Il "laboratorio di cioccolato" alla Piazza dei Mestieri.

Un modo rivoluzionario di fare scuola

A Milano, la presentazione del rapporto della Fondazione Sussidiarietà su "Istruzione e formazione professionale". Tra le imprese educative in esame, la Piazza dei Mestieri di Torino. Dove, tra studio e lavoro, «vedi i ragazzi cambiare faccia»
Paolo Perego

È l’ultimo degli appuntamenti del ciclo sui 150 anni dell’Unità d’Italia: «Un crocevia diverso», titola la serie, ospitata dal Centro congressi della Fondazione Cariplo. Così il Centro Culturale di Milano sceglie di dedicare la serata di martedì 19 aprile a un tema diverso, nuovo, rispetto ai tanti toccati nelle celebrazioni per l’anniversario del Bel Paese: la sussidiarietà. Ovvero, «un rivoluzionario modo di crescere». Protagonista, il Rapporto 2010 appena pubblicato dalla Fondazione per la Sussidiarietà su Istruzione e formazione professionale (Mondadori Università), accompagnato al tavolo dei relatori da Mariella Enoc, vicepresidente Fondazione Cariplo, Raffaele Bonanni, segretario nazionale della Cisl, Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione Sussidiarietà e Alessandro Mele, direttore generale di Cometa, un’opera educativa attiva nel Comasco.
Di fronte all’emergenza educativa che dilaga sempre di più in Italia, la Fondazione per la Sussidiarietà ha messo in piedi una ricerca nell’ambito dell’istruzione e della formazione, evidenziando come oggi, pur con «un processo di riforma ancora in corso, ci si trova ad affrontare in prima linea il fenomeno del disagio giovanile» e la conseguente dispersione scolastica, come recita il Rapporto: «A fronte dell’urgenza di tale domanda sono fiorite recentemente in modo sussidiario esperienze di istruzione innovative che pongono l’educazione dell’umano al centro della proposta agli studenti». Così i ricercatori della Fondazione e del Ceris-CNR, sono andati a studiare proprio l’impatto di opere educative nate in questi contesti, verificando come «l’adozione di un’impostazione sussidiaria nell’istruzione professionale influisca sul successo formativo, sull’inserimento lavorativo e sull’inclusione sociale dei giovani diplomati e qualificati».
Tra le “imprese educative” analizzate c’è anche la Piazza dei Mestieri, di Torino. Un’opera nata nel capoluogo piemontese nel 2003, con la preoccupazione di favorire la preparazione e l’avviamento dei giovani al lavoro. «Settemila metri quadri, per 550 ragazzi tra i 14 e i 20 anni, di cui il 70%, quest’anno, proveniente da famiglie con redditi al di sotto della soglia di povertà, 11mila euro annui»: con poche cifre Dario Odifreddi, presidente, sintetizza la Piazza. «Da dove sia nata una cosa così è un punto comune a tante altre realtà, che poi, per contesti e circostanze, operano in maniera diversa. Ma il cuore di tutte è lo stesso: ci si accorge di un bisogno e si inizia, come si può, a rispondere». Molti dei ragazzi, come detto, vengono da situazioni difficili. «Molti sono “dispersi” scolasticamente parlando. Ecco, qui riscoprono l’apprendimento attraverso il lavoro. Per esempio, iniziano a studiare le lingue perché i clienti del ristorante, se fanno i camerieri, sono stranieri. Oppure se sono cuochi devono fare i conti con dosi e chimica. E così imparano anche meglio, quello che studiano ha un senso». Studio e apprendistato, dunque. «Non solo. Lavoro. Abbiamo unito all’attività educativa anche quella produttiva. I nostri ragazzi uscivano molto preparati, ma poi, per indole o altro, non riuscivano a tenere il posto. Così abbiamo aperto la pasticceria, un ristorante, e altro... Produciamo, e i prodotti sono venduti spesso come eccellenze. I ragazzi sono assunti, ed è ancora più educativo del lavoro “scolastico”: li obbliga a essere precisi, puntuali... Professionali». Dopo questo, l’inserimento all’esterno diventa ancora più semplice, grazie anche a una rete di rapporti con imprese, piccole o grandi che siano, che stimano e sostengono la scuola. Ma qual è il punto di “attacco” di una proposta educativa come questa? Cosa si propone realmente al ragazzo che si iscrive? «Direi due punti: bellezza e riscoperta del valore di sé. Che poi sono legati, a ben vedere. Sono i due cardini di quello che facciamo. La proposta non si limita a far imparare un lavoro, ma a far scoprire che “tutto è per me”. Per questo nascono iniziative culturali, artistiche, concerti, concorsi di poesia... Settanta in cartello quest’anno. Stare davanti alla bellezza, desiderarla, li fa scoprire di valere. Quando arrivano, li vedi: magari in gruppo fanno anche i bulli, ma hanno l’idea di non valere nulla, di non avere futuro. Gli hanno detto che il loro futuro sarà da precari, che non vedranno mai realizzati i desideri che hanno, che certe cose non sono per loro... E invece poi li vedi cambiare faccia. Perché si accorgono che facendo così gli vuoi bene, come un padre coi figli».
E poi imparano un lavoro, manuale. Uno di quelli che difficilmente a quindici anni hai riposto nella bacheca delle ambizioni, tra manager, calciatore... «E “velina”, che c’è ancora. Solo che poi scoprono che mettere le mani in pasta - letteralmente, nel caso - con la realtà per fare il pane, manipolare per costruire... “Voglio che il mio pane sia il più buono del mondo”. Capisci cosa arrivano a dire? E questo perché imparano una passione». Insegnare ad appassionarsi alla realtà, quindi. Prima di tutto. «Sì, e non è una cosa che nasce a tavolino. Non puoi pensare di decidere di farlo. È chi forma che deve essere così, appassionato, con questo sguardo sulle cose. Per questo è difficile che esistano realtà analoghe che non nascano “dal basso”, che non siano sussidiarie appunto. Anche chi viene da altri posti e ci vede... “Venite a farlo anche da noi”, ci dice. Ma come si fa? Tutto nasce dalle circostanze, dal contesto. “Inizia a muoverti, tu”, gli rispondo. Una realtà come la nostra non potrebbe esistere in Campania, per esempio: non ci sono le leggi regionali che ne permetterebbero la sopravvivenza e il riconoscimento giuridico. Ma sarà possibile fare altro...». In questo il ruolo delle istituzioni è fondamentale. «Non solo delle istituzioni, che devono guardare come esempi positivi queste realtà e sostenerle con ogni mezzo. Ma anche il tessuto sociale in cui si inseriscono. Per noi sono le imprese, il Comune, la gente che partecipa delle attività culturali che facciamo e che hanno reso questo posto “un luogo” per la città». La Torino dei salesiani, del Cottolengo: «Forse ce l’abbiamo dentro, questo carisma per il lavoro: il primo contratto di apprendistato in Italia lo fece don Bosco nel 1859. Ma il carisma non basterebbe se non ci fosse una realtà che continuamente ci educa alla passione per l’altro che avevano quei santi sociali. Perché non è innata, ma nasce da un incontro e da un’amicizia che continuamente la ridesta. Che per me, e per altri amici con cui abbiamo iniziato, è il movimento di Cl».