Il concerto conclusivo del decennale.

«O sei dio o sei pietra»

L'anniversario del Centro Giovanile di Almaty. Dieci anni in cui «tutto è stato utile». E, oggi, un solo bilancio: «Non siamo mai in pari». Basta leggere qui per capire perché
Lucia Beltrami

Gli anniversari sono per tutti tempo di bilanci. Si guarda da dove si è partiti, dove si è arrivati e, se si è fortunati, le entrate sono superiori (o almeno pari) alle uscite. Qui da noi, i conti non tornano mai. Non si è mai “in pari”. Perché quello che vediamo accadere è molto di più di quello che avremmo mai potuto immaginare. Ed è questo che abbiamo festeggiato nel decennale del Centro Giovanile Alfa&Omega di Almaty, in Kazakistan.
Il Centro è nato dal desiderio di alcune persone, in particolare di don Eugenio Nembrini (missionario qui dal 1995 al 2005), che potesse esistere un luogo bello e dignitoso dove ognuno, ma in particolare i giovani, potessero sentirsi accolti, valorizzati, aiutati. Una casa, per tutti. Negli anni, a riempire di vita i 1200 metri quadri del Centro sono state le iniziative di Masp, la ong locale che, grazie alla collaborazione con Avsi ed altri donatori privati e pubblici, si occupa di educazione e formazione professionale per i giovani che vivono situazioni di disagio, abbandono, povertà, o problemi con la giustizia (leggi qui).
Per festeggiare i dieci anni, dal 28 ottobre al 4 novembre, abbiamo realizzato una settimana di incontri dal titolo: “L’io, l’ideale, la realtà”. Un gesto proposto a tutta la città. Due gli appuntamenti principali: un incontro sugli affreschi de Il Buongoverno di Ambrogio Lorenzetti, tenuto da Mariella Carlotti; e una lezione della studiosa Tat’jana Kasatkina sulla figura di Dostoijevskij. Poi tanti altri momenti di festa e di incontro, tra cui una mostra, una partita di calcio tra i giovani del Centro e le guardie del Riformatorio maschile di Almaty, e un concerto di musica per pianoforte dal vivo.

Sin dal primo giorno, grazie alle parole del vescovo José Luis Mumbiela-Sierra durante la messa di apertura, è stato chiaro che in gioco non c’era appena “una celebrazione”, ma noi stessi, la vita, e per che cosa vale la pena spenderla. Con lui abbiamo ripercorso tutti i passi di questi anni, anche le fatiche, gli sbagli e le lacrime che hanno portato a far sì che veramente il Centro fosse una casa. Il Vescovo ha usato la parola: dzhadirà, la steppa fiorita. Ci ha fatto vedere come Dio, vero padre e amico, si è fatto presente e ha reso utile tutto, perché ciò che era arido fiorisse. Il terzo giorno di festa, mentre fuori si giocava a calcio, nel salone del Centro insieme a molti studenti di lingua italiana e non solo, abbiamo assistito ad una lezione speciale della Carlotti sul Duomo di Milano. Scorrevano le slides della Cattedrale, che alcuni vedevano per la prima volta rimanendone stupiti e affascinati, e ascoltavamo la storia della costruzione: a guidare l’impegno di quegli uomini era stata la consapevolezza che tutto trovava la sua fonte e il suo scopo in un ideale di bontà e di bellezza, che arrivava a plasmare anche la statua più nascosta. Ci è stato mostrato che occorre un grande orizzonte perché la fatica quotidiana costruisca qualcosa di buono e vero, per sé e per il mondo.
La sera, a cena, ci risuonavano in testa ancora le parole sentite e spinti dall’entusiasmo, per prepararci agli incontri successivi, abbiamo presentato alle nostre due ospiti alcuni fogli fitti di domande. Ma, mentre le ponevamo, la Kasatkina ci ha fermati: «Perché vi perdete in mille rivoli, in mille questioni marginali? Il cuore di tutto sta nel titolo che avete scelto per questa manifestazione. L’ho capito ancora meglio ascoltando la lezione di Mariella sulla Cattedrale... Il punto è “la pietra”. Per questo io invertirei il titolo: “L’ideale, l’io, la realtà”. In questi giorni pensateci. Anch’io lo farò». Ci ha spiazzati, letteralmente. Abbiamo iniziato a porci domande sul titolo che noi stessi avevamo scelto. Ed è con questo atteggiamento, non “da organizzatori” ma “da cercatori”, che abbiamo allestito e vissuto i due incontri successivi.

Mercoledì, presso l’Accademia kazaka delle Scienze, insieme a più di un centinaio di ospiti, guardando gli affreschi di Lorenzetti sul Buongoverno, il Malgoverno e i loro effetti, ci è stato ricordato che la vita vede «l’opposizione drammatica tra la ricerca del bene proprio - origine di ogni violenza - e la tensione al bene comune, che mentre realizza una convivenza armonica, salva l’io, conservandone le dimensioni proprie, non riconducibili a un piccolo possesso, sproporzionato al suo animo». In una società come quella di questo immenso Paese, dove, dopo settant’anni di comunismo, oggi dominano l’individualismo e la corruzione, è stata lanciata una sfida: solo la tensione al bene comune è la dimensione adeguata ad ogni tentativo umano, l’unica il cui effetto sia la generazione di un mondo più bello. È stato stupefacente vedere le reazioni dei presenti e ascoltare i loro commenti. Un’anziana signora ci diceva di essere impressionata dal «bruciarsi del tempo», come se un ponte fosse stato gettato tra i secoli e le culture per arrivare a descrivere in maniera così profonda l’uomo e la società kazaka. Lo stesso desiderio di giustizia, verità e bellezza che sentivano gli abitanti di Siena del 1300 anima il cuore vero di ogni uomo, a qualsiasi latitudine.

Riprendendo il filo di un discorso ininterrotto, nel suo incontro la Kasatkina ha raccontato l’esperienza umana dello scrittore russo, e la propria. “L’ideale, l’io e la realtà”: così ha voluto rititolare la manifestazione, perchè «l’io è quel punto dell’universo dove gli altri due fattori si incontrano. O l’ideale è opera delle mani dell’uomo, una bellezza creata a propria immagine e somiglianza come lo era per i pagani, i cui dei erano antropomorfi e il mondo destinato a implodere in se stesso; oppure, è una Bellezza che viene “da fuori” e l’uomo la incontra e la sceglie. O sei “dio” del tuo mondo o sei “pietra” di una Cattedrale. Il tuo posto nel mondo è unico e irripetibile. Lì dove sei, da quel punto dello spazio che occupi solo tu, “vedi” la realtà come nessun altro, e lì sei chiamato a plasmarla, a collaborare all’opera di un Altro». Così il mondo non è un meccanismo da sistemare o da cui proteggerti, ma una novità in cui continuamente ti imbatti.
Che le circostanze, anche le più drammatiche e dolorose, siano un’occasione positiva per la vita, uno può arrivare a sperimentarlo solo in compagnia di qualcuno che le guarda così e ti guarda così. È quello che ci hanno testimoniato alcuni protagonisti dei progetti di Masp, nell’incontro di venerdì: gente colpita, cambiata, che ha voluto raccontare di sé, ringraziare, testimoniare ciò che è accaduto e accade nella loro vita. Una grande festa di popolo che è continuata sabato, con canti, balli e giochi e che è culminata domenica con un concerto di musica classica, con brani di Mozart, Beethoven e Chopin.

Ma che cosa ha visto ognuno di noi, in quei giorni, da quell’angolo di visuale che è solo “suo”? In me, che cosa è accaduto? All’incontro di presentazione del lavoro di Masp, è intervenuto per primo un signore che ha raccontato di come in famiglia sono stati aiutati nell’educazione dei nipoti, dopo la morte della figlia. Vedendo i nipoti felici e desiderosi di cose belle (come la più piccola, che ha voluto prendere lezioni di violino e poi si è esibita quella sera) ha voluto conoscere il Centro e ci è rimasto lui, per sé, arrivando a dire che in Silvia (responsabile di Masp; ndr) vede «una madre per tutti noi». Dopo di lui, ha parlato un altro, e poi un altro... Ad un certo punto mi sono scoperta a guardare quello che stava accadendo con il sorriso di Sara, la moglie di Abramo, come a dire: «Non è possibile, qui si sta un po’ esagerando! Cerchiamo di essere ragionevoli». Con tremore mi sono scoperta a pensare a chissà quante volte, di fronte a Cristo, i suoi contemporanei Lo hanno apostrofato dicendo: «È un esagerato». Io in quel momento ero come loro, cercando di riportare a “termini normali e conosciuti” l’eccezionale di fronte a me. Mi sono accorta che il mio “meccanismo” è più gestibile, mentre la Bellezza che viene “da fuori” è sempre “esagerata”, così “non mia” da rompere gli schemi: irrompe l’Infinito nel finito che pensavo di conoscere. Da quel giorno, prego in modo diverso: chiedo una cosa sola, un cuore povero e docile che non frapponga nulla tra sé e il Mistero che opera; un cuore disposto a cedere alla conoscenza vera e nuova che la sua Presenza prepara per me dentro tutte le circostanze.

Sono passati i giorni, la festa per il decennale è alle nostre spalle, ed io sono a lezione di italiano-bussiness. Parlo con una decina di studenti di lavoro, delle motivazioni per scegliere la professione: stipendio, opportunità di carriera, rapporti con i colleghi... Ad un certo punto, interviene una studentessa, Assia: «Lavoro come modellista in un atelier. L’altro giorno, con una collega, ero alle prese con un vestito molto complicato. Ad un tratto, lei alza la testa e sbuffa, inizia a lamentarsi, chiedendosi il perché di tutta quella fatica. Io la guardo e le dico quello a cui ultimamente penso quando taglio e cucio: “O il mio lavoro serve qualcosa di grande, è un pezzo di Cattedrale che si innalza, oppure non è niente”». Rimango folgorata. Lei era fra i tanti presenti alla festa. Capisco quello che Mariella ci diceva l’ultima sera, salutandoci: «Stando con voi in questi giorni, ho capito che il movimento non è nei numeri, non sta in quanti vengono a Scuola di comunità, ma è più simile ad un sasso gettato nell’acqua che crea cerchi su cerchi. È il movimento di cuori cambiati che trascina con sé altri cuori».