranieri, e spesso italiani. «Un recente studio, sulle aree di insegnamento economiche, che, osservando i primi cento dipartimenti del mondo, ha stimato intorno al 10% la percentuale di ricercatori italiani all’estero, mentre è emerso che gli stranieri nei dipartimenti italiani sono appena l’1%. Siamo esportatori netti di cervelli. Suppongo che il discorso, forse con cifre differenti, sia allargabile alle altre discipline».
E in Italia? Alla voce “reclutamento” in cantiere c’è un’idea simile al tenure track, con dei contratti a tempo determinato da ricercatori per un massimo di 6 anni. Ed è proprio questo uno dei motori della protesta dei ricercatori. «Da noi, fino al 1998 c’era un meccanismo di selezione nazionale, poi si è passati alla selezione locale e adesso si tornerebbe, con il decreto in discussione, a un meccanismo ibrido con una idoneità nazionale e ma un livello di selezione locale. Ma cambiare è un palliativo se non esiste un meccanismo che premia o punisce. Perché in fondo qualunque sistema è aggirabile. Il problema è che si debba rendere conto di una scelta». Dunque valutare la ricerca, come accade all’estero. «Ci sono due aneddoti su questo. Uno è che il primo esercizio di valutazione della ricerca in Italia è stato fatto solo nel 2001. E forse rimane l’unico. E il secondo è che un recente studio nei dipartimenti dell’area economica ha portato alla luce che le percentuali di professori e ricercatori che soddisferebbero i requisiti minimi indicati dal Cun per la produzione scientifica nelle loro categorie: solo il 27% degli ordinari, tra il 13% e il 19% degli associati, il 65% dei ricercatori». Certo si può obiettare che in Italia i carichi di ore della didattica rubano tempo alla ricerca: «Nei sistemi anglosassoni il carico di lezione è inversamente proporzionale alla produttività scientifica. Invece da noi vige la standardizzazione. Tutti devono insegnare lo stesso numero di ore. È un sistema troppo uniforme. E nonostante la sua eliminazione non sia sufficiente a creare differenziazione, il valore legale del titolo di studio è il cappello che legittima questa cosa. Perché se io, Stato centrale, devo garantire che il titolo di studio a Bari deve esser uguale a quello rilasciato a Milano devo essere sicuro che ci sia uguaglianza di trattamento per i professori delle due città, che siano stati selezionati con meccanismi analoghi, che abbiano lo stesso carico didattico». Dunque un’omologazione che non premia l’eccellenza. «È impedita la differenziazione, e quindi l’applicazione di un sistema competitivo di premi e sanzioni». Sono i numeri a parlare. Gli stanziamenti alla voce “eccellenza” in Italia sono di circa 35milioni di euro rispetto ai 7 miliardi destinati all’università. In Germania hanno investito molto di più, non distribuendo a pioggia i fondi, ma facendo concorrere tutte le università per cinque posti da eccellenza in ogni aerea disciplinare e attribuendoli a quelle in cima alla lista. «Sono queste le opportunità che un italiano può trovare all’estero. Attenzione, però, a non leggerlo solo come ripiego: lavorare con comunità scientifiche straniere è un banco di prova fondamentale per la formazione. Solo che a un mio studente che fa bene in Inghilterra, poi, quando torna, io ho poche possibilità di offrire qualcosa».