World Trade Center, Città del Messico.

Una strada per il Messico

La presentazione di "Luigi Giussani. Su vida" nella capitale. Per l'autore del libro, Alberto Savorana: «Un incontro genera libertà: il cammino da percorrere è una comunione, non una rivoluzione». Ecco l'intervista dalla rivista "Reforma"
Víctor Vorrath

Alberto Savorana ha presentato a Città del Messico la biografia Luigi Giussani. Su vida, di cui è autore. Insieme con lui, sono intervenuti lo scrittore Sergio González Rodríguez e il filosofo Guillermo Hurtado. L’evento ha avuto luogo venerdì 16 settembre negli spazi del World Trade Center. Pubblichiamo qui di seguito l’intervista realizzata per la rivista Reforma.

Che cosa l’ha maggiormente colpita, in Messico?
Per quello che sono riuscito a vedere, la situazione è simile a quella che stiamo vivendo in Europa, con problematiche che toccano le persone concrete, il lavoro, la vita quotidiana. E mi pare che anche qui vi siano persone alla ricerca di un cammino, in un momento di crisi che colpisce a tutti i livelli della vita privata e pubblica. Mi sembra quindi che tutti dobbiamo sentirci in qualche modo obbligati a interrogarci sui problemi di fondo, che hanno a che fare con la possibilità di una vita pacifica, di convivenza, di dialogo e di incontro, di lavoro per un bene comune che si può realizzare soltanto insieme. Se ci si trincera nelle proprie posizioni, i problemi non fanno altro che aumentare.

Lei è venuto qui per presentare la biografia di Luigi Giussani, fondatore del movimento cattolico Comunione e Liberazione, che nei paesi dell’America Latina è ampiamente apprezzato. Comunione e Liberazione: il nome sembra contraddittorio, no? Spesso, quando si parla di religione, si pensa alla sottomissione, non alla liberazione. Pensiamo ad esempio allo Stato Islamico e al libro di Michel Houellebecq. CL come concilia questi termini?
Il cristianesimo non è inteso come sottomissione della persona. Al contrario, nasce come liberazione della persona, prima di tutto dal peccato e dal male, di cui un uomo non riesce a liberarsi con le proprie forze. È questa la storia che si racconta nei vangeli: Gesù veniva accolto dal popolo, dalle persone, come il liberatore. Non il liberatore politico o il combattente, ma colui che poteva liberare l’uomo dal male fisico e dal male morale, e dare una speranza. Il problema è che per molto tempo il cristianesimo è stato identificato con l’immagine di una religione che in qualche modo ha paura di questa libertà; e tuttavia è nato come una profonda stima della libertà dell’uomo, perché senza libertà non è possibile accettare Cristo: di fatto sarebbe un’imposizione, un’oppressione. E così è sicuro che in Italia, quando il nome fu coniato, immediatamente dopo il 1968, l’anno della grande rivoluzione giovanile della società, fu una grande sorpresa, perché sembravano termini contraddittori, Comunione e Liberazione, ma in realtà sono profondamente unitari. Quando nel ’68 nasce il movimento, i giovani che ai suoi inizi stavano con don Giussani dicevano ai loro amici universitari, che occupavano le università: anche noi, come voi, vogliamo la liberazione, vogliamo qualcosa di bello, vogliamo liberare le persone dall’oppressione, dall’ingiustizia sociale, ma noi sappiamo che può ottenere questa liberazione non una rivoluzione violenta, non la forza dell’uomo, ma una comunione, ossia l’incontro, tutte insieme, delle persone che riconoscono come la loro liberazione non sia frutto delle mani dell’uomo, ma un dono che Dio ha fatto attraverso Gesù Cristo. Noi riconosciamo tutto il desiderio di liberazione che c’è in ogni uomo, ma sappiamo che sarebbe ingenuo credere che possiamo realizzare questa liberazione; nella storia abbiamo visto che quando l’uomo ha pensato di realizzare questa liberazione, in generale ha prodotto violenza, ha peggiorato le cose. Forse esiste un’altra via, questo è il motivo per cui il movimento rinacque nel ’68 e prese questo nome; può sembrare contraddittorio, ma solo se si ha una visione ridotta del cristianesimo e della religione. A tale proposito il Concilio Vaticano II ha fatto un grande passo avanti nella coscienza della Chiesa quando ha affermato che non esiste comunicazione della verità che non passi attraverso la libertà dell’uomo; l’adesione al cristianesimo può essere soltanto e unicamente libera, perché questo è il metodo che Dio ha scelto, da quando nel deserto chiamò un uomo che si chiamava Abramo, facendogli una promessa e lasciandolo libero di accettare.

Perché la figura di Luigi Giussani può essere importante per il Messico?
A questa domanda dovrebbe rispondere un messicano. Io posso dire che a mio parere don Giussani può dare un contributo alla situazione dell’uomo di oggi, perché per lui era chiarissimo che se l’uomo non prende sul serio le sue domande fondamentali, di verità, di bellezza, di giustizia, di bontà, di umanità, di felicità, difficilmente il suo cammino potrà essere serio, positivo, nella realtà e nella società. Grazie a questa condizione, l’uomo che cerca con serietà può intercettare, tra le molte proposte che oggi si offrono nel mondo, il cristianesimo come una possibilità che tutte queste domande trovino un cammino positivo per la propria crescita, per vivere responsabilmente nella famiglia, nella società, nel lavoro, persino nella politica. Credo che il contributo che don Giussani può dare sia legato alla grande tradizione cattolica del Messico; credo che possa indicare un cammino, un metodo grazie al quale questa grande tradizione non rimanga soltanto un patrimonio del passato, ma che possa dire qualcosa all’uomo di oggi, che possa comunicare qualcosa, che possa mostrare quanto la fede sia connessa alle esigenze della vita, ossia che la fede è utile per affrontare i problemi della vita quotidiana, le domande della vita dell’uomo, senza aver paura di nulla. Senza dover eliminare niente per affermarsi, perché il cristiano nutre una profonda simpatia per tutto quello che c’è di umano. Certamente riconosce i limiti, riconosce le contraddizioni, ma non si ferma a questa constatazione, compie un movimento positivo che lo fa andare incontro agli altri, come nel titolo dell’ultimo libro di don Julián Carrón, il sacerdote che guida CL dopo don Giussani, e che s’intitola La bellezza disarmata: il cristianesimo non ha bisogno di altro, solo del fascino e dell’attrattiva dell’esperienza cristiana per comunicare con gli uomini del nostro tempo. Questo non produce magicamente il cambiamento della società e del mondo intero, ma introduce all’interno della società un nuovo inizio, un esempio del fatto che sia possibile vivere una positività, una costruttività, guardando all’altro come a un bene, considerando lo sforzo di ognuno come un contributo al bene.

Nel tempo il numero dei fedeli cattolici è diminuito in Messico, e ciò rivela una crisi della Chiesa. Secondo lei, a che cosa si deve questo allontanamento rispetto alla fede?
Credo che questa separazione sia un rischio che corrono i cristiani lungo tutta la storia, dipende dal fatto che qualsiasi tradizione, se non diventa un’esperienza presente, è destinata a scomparire. Il cristianesimo è un avvenimento che accade ora. Se è così, tutta la ricchezza che la Chiesa ci mette dietro le spalle deve diventare una grande ipotesi da verificare oggi; verificare cioè se tutta la ricchezza della tradizione cristiana sia utile per vivere le sfide di oggi, i problemi di oggi dal punto di vista umano (perché i problemi di oggi, dal punto di vista sociale, non sono gli stessi di 50 anni fa, perciò la grande sfida è se oggi esistono persone che, prendendo sul serio l’ipotesi cristiana, cerchino di verificare se questa tradizione sia capace di suggerire modalità, forme, esempi per cui la fede possa dare un contributo alla vita di tutti). Se non accade questo, accade quel che ha detto papa Francesco, ossia che i cristiani si riducono a essere adoratori di ceneri, un museo di ceneri; il cristianesimo però non è nato per finire in un museo, ma per dare un contributo alla vita dell’uomo.

Il cristianesimo può rendere il Messico un paese migliore, un paese senza violenza? Può rendere una terra più umana quando a volte si percepisce l’altro come un problema – pensiamo alla violenza e al rifiuto dei gay? Le vittime della violenza e i gay sono il volto di Cristo che deve essere riconosciuto in questo momento?
È quello che voi, messicani, dovreste dirmi. Io posso dire che una società può diventare più umana se accetta il contributo del cristianesimo prima di tutto come uno sguardo positivo sull’altro, chiunque sia. Io sono molto impressionato dal Papa, che di fronte alla grande sfida che rappresenta il terrorismo fondamentalista, in Europa, non rinuncia alla sua convinzione, a essere sicuro che allo sguardo cristiano, allo sguardo della fede, nessuno è irrimediabilmente perso, perché nel profondo dell’uomo, anche sotto montagne di errori, si trova un desiderio di vita, di bene. E la testimonianza dei cristiani è rappresentata proprio dal guardare chiunque nello stesso modo in cui Gesù guardava tutti. Uno degli incontri più sorprendenti del vangelo è quello di Gesù con Zaccheo: chi era Zaccheo? Era il capo della mafia di Gerico, che raccoglieva i tributi per conto dei romani e rubava tanto ai romani quanto al popolo ebreo, e tuttavia Gesù vede nel gesto di salire su quell’albero, per poterlo veder passare, un desiderio di bene, e non si ferma per accusarlo, ma gli dice: «Scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Questo è un invito al suo cuore, che era vivo anche sotto tutta la corruzione e il male che commetteva; e Zaccheo corre a casa e senza che nessuno gli abbia detto nulla, senza che nessuno gli abbia fatto una predica o dato un buon consiglio, e dice: «Io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Questo è un esempio dello sguardo sulla persona, che ha un effetto infinitamente più potente di quello che potrebbe ottenere l’imposizione di una norma o una direttiva: credo che questo sia il contributo che il cristianesimo può dare in una situazione come quella del Messico, e lo dico perché tale contributo lo sta dando nel paese il cui vivo, l’Italia, e in altri paesi del mondo.

Dopo la nomina di papa Francesco, alla Chiesa è arrivato un nuovo impulso, e a molti sono state anche tirate le orecchie, compresa Comunione e Liberazione. La Chiesa è stata veramente rinnovata, oppure tutto è stato un’illusione generata dal temperamento di un argentino? Come ha preso Comunione e Liberazione il richiamo di Francesco?
Sarebbe del tutto inadeguato identificare il magistero di papa Francesco con la sua provenienza geografica. Il Papa è il Papa della Chiesa cattolica, e tutta la sua storia, il suo temperamento, la sua esperienza, sono al servizio della Chiesa universale; quello che sta facendo questo Papa, a mio avviso, è portare avanti, radicalizzato, per così dire, il programma di papa Benedetto XVI, ossia riproporre la fede nella sua natura originale, come avvenimento di salvezza per l’uomo, nella vita di tutti, a cominciare da quelle che il Papa chiama le periferie umane ed esistenziali, le periferie sociali e le periferie del cuore dell’uomo che oggi è separato da se stesso. Allora, quello del Papa è un grande tentativo di tornare a proporre la parte essenziale della fede all’interno della vita, offrendo prima di tutto la sua propria testimonianza, il suo sguardo, il suo modo di incontrare, conoscere, valorizzare e abbracciare chiunque, perché tutti sono figli di Dio e tutti sono affidati alle sue cure. Per una realtà come Comunione e Liberazione, è una pretesa fondamentale, perché il movimento è nato da don Giussani proprio per questa passione per i giovani, per questa passione per gli uomini cui voleva comunicare che aveva trovato il segreto della vita: Cristo che è capace di abbracciare, salvare, esaltare, valorizzare l’umano che c’è in ognuno di noi. Per questo siamo riconoscenti allo Spirito Santo perché ci ha dato papa Francesco, un esempio per tutti della novità che il cristianesimo oggi porta nella storia.