Alcune donne seguite da Avsi in Rwanda (©Ponzone).

RWANDA «Sono sedici anni che vi cerco, per dirvi grazie»

Un neurologo e psichiatra dell’associazione Resilience, partner di Avsi, racconta l'incontro con una delle bambine aiutate alla fine del genocidio. Da allora, non l'aveva mai più rivista. Finché, una mattina, non ferma una moto per strada...
Giovanni Galli

Rwanda. Monastero benedettino di Butare. Mi trovo qui insieme a Lorette, Elavanie, Domitille, che fanno parte dell’equipe di Avsi. Abbiamo il compito di valutare alcuni insegnanti ed assistenti sociali rwandesi, scelti per formare altri insegnanti ed adolescenti sul valore della vita, per la prevenzione dell’Aids. Verso sera, ricevo una telefonata da Narcise, autista di Avsi a Kigali. Mi racconta quello che gli è appena successo, mentre percorreva in motocicletta una strada del quartiere Kicukiro.
All’improvviso, in lontananza, una ragazza inizia a sbracciarsi per fermarlo. Lui pensa sia successo qualcosa, perché la vede corrergli incontro zoppicando. Arriva davanti a lui trafelata. «Mi chiamo Solange. Meno male che si è fermato, sono felicissima. Ho visto il logo sulla sua moto: finalmente trovo qualcuno dell’associazione». Era da tanto tempo che lei cercava di risalire ad Avsi. «Volevo ringraziarvi per tutto quello che avete fatto per me, nel 1994». Alla fine del genocidio. Solange faceva parte di un gruppo di trenta ragazzi e bambini di Gatagara, una località vicino a Nyanza, dove c’era un centro dei Frères de la Charité per ragazzi disabili.
Solange e gli altri erano stati portati lì dalle autorità militari, nel luglio del ’94. Erano tutti senza una gamba o un braccio, o senza nessuno degli arti: se li erano visti tagliare con il macete durante il genocidio. Nell’agosto di quell’anno, anche Avsi aveva iniziato a dare assistenza medica nel centro. E Solange cercava da tempo i volti che l’avevano accompagnata: Giovanni, Annette, Luci, Honoré. «Li voglio vedere e ringraziare per tutto l’aiuto che ho ricevuto», ha ripetuto a Narcise. Così, appena sono rientrato da Butare a Kigali, l’ho cercata.
Fin dal primo mese dopo il genocidio, con quei trenta ragazzi avevamo fatto diversi incontri di gruppo per superare il trauma delle amputazioni. Conservo ancora i quaderni con i loro disegni, le loro poesie e canzoni. Ma dal 1995 non avevo più avuto loro notizie: erano stati presi tutti in carico da organizzazioni che potessero dar loro le protesi. Come quella che Solange ha al posto della gamba sinistra. La incontro davanti alla sede del Comune nel quartiere di Kigali. La vedo scendere dal sentiero in terra battuta: nel salutarmi le trema la voce. Era una bambina di dodici anni, oggi ne ha ventotto. Dopo averle amputato la gamba con il macete, l’hanno abbandonata per terra credendola morta. Ora mi porta a casa sua, dove vive con il fratello e la sorella. Offrendomi da bere, mi ringrazia di tutto l’aiuto morale e psicologico di quei mesi: «È stato più utile della protesi. Con il dolore nell’anima non avrei nemmeno voluto la protesi». Mi ricorda gli incontri di gruppo e di come li caricavamo tutti nel Land Cruiser per portarli al dormitorio o a fare un giro il sabato e la domenica, al di fuori di Gatagara. «Ci avete trasmesso l’esperienza che la vita non è definita da quello che manca, ma da quello che siamo e che possiamo ancora realizzare, nonostante il limite del dramma».
Allora, Solange e gli altri bambini camminavano con le poche stampelle che c’erano. Oppure strisciavano per terra. Perché non c’erano carrozzine. Poi per lei è iniziato il percorso riabilitativo, gli interventi chirurgici, la stabilizzazione della protesi. Fino alla laurea in Scienze sociali. Ancora oggi vede Thomas e Veneranda, due dei ragazzini che erano con lei: vivono anche loro a Kigali, dove si sono costruiti una vita e una famiglia.
La saluto, e me ne vado. Con la certezza che anche un solo briciolo di attenzione alla vita dell’uomo come dono prezioso di Dio può dare molto frutto. E occorre guardare chi ci sta di fronte per l’incontro unico ed irripetibile che è: ciascuno è nato per essere amato e amare.

Questa è una canzone scritta da Veneranda, l’11 ottobre del 1994. A quindici anni:
Canzone sulla pace
Che cosa ti rende inquieto?
Sono le difficoltà che ti circondano?
Anche quando tutti i nemici ti attaccheranno,
fai sempre il bene per Dio che è con te.
Non essere inquieto, non pensare troppo al domani,
Dio non può dimenticare i suoi fedeli, quelli che Lui ha salvato.
Non aver paura del Re della pace
Egli conosce tutte le tue sofferenze
Egli inclina la Sua testa verso di te, Egli ti ama e ti proteggerà da tutto il male.