La cantautrice americana Jessamyn Luong.

«Perché continuare a vivere?»

Jessamyn Luong, cantautrice, racconta sul suo blog il dolore per la perdita del marito. E, in sette fermate, la riscoperta di un cammino tutto per sé. A partire da un'inaspettata «ragione» per andare avanti, vista alla Giornata di inizio a Chicago

Prima fermata: Missy’s Cafè a Pekin, Illinois, sabato, ore 8.00.

Sono seduta a un traballante tavolino al centro del locale con il mio laptop.
È la prima volta che vengo al Missy’s cafè. L’ho visto tante volte dalla strada, con la scritta in verde “Wi-Fi Hotspot” sulla vetrina. Dall’esterno fa venire in mente un quadro di Edward Hopper, solo più in stile Pekin. Dentro ha l’odore delle case degli amici d’infanzia - cibo unto e altro ancora (il fiume Illinois?) - e sembra un po’ la cucina della nonna prima che venisse rimodernata. Sono circondata da persone di ogni forma e dimensione che bevono tazze di caffè, che le cameriere adolescenti (da scuola superiore) riempiono ogni 3 minuti e mezzo, e tutti i presenti appartengono a due categorie: chi la notte precedente ha dormito e chi no.

Io appartengo a quest’ultima, dato che sono stata sveglia tutta la notte con una domanda, non interessante né originale: perché dovrei continuare a vivere?

Bevo 7 tazze di caffè con l’aggiunta di panna e mangio un French toast e mezzo, parlo al telefono con la mia profetica e pia amica Megan, le pongo la mia domanda, e lei mi dice «Chi lo sa? Magari questo weekend lo scoprirai».

Mi asciugo gli occhi grondanti con il tovagliolino, già zuppo di caffè e sciroppo, e poi giù altre lacrime, perché mi faccio pena a piangere in pubblico, e perché la giovane cameriera mi guarda strano mentre mi riempie la tazza di caffè e mi chiede, con il tono più felice che abbia mai sentito: «posso portarle qualcos’altro?». (Io penso che il mascara sia fatto di sterco di pipistrello, e che probabilmente ho sterco di pipistrello su tutta la faccia).

Porto la mia domanda con me ed esco, perché cos’altro potrei fare? So che se rimanessi la domanda si farebbe più forte e grossa, amplificata dalla solitudine, e non sarò più in grado di risollevarmi da lì sotto, e finirò col cercare di dormire perché sono così stanca, girandomi e rigirandomi su di un materasso ad aria che perde e si sgonfia completamente dopo circa due ore, oppure camminerò fino al parco, mi siederò su un’altalena e cercherò di leggere T.S. Eliot o qualcosa del genere, cosa che mi farà sentire ancora peggio.

Fortunatamente, a Chicago c’è la Giornata d’inizio di CL. Mi ha invitato uno degli italiani. Potrei andare a Chicago a fare la sciatta americana non istruita monolingua in mezzo a teologi e fisici italiani, e potrei sentirli parlare - nel modo meno lineare possibile - di «Mistero», «la nostra compagnia», «la Presenza» e «la consistenza dell’io», e un sacco di altra roba riguardo a un orizzonte, e naturalmente su come tutto e tutti siano belli.

Che è poi più o meno esattamente quello che è successo.

Beh, ho fatto la mia domanda a Dio a un certo punto lungo il percorso. Perché dovrei continuare a vivere?

Era tutta la settimana che lo chiedevo a Lui e a un paio di altre persone, incluso uno sconosciuto.
Ho provato a chiederlo in modi diversi: disperato, minaccioso, patetico. La domanda era un tentativo di rimanere aggrappati a quel po’ di felicità e di normalità che pensavo di aver trovato, un mucchio di sforzi che si riducevano al “far la cosa giusta nella mia situazione”, ma il dolore era troppo, troppo pesante per questo, per questa cosa forzata, una corda lisa, una corda rotta.

Ora faccio la domanda dal fondo del pozzo in cui sono precipitata, e in essa non c’è alcuna manipolazione; la pongo nello spirito di una pura inchiesta.

Perché dovrei continuare a vivere?

Seconda fermata: 7-Eleven store, ora non specificata.

Compro un burrito e prelevo dei contanti. In questo non c’è nulla di spirituale. La mia domanda è ancora senza risposta, per quello che mi pare. Mangio il burrito e cammino lungo la strada.

Terza fermata: Catholic Charities Building, Chicago, ore 14.30 circa.

Sto lì ad aspettare, sciatta americana solitaria in mezzo agli italiani. Con ancora lo sterco di pipistrello sulla faccia. Poi, comincia la Giornata d’Inizio.

Comincia con canti spagnoli e italiani in chiave minore, cantati da voci bellissime e accompagnati dalla chitarra acustica. Le parole sono stampate a lato della traduzione inglese, e subito l’occhio mi cade su uno dei titoli: Razón de vivir, e ho un sussulto quando vedo la traduzione.

Ragione per vivere
Per decidere se continuare a dare questo sangue alla terra, questo cuore che batte di giorno e di notte, per continuare a camminare sotto il sole in questi deserti, per riaffermare che sono vivo in mezzo a tanti morti, per decidere, per continuare, per riaffermare e rendersi conto delle cose ho bisogno solamente che tu stia qui con i tuoi occhi chiari.
Ah fuoco d’amore e guida, ragione per la quale io vivo.
Per alleggerire questo pesante fardello dei nostri giorni, questa solitudine che abbiamo tutti, isole perdute, per evitare questa sensazione di perdere tutto, per capire la via da seguire e scegliere il modo, per alleggerire, per evitare, per capire e rendersi conto delle cose ho bisogno solamente che tu stia qui con i tuoi occhi chiari.
Ah fuoco d’amore…
Per mettere insieme la bellezza e la luce senza perdere la distanza, per stare con te senza perdere l’angelo della nostalgia, per scoprire che la vita passa senza chiederci niente, e per rendersi conto che tutto è bello e non costa niente, per mettere insieme, per stare con te, per scoprire e rendersi conto delle cose ho bisogno solamente che tu stia qui con i tuoi occhi chiari.
Ah fuoco d’amore…


Adesso don Carrón comincia a parlare, da qualche parte in Italia, e qui a Chicago lo guardiamo sullo schermo, e lo ascoltiamo tramite il traduttore in inglese. Inizia introducendo le due domande che guideranno la nostra riflessione:

1) Come si fa a vivere?
2) Qual è il significato della nostra presenza nel mondo? (lui ha detto «cosa siamo a fare al mondo», qual è il nostro compito)

Ora, io sono certa che Carrón non avesse tendenze vagamente suicide come me quando ha tirato fuori queste domande, tuttavia bisogna ammettere che, messe insieme, queste domande hanno molto in comune con la mia.

Perché dovrei continuare a vivere?
Carrón incomincia ad affrontare queste domande girandoci intorno e attraversandole, come un filosofo o un poeta di ampio respiro; in CL non ci sono slogan. Non ci sono tweets alla Joel Osteen (un famoso predicatore televisivo americano, ndt). Devi aspettare con calma e pazienza, devi guadare attraverso il disorientamento fino all’altra sponda.

E sull’altra sponda c’è Maria Maddalena, che piange davanti a Gesù.
«Donna, perché piangi?» (Come si fa a vivere, chiede Carrón, quando questa è la realtà della nostra esistenza? Tombe e pianto?)
Maria dapprima non lo riconosce; pensa sia il custode. Poi, Gesù la chiama per nome: «Maria».
Si volta verso di lui e lo riconosce. «Rabbuni!» (cioè, Maestro).

Bene, sto ascoltando queste parole, e mentre nella mia mente mi volto verso Gesù mi accorgo che sono arrabbiata con Lui. Gesù potrà anche esser risorto dai morti, ma la mia vita è una tomba. I miei giorni e le mie notti sono vuoti e silenziosi, pieni di niente oltre alla mia domanda: perché dovrei continuare a vivere?

Quarta fermata: un pub irlandese, dove bevo birra con gli italiani e ascolto un tizio con una camicia di seta leggermente aperta a rivelarne peli scuri sul petto, che sfoggia un paio di baffi inquietanti e intriganti, suonare la tastiera cantando a voce altissima.

Gli italiani mi ascoltano mentre parlo di Vin (il marito pittore di origine cinese, morto da pochi mesi, ndt) e annuiscono cortesemente, anche se poi scoprirò che non han sentito una parola perché la musica era troppo alta.

Quinta fermata: Appartamento di Maria. Sera tardi.

Maria non c’è perché è un fisico. È da qualche parte a far qualcosa di importante. Non l’ho mai incontrata. Paolo, uno degli italiani, rimane per un po’ - forse ha paura per me e per i miei occhi folli - e mi parla. Beviamo dell’acqua da piccole tazze, parliamo della sua famiglia in Italia, della sua infanzia sul limitare di un bosco, e della sua vita nella comunità dei Memores. Guardiamo le foto di Maria sulle pareti, foto piene di gente, gente felice. Suore, preti, madri, padri, bambini. Tutti che sorridono.
Mi dice che, nelle mie sofferenze, sono unita alle sofferenze di Cristo sulla croce.

Guarda tutta questa gente sorridente nelle foto sul muro. Guarda tutta la gente del mondo e le loro famiglie, i loro bambini, tutte le coppie di anziani seduti ai caffè uno a fianco all’altro, che mandano messaggi ai nipoti sui loro iPhone. Tutti pieni di gente: io, vuota e sola.

Mi ritrovo a fare una domanda che mai avrei pensato di fare, perché è patetica e ancora terribilmente non originale: «perché io?»

La dico ad alta voce, benché sappia che è lamentosa e fastidiosa, e Paolo risponde con compassione, con silenzio.

Lui non lo sa. Nessuno lo sa.

Paolo se ne va, arriva l’insonnia. Lotto con la croce.
Schegge nel mio cuore, spine nella mia pelle, nel mio cranio.

Benché io non lo senta chiamarmi per nome come ha fatto con Maria, anche se non c’è uno squarcio su una nuova visione come è stato per Maria, e anche se sono colma di una disperazione senza risposta, e anche se sono un po’ arrabbiata con Gesù, e anche se ho questo strano pensiero che l’amore di Dio sia una sorta di premio di consolazione per le anime sfortunate del mondo, cosa che ugualmente mi fa un po’ arrabbiare, accetto la ruvidezza, i fori, i chiodi, le schegge. Abbraccio il legno e mi ci lascio inchiodare di nuovo.

(E so che questo legno è come l’albero che cade nelle acque di Marah, rendendo dolce l’acqua amara)

Sesta fermata: Loyola University Medical Center a Maywood, Illinois. Domenica, ore 9.30.
(Cosa diavolo sto facendo qui?)

Non so cosa mi abbia preso per farmi venire qui, nell’ospedale dove mio marito è morto. Avevo giurato che non sarei mai tornata in questo ospedale, in questa città, mai più (c’è una via Maywood a Peora, e rabbrividisco ogni volta che ci passo davanti mentre vado al lavoro). Ma eccomi qui, domenica mattina, con Paolo e Francesco, che andiamo in macchina a Maywood. Passiamo davanti al cartello di Maywood, al cimitero, alle casette, alle costruzioni varie, ai fast food che mi ricordo da quella settimana che ho passato in questa disgraziata città.

Seguiamo le indicazioni per l’ascensore est, una guardia ci chiede se abbiamo i pass. «Stiamo solo andando in cappella», gli dico, e prendiamo l’ascensore per il piano inferiore.

Poi Paolo, Francesco e io ci sediamo su una panca nella cappella, questa cappella dove ho pregato e ho seguito la messa mentre Vin era al piano di sopra in rianimazione a farsi studiare dai medici e soffrendo più dell’immaginabile.

Poi qualcosa succede in cappella, e non so come fare a parlarne.

Comincerò dicendovi quello che non è successo: non ho tirato un libro degli inni contro l’altare, non ho urlato contro le statue e le icone. Non ho inciso graffiti sul retro delle panche. Non mi sono buttata per terra strappandomi i capelli...

Ma ho pianto tanto. E mentre piangevo, ho sentito Gesù che mi parlava.
Non vi racconterò quello che ha detto perché non sono affari vostri.
Ma quando ha detto tutto quello che aveva da dire, ho alzato gli occhi verso il fondo della cappella e ho visto una scultura di metallo di Gesù risorto. Era una scultura strana, ma ho colto il messaggio.

Il terrore era svanito.

Sono andata nel luogo della mia paura peggiore, del mio trauma peggiore, e Gesù era lì e ha tolto il dolore pungente della morte.

Mi son trovata a voler correre su e giù per la navata gridando, come facevo nei miei giorni carismatici, ma non l’ho fatto. Ho invece esultato in stile cattolico e ho detto il rosario con Paolo e Francesco.

Primo mistero glorioso: la Resurrezione.

Settima fermata: Messa a San Luca, 10.15

Cantiamo, recitiamo delle preghiere, un po’ stiamo seduti, un po’ in ginocchio, un po’ in piedi, e ascoltiamo un vecchio prete fare battute banali. E mi sento in pace, felice, come non mi capitava da molto tempo.

Epilogo: Perché dovrei continuare a vivere?

Potrei elencarvi mille ragioni; eccone alcune:
1) Per colazione ho mangiato Grape Nuts (cereali, ndt)
2) Le mie mani sanno di candeggina, e a me l’odore della candeggina piace
3) Oggi ho corretto ventisette temi

Oggi, questi sono i motivi per cui voglio vivere. La settimana scorsa erano i motivi per cui volevo morire. Oggi queste cose mi fanno fare un’esperienza di pienezza. La settimana scorsa, di vuoto.

Le cose nella mia vita - le cose che riempiono i suoi giorni e le sue notti - sono vuote o piene a seconda della mia coscienza della Presenza che dona tutte le cose buone, che ci consola nella sofferenza, che anima tutta la vita.

La risposta alla domanda è questa Presenza: non accompagnata, la mia vita è senza significato per me. In modo tangibile, ho fatto esperienza di questa Presenza nella mia compagnia con Vin; la nostra amicizia su questa terra era un segno e un dono dalla fonte dell’amore.

Perché dovrei continuare a vivere?

Anche se sono ancora molto triste, anche se sono ancora molto sola, io voglio vivere.

Perché Cristo, che parlò a Maria Maddalena fuori dalla tomba, parla a me oggi fuori da questa tomba (la mia vita) e mi dice che la morte non è tutto. La morte non è la fine.

Per il cristiano, la morte e tutte le croci che portiamo sono un preludio alla Resurrezione.



Qui l'articolo (in lingua inglese) sul blog di Jessamyn Luong