Alcuni manifestanti favorevoli alla secessione.

SUDAN «Dentro le urne, lo spettro di una guerra»

In una settimana di elezioni il Sud deciderà per la secessione. Ma nel Nord l'esercito si sta già schierando, facendo i primi morti. Un testimone oculare ci racconta di un popolo «di uomini desiderosi di tutto. Proprio come noi»
Niccolò De Carolis

«È difficile che passi l’indipendenza del Sud e non scoppi la guerra. Servirebbe un miracolo…». Luca Somenzi lavora per Avsi in Sud Sudan solamente da un anno, ma inizia a conoscere bene quel popolo con cui fatica e costruisce tutti i giorni. Luca ha passato le vacanze natalizie in Italia, per smaltire la malaria, e ora è in attesa di ripartire per l’Africa. «Ma, per ora, seguirò le vicende del Paese dall’Uganda». Agli stranieri, infatti, il governo ha sconsigliato di rientrare in Sudan e quasi tutte le ong sono state chiuse. Il clima è teso: domenica scorsa è iniziato il referendum, deciso sei anni fa alla fine della guerra civile, con il quale i sud sudanesi si esprimeranno a favore o contro la secessione. «Quello che accadrà dopo il voto dipende dalla possibilità che Nord e Sud trovino un accordo sulla gestione del petrolio, che è la vera causa dello scontro».
Il Sudan è spaccato in due: la parte settentrionale a etnia araba e religione musulmana, e poi il Sud, molto meno sviluppato ma con grandi risorse petrolifere, popolato dai “neri d’Africa”, di cui il 25% è cristiano (cfr. Tracce n. 1/2011). La popolazione ha tempo una settimana per andare a votare, ma il risultato è quasi certo: «È atteso un plebiscito per il sì. Per questo gli arabi sperano che non si raggiunga il quorum del 60%, tanto che nelle ultime settimane hanno tentato di comprare il maggior numero possibile di schede elettorali». Altrimenti, è probabile che usino la forza. L’esercito del Nord si sta già schierando al confine, dove domenica, primo giorno di voto, sono stati uccisi otto sud sudanesi.
«Nel rapporto con la gente, sto scoprendo che molti sono pronti a riprendere le armi e a morire per la libertà», racconta Luca. «Ma in realtà niente è in mano loro: se e quando iniziare la guerra lo deciderà chi sta ai piani alti della politica, e lo farà per ragioni puramente economiche».
Se anche il Sud otterrà l’indipendenza, le contraddizioni e i problemi non scompariranno: «Lì, lo Stato non esiste. E quel poco che c’è, non funziona. Con Avsi, cerchiamo innanzitutto di sopperire a questa assenza, con attività di base come la costruzione di strade, i servizi di igiene e la trivellazione di pozzi». Non c’è elettricità, non ci sono acquedotti, in alcune zone le persone vivono in capanne, in uno stato tribale. La regione, durante la colonizzazione, è stata una delle più sfruttate per la tratta degli schiavi. Nessuno ha mai voluto investire veramente su questo popolo e i pochi segni di civiltà, come chiese e scuole, arrivano dalla presenza dei missionari comboniani.
«La gente di qui ha una mentalità lontana duemila anni dalla nostra», conclude Luca: «Per loro, per esempio, è inconcepibile che io abbia solo una moglie o che lavori anche se sono un uomo. Infatti, venire qui pensando di “cambiarli” è da pazzi. In questi mesi, ho conosciuto volontari che sono tornati a casa delusi perché il loro “discorso” non funzionava». E tu? «Sto imparando che ho davanti degli uomini. Che desiderano tutto. Come me».