La foto delle mani del cardinale Simoni al Museo di Scutari.

Quelle mani usate come calice

Nei 28 anni di prigionia don Ernest Simoni, scelto tra i nuovi cardinali, non ha mai smesso di dire la messa. Oggi è il simbolo della sofferenza della Chiesa albanese. A Scutari un museo ne racconta la storia. Intervista alla curatrice Francesca Radaelli
Luca Fiore

C’è una fotografia nel Museo diocesano di Scutari inaugurato alcuni mesi fa. Ritrae due mani bagnate di vino. Sono le mani di don Ernest Simoni, il superstite dei campi di prigionia albanesi che domani, 19 novembre, papa Francesco creerà cardinale. Quelle mani erano diventate il calice per dire la messa tutti i giorni. Simoni è il simbolo della Chiesa albanese che è sopravvissuta a uno dei regimi più feroci della storia del comunismo. Lo scorso 5 novembre si è celebrata nella cattedrale della città, la beatificazione di 38 martiri torturati e uccisi negli anni Quaranta. Addossato alla chiesa, appunto, il giovane museo. Poche stanze, ma centinaia di oggetti e fotografie. «La testimonianza di una fede semplice e coraggiosa», spiega Francesca Radaelli, curatrice della collezione, che ha lavorato in team con Ester Yembi Pagnoni, Anna Camisasca, Erica Koumbang o’mbai Pagnoni e padre Luigi Aluisi.

Come nasce questo museo?
L’arcivescovo di Scutari, monsignor Angelo Massafra, desiderava raccogliere e conservare il patrimonio di oggetti sacri e documenti, salvato a rischio della vita dai fedeli e dai sacerdoti albanesi, durante il regime comunista di Enver Hoxha. Dal 1944 al 1985 anche solo possedere un’immaginetta sacra, quelle che si tengono nel portafoglio, significava rischiare il carcere. In questo il regime albanese è stato crudo e sistematico. L’Albania è l’unica nazione che nella Costituzione dichiarava di essere un Paese ateo. Il museo raccoglie la memoria dei luoghi distrutti durante il comunismo e tutto questo patrimonio, in parte raccolto dall’Arcivescovo nei suoi viaggi. Si tratta di un suo grande lavoro di ricerca, ma sono stati anche i fedeli a donargli ciò che avevano conservato. Questo moto spontaneo è continuato fino al giorno dell’inaugurazione, quando monsignor Massafra mi ha chiamato per avvisarmi che aveva ricevuto in dono nuovi oggetti, e continua oggi.

Qual è stato il primo oggetto ritrovato?
È un busto ligneo di un Crocifisso senza braccia, scoperto nel 1994. È uno dei pezzi artisticamente più belli della collezione. Probabilmente risale al Seicento. Il museo raccoglie oggetti di natura diversissima, soprattutto legati al culto. Ma molti sono anche i documenti e le fotografie che testimoniano chiese antiche ora distrutte o momenti particolari della storia albanese. Ogni oggetto documenta una vicenda personale o una situazione, che mostra la fede di questo popolo. Una fede semplice e tenace.

Perché tenace?
Quello che impressiona è l’attaccamento di questa gente ai Sacramenti, all’Eucarestia e al Battesimo in modo particolare. Tantissimi sono gli oggetti liturgici, come i calici e le pissidi salvati dai parroci o affidati ai fedeli che a rischio della vita li hanno nascosti nei muri delle case o sotterrati. Al tema del “nascondimento” abbiamo dedicato un’intera sezione. Uno dei pezzi più commoventi è un set da adorazione eucaristica, contenuto in una valigetta ritrovata durante la ristrutturazione di una casa nel 2014. C’è l’ostensorio alto 15 centimetri, i candelabri, i busti dei santi, la patena, il calice. Tutto fatto di piombo.

Altri esempi?
Le corone del Rosario costruite con noccioli di oliva o fil di ferro. Le immaginette dei santi piegate su se stesse fino a diventare quadratini minuscoli da infilare negli interstizi dei muri; ne abbiamo riempito una parete intera del museo. Una tazzina da caffè di porcellana bianca o un bicchierino di vetro che servivano da calice per le messe clandestine. E poi la memoria dei luoghi.

Cioè?
Nell'Albania del Nord non esistono più chiese antiche. Tutto è stato distrutto dal regime. La Cattedrale fu trasformata in Palazzetto dello Sport. Nel percorso del museo, ad esempio, presentiamo il racconto di una donna che, quando aveva quattro o cinque anni, veniva spesso portata dalla nonna a fare una gita. Dieci minuti di autobus e poi una sosta in un punto dove non c’era nulla. Solo sassi e sterpaglie. La nonna attaccava a dire il Rosario. Dall’altra parte della strada c’era il luogo dove sorgeva il Santuario della Madonna del Buon Consiglio, o Nostra Signora di Scutari. L’altro tema interessante è quello delle campane. Ne esponiamo di piccole e di molto grandi. A me ha colpito che le persone ricordino, del periodo comunista, anche il silenzio desolante delle campane. Il loro suono chiama il popolo dei fedeli, ma sono una voce per tutti. Una donna racconta di aver pianto vedendo una di queste campane tornare nel suo paese.

C’è anche qualcosa sul cardinale Ernest Simoni?
Sì, lui è stato l’unico sacerdote sopravvissuto alla persecuzione. Ha continuato a celebrare la messa tutti i giorni, ha confessato, ha battezzato ovunque la persecuzione del regime lo abbia portato. Ha fatto 11mila e 700 giorni di prigionia: 28 anni. Prima nelle carceri di Scutari, poi in una miniera ai lavori forzati. Dopo quindici ore di lavoro a spaccar pietre con una mazza da 20 chili, diceva la messa di nascosto. La recitava a memoria, in latino, consacrando con quello che aveva. A volte riusciva a cuocere le ostie nei fornelli della miniera. A volte, per il vino, spremeva chicchi d’uva. Io l’ho conosciuto quando abbiamo fotografato le sue mani che, spesso, era costretto ad usare come calice.

Che impressione ha avuto incontrandolo?
A chiunque gli chieda come ha fatto a resistere, risponde che lui non ha fatto niente e che è tutto merito di Dio. Gliel’ho chiesto anche io e lui, nonostante fosse l’ennesima volta che dava quella risposta, mi ha parlato con una semplicità e una pace che saranno difficili da dimenticare.