La lunga marcia della maturità

Pagina Uno
Luigi Giussani

Appunti da una conversazione di Luigi Giussani alla “Scuola quadri” di Comunione e Liberazione. Milano, 27 febbraio 1972. Una sintesi non firmata fu pubblicata su Litterae Communionis n. 17 del giugno 1972 (pp. 3-9)


1. Che cosa cerchiamo
Il momento della storia del movimento che oggi ci tocca guardare in faccia è quello in cui l’esperienza del movimento ha subìto lo scossone più grosso: il ’68.
Forse non è inutile ricordarci che, nella vita di chi Egli chiama, Dio non permette che accada qualche cosa, se non per la maturità, se non per una maturazione di coloro che Egli ha chiamati. Questo vale innanzitutto per la vita della persona, ma ultimamente e più profondamente per la vita della sua Chiesa, perciò, analogamente, per la vita di ogni comunità, si chiami essa famiglia o comunità ecclesiale, in senso più lato. Dio non permette mai che accada qualche cosa, se non per una nostra maturità, per una nostra maturazione. Anzi, è proprio dalla capacità che ognuno di noi e che ogni realtà ecclesiale ha (famiglia, comunità, parrocchia, Chiesa in genere) di valorizzare come strada maturante ciò che appare come obiezione, persecuzione, o comunque come difficoltà, è dalla capacità di rendere strumento e momento di maturazione questo, che si dimostra la verità della fede. Non per nulla il Signore dice, quando parla della fine del mondo - ma la fine del mondo è ogni risvolto della storia -, che «il male espliciterà molta suggestività, ci saranno molti pseudo-cristi e pseudo-profeti, e allora si raffredderà la carità di molti»1.
È questo, potremmo dire, il sintomo della verità, della autenticità o meno della nostra fede: se in primo piano è veramente la fede o in primo piano è un altro tipo di preoccupazione, se ci aspettiamo veramente tutto dal fatto di Cristo, oppure se dal fatto di Cristo ci aspettiamo quello che decidiamo di aspettarci, ultimamente rendendolo spunto e sostegno a nostri progetti o a nostri programmi.
La legge dello sviluppo spirituale, questa legge dinamica della vita della nostra fede cui abbiamo accennato adesso, è realmente d’estrema importanza per gli individui, come per le collettività; per le collettività, come per gli individui. Resta sempre vero che, per chi capisce Dio e vuole Dio, tutto coopera al bene; e resta sempre vero che, nella difficoltà, viene a galla il fatto se tu voglia Dio o no. È l’eterno dilemma che sta in capo a ogni pronunciamento dell’uomo, a ogni azione dell’uomo, a ogni espressione dell’uomo, è l’alternativa che denuncia l’ambiguità possibile alla radice di ogni flessione umana.
Il mondo è una grande ambiguità per lo spirito non chiaro. Lo spirito dell’uomo ha la tentazione dell’ambiguità sopra ogni altra cosa. Non per nulla Cristo parlava in parabole, «affinché vedendo possano non vedere e udendo possano non udire»2. E tutto il mondo è come una grande parabola: dimostra Dio, come una parabola dimostra il valore cui vuole richiamare, e «chi ha orecchi per intendere, intenda!»3. Di fronte alla parabola, viene a galla il pensiero segreto del cuore. Ciò che l’uomo ama viene a galla di fronte all’interrogativo, al problema, alla domanda, alla difficoltà.
Ma questa legge strutturale per la creatura, per il rapporto tra la creatura e il suo creatore (l’esistenza stessa di Dio viene percepita, afferrata, affermata solo attraverso il passaggio d’una eliminazione di questa ambiguità), vale per qualunque tipo d’esperienza autenticamente religiosa, perciò vale anche per la vita cristiana e la vita della Chiesa: di fronte all’ostacolo, viene a galla ciò che vuoi. Se vivendo la comunione, se facendo la comunità, se lavorando da mattina a sera per la comunità, tu volevi Cristo, intendevi Cristo o intendevi te stesso, lo si vede nel momento in cui la difficoltà, l’obiezione viene a galla e tenderebbe a suggerirti: «Pianta lì», o tenderebbe a suggerirti: «Che cosa mi hanno detto fino adesso? Mi hanno ingannato!», oppure: «Non mi capiscono, non mi valorizzano». È proprio e solo di fronte all’obiezione e nella prova che si vede se è oro o se è «pula»4 l’atteggiamento del nostro spirito, per dirla con un paragone di san Paolo.
Mi premeva, in capo a quello che dovremo rievocare oggi, richiamare questa norma spirituale, questo cribro spirituale inconfondibile, preciso. Del resto, è un’altra imitazione di Cristo che ci si impone, perché è attraverso la morte, attraverso la Sua agonia e la Sua morte, che s’è visto che Cristo era veramente il Figlio del Padre: «Non la mia, ma la Tua volontà sia fatta»5, o «consummatum est»6, ho obbedito fino in fondo. Ciò che noi vogliamo, dando tutto il nostro tempo, la nostra energia, il nostro cuore, la nostra preoccupazione al movimento, secondo qualunque flessione, se vogliamo Cristo o se cerchiamo noi stessi, viene a galla nella prova. Se insisto è perché, dalle funzioni segretariali o “manovali” più semplici alle funzioni più alte, è realmente questo il punto che noi dobbiamo sempre tenere presente. Se non lo teniamo presente, noi, prima di tutto, non riusciamo a essere contriti minimamente (la contrizione può avvenire solo a questo livello) e, in secondo luogo, quando avremo la difficoltà, decideremo noi se tale difficoltà è sufficiente per farci andare fuori oppure non è sufficiente, e stiamo dentro ancora. Capite? Riteniamo in mano nostra il criterio ultimo per decidere se quel che facciamo è giusto o no!

Se quello che cerchiamo è Cristo oppure è il nostro amor proprio, è l’affermazione di noi, sotto qualunque flessione, secondo qualunque versante, lo si vede, viene a galla, nel momento esatto della prova e della difficoltà: quando non ci si vede più o quando non ci dà più gusto quello che facciamo. È allora l’istante in cui il fascino mondano, e perciò la diabolicità, la menzogna, secondo la sua maschera attraente, si pone di fronte a noi e crea alternativa: «È meglio fare altro, è più giusto altro» e, come dice la canzone di Claudio Chieffo su Giuda7, sentiamo di essere stati traditi da ciò per cui ci siamo sacrificati. Mentre non ci eravamo sacrificati per quello, ma ci eravamo sacrificati per noi stessi, per l’amor proprio. Comunque, soltanto questa annotazione getta una luce che può fare leggere con esattezza ciò che è accaduto.


2. I fattori di ciò che è accaduto

Quello che adesso accenno è soltanto esemplificativo, propositivo, ed è un’analisi che potrebbe essere arricchita anche da vostri contributi. Dirò innanzitutto - secondo, del resto, il foglio che vi è arrivato - quali sono i fattori più impressionanti e più chiari che dopo anni saltano ai nostri occhi, vengono a galla, ricordando il fenomeno passato, soprattutto nella prospettiva degli sviluppi che esso ha avuto. Credo che i fattori segnalati sul foglio siano da ripetere.


a) La nascita del fenomeno contestativo a livello studentesco ha colpito noi, innanzitutto, per l’istanza fondamentale di un’autenticità d’impostazione delle cose, in senso generale, che esso sollecitava. Il primo fattore che ci ha colpito è stato l’istanza fondamentale di maggiore autenticità di vita, della vita pubblica. Insisto in questa sottolineatura: nella vita pubblica, nella vita sociale. Una tale notazione non poteva essere formulata, se non in quanto ciò che spingeva a una simile accusa e a una simile esigenza era una irrequietezza. E l’irrequietezza umana sempre è suggerita da un bisogno d’autenticità, il disagio e lo squilibrio essendo sempre generati da una menzogna che in qualche modo s’annida nell’atteggiamento vissuto. Questa urgenza di autenticità nel vivere sociale, nelle forme del vivere sociale, non poteva non essere dettata da una irrequietezza che implicava la ricerca di un’autenticità anche per la persona, d’una autenticità personale.
Io credo che l’impegno a una trasformazione globale della società - perché il volto della società sia più autentico, più umano - non sia da dimenticare: non possiamo non tenerlo continuamente presente come la sfida che Dio fa alla nostra inerzia e alla nostra pigrizia proprio attraverso il mondo. Nella storia della Chiesa è sempre stato così: proprio l’impegno mondano - che, pur faziosamente e parzialmente, sottolinea però una urgenza o un aspetto della vita - provoca la ripresa di coscienza, la crisi e la ripresa di coscienza all’interno del popolo cristiano autentico. Iddio si serve di tutto ciò che accade. Ricordate la premessa: tutto ciò che accade Iddio lo permette per la maturazione di coloro che si è scelti. E tale autenticità noi possiamo trovare, a un certo punto del nostro cammino, ai margini della strada, in coloro che non hanno avuto la grazia che abbiamo avuto noi. E questo è il modo con cui Dio ci punisce, punisce il nostro amor proprio. Ma Dio castiga coloro che ama per purificarli - dice ancora la Scrittura -: «Coloro che amo io castigo»8.


b) Secondo fattore, chiaro ed esemplare nel ricordo di ciò che è accaduto. Per ottenere quella trasformazione della società o per affermare l’autenticità al posto dell’equivoco, della menzogna, della maschera di cui si viveva, la proposta, fondamentalmente e globalmente, si poneva come necessità di eversione del passato, inimicizia col passato, ostilità al passato, negazione del passato, o perlomeno, ma è la stessa cosa, dimenticanza e disinteresse di esso. La dimenticanza del passato è sempre una ostilità al passato, perché il passato come tale urge, si propone: sarebbe uguale a zero, se non si proponesse al presente. Il passato è tale, per colui che vive nel presente, solo e proprio in quanto si propone, urge alla porta, perché è dal passato che nasciamo (per questo la dimenticanza della madre è ostilità alla madre, potenzialmente).
Questo lascia intatta la necessità di formulazioni nuove, è chiaro; ma il fattore determinante per noi il volto di quanto è successo, soprattutto visto nella prospettiva degli svolgimenti interiori, è la negazione del passato, l’ostilità al passato. L’eversione, la rivoluzione come eversione, il concetto di rivoluzione mondano non può non coincidere con la guerra al passato.
È chiaro che c’è un’ingenuità fondamentale alla radice di un simile comportamento, di un simile atteggiamento: è l’ingenuità fondamentale di Adamo, quando ha creduto che mangiando del frutto proibito potesse esaurire la conoscenza del bene e del male. Insomma, è l’ingenuità di me «misura di tutte le cose», è l’ingenuità dell’uomo che dice: «Adesso vengo io a mettere a posto le cose». È l’ingenuità dell’uomo misura di tutte le cose, è l’ingenuità dell’amor proprio. È una ingenuità, dal punto di vista tecnico. Dal punto di vista morale è il delitto, la menzogna, la diabolicità, per richiamare ancora le prime pagine della Bibbia.
Che malinconia! Che malinconia abbiamo subito provato, e come si è andata facendo più grave con il passare degli anni. Che malinconia abbiamo subito provato di fronte alla volontà di cambiamento della società. Molti almeno fra noi, coloro cioè che non condivisero immediatamente la questione, l’hanno provata. Di fronte alla prospettiva di cambiamento della società un interrogativo si stanziò nel nostro animo, perché sorpresi da una pressione e da una volontà di cambiamento all’interno di un tipo d’esperienza ignaro di quei problemi, inevoluto rispetto a quei problemi, a un livello antecedente rispetto a quei problemi, sostanziale, ma, di fronte all’urgenza della flessione culturale, ancora impacciato, ignaro (è attraverso gli incontri e gli scontri che il seme esprime tutta la sua potenzialità). Era comunque un interrogativo intimidito e incuriosito e ultimamente ancora rispettoso, così che si facevano tutte le distinzioni con premura (ché, quanto allo sforzo per cambiare, chi aveva qualche cosa da dire?). Comunque, era un grande interrogativo, una grande nebbia, in fondo rispettosa dell’avvenimento. Ma la malinconia immediatamente ci prese quando, di fronte all’urgenza di un’autenticità, abbiamo visto il tipo di rapporto, per esempio, che si proclamava, e che si rendeva ovvio, tra ragazzo e ragazza, perché questo è certamente - anche per gli etnologi, mi pare - uno dei punti tipici per valutare la moralità di una popolazione o di un’epoca. È, infatti, uno dei punti più sintomatici nella visualizzazione della statura morale, della dignità o della maturità morale di una persona o di una situazione. È del giudizio, della concezione che, naturalmente, sto parlando. Come concezione, l’autenticità perseguita generava il libertinaggio, generava un concetto di “libero amore” che non ha nulla da invidiare ai momenti più bassi e più corrotti della società borghese, comunque frutto della ostilità al passato, della reazione al passato, del «vengo io»; e perciò quello che io provo, quello che io sento, questo era l’originalità, la purità originale, l’età dell’oro dell’umanità!

3. Lo smarrimento
Tali furono - mi pare - i due fattori più impressionanti che emersero, ai nostri occhi, dalla situazione di allora. Come il movimento, nel suo aspetto allora predominante, Gioventù Studentesca e Gioventù Lavoratrice, accusò il colpo?
Vi fu uno smarrimento - l’ho accennato prima -, lo smarrimento caratteristico di chi, svolgendo un suo cammino e vivendo una sua esperienza fondamentale, viene sorpreso dagli avvenimenti che sollecitano una flessione, una traduzione, un’interpretazione e una decisione al cui livello la propria esperienza non è ancora giunta, cui la propria traiettoria, il proprio cammino, il proprio itinerario non è ancora giunto. È come se, in una città assediata, si stesse preparando la guerra, la difesa, si approntassero i valli, eccetera, e il nemico sopraggiungesse tre giorni prima del previsto. È impossibile che - salvo laddove le idee sono chiarissime in modo maturo, salvo che in generali ben fatti - in quella occasione la città non sia presa dal panico.
Vi fu uno smarrimento: questa è la parola che intende motivare benevolmente ciò che è accaduto; uno smarrimento generale. Lo smarrimento non fu caratteristica soltanto di una certa parte, ma di tutti. Insisto su questa parola, che mette una sordina benevola, insiste su una spiegazione benevola per quanto è accaduto.
Da una parte, tale smarrimento viene superato energicamente. E come? Lasciandosi prendere ed entusiasmare dall’aspetto giusto della vicenda. Da un’altra parte, lo smarrimento ristagna. Che cosa irrigidisce ulteriormente lo smarrimento? È la percezione della modalità, della flessione, del metodo sbagliato con cui l’avvenimento si pone nella sua pretesa di cambiamento delle cose. Che cosa vuole dire metodo sbagliato? Forse è troppo presto per dire così, diciamo allora un metodo non conforme a ciò cui si era stati educati, un metodo, una flessione di cose non conforme alla propria storia.
Nel primo caso, lo smarrimento viene superato di schianto per un’energia e una volontà di intervento, di operatività, di attività, di - usiamo il termine cristiano secondo l’aspetto sacrilego - “incarnazione” (è sacrilegio, per un cristiano, l’uso del mondo non secondo il mistero di Cristo). Lo smarrimento è superato di schianto come volontà di intervento, sollecitata dalla positività immanente del fenomeno, dalla proclamata volontà d’autenticità, dall’accusa di inautenticità, eccetera.
Non ci si può però staccare di schianto da tutta quanta una storia cui s’è aderito toto corde, liberamente - checché poi ne diranno e ne dicano -, una storia cui si è aderito con tutto il cuore, entusiasticamente. Non ci si può staccare di schianto. Perciò il passaggio da una matrice a un’altra matrice venne fatto, venne prodotto, per non subire l’umiliazione e lo shock grave di una sensazione di tradimento di valori riconosciuti, minimizzando e rendendo il più possibile astratto il discorso e il tipo di esperienza cui si partecipava prima: «Minimizzando - dice il foglio che vi è stato distribuito - la portata storico-sociale del Fatto cristiano». Venne operata una riduzione o una vanificazione dello spessore storico del fatto cristiano. Il passaggio dal servire un certo tipo di discorso al servire un altro tipo di discorso cercò di “trattenere” il primo per non subire lo shock di una sensazione di tradimento di valori, cercò di interpretare il primo minimizzandone la portata storica, “svanendolo”, rendendolo il più possibile vano come incidenza storica, distraendolo verso una interpretazione puramente escatologica, e perciò astratta dal mondo e dalla vita.
Forse il termine minimizzazione, che è usato nel foglio, è il più giusto: una minimizzazione della imponenza della Presenza, del peso presente del Fatto cristiano. È il tentativo di riconduzione del Fatto cristiano a liturgia, a sacramento, che di tutta la vita della comunità cristiana è certamente il fulcro, la radice (è la morte e risurrezione di Cristo, è l’anticipo della sua seconda venuta: e il sopra-naturale noi lo riconosciamo radice di tutta la nostra vita!). Ma proprio perché i sacramenti costituiscono la sorgente della vita cristiana, la sorgente del mondo rinnovato, la sorgente dell’esistenza rinnovata, proprio per questo sono i gesti umanamente, socialmente, storicamente parlando più strani, più estranei alla percezione delle cose solita, al volto dell’impegno solito. I sacramenti vennero quindi concepiti e vissuti secondo la loro essenza di richiamo escatologico, di preparazione escatologica, ma questa preparazione e questo richiamo furono totalmente svuotati del loro contenuto presente.
Questa minimizzazione del modo di concepire il Fatto cristiano porta inevitabilmente con sé un dualismo ultimo come presenza nel mondo, un dualismo in cui un fattore - il fattore esplicativo e ultimamente salvifico - è affermato in un soprannaturale incombente sul presente, ma senza incidenza sul presente, senza che possa dare giudizio sul presente storico, senza che possa ispirare una manipolazione del presente storico, senza che aiuti il presente, se non in un senso puramente moralistico di ispirazione all’azione: «Devi impegnarti». Resta una ispirazione vaga all’azione, un richiamo moralistico nel senso più vago del termine: «Devi impegnarti col mondo», e una volta detto così, ti abbandono. Dall’altra parte, ci sono la consistenza e l’imponenza delle urgenze mondane, che vengono affrontate secondo il tuo istinto, il tuo sangue, il tuo modo di vedere, il tuo modo di sentire, secondo la tua analisi, la tua teoria, e secondo la violenza della tua prassi.


4. La riduzione
del Fatto cristiano


Quali sono state le conseguenze enucleabili nell’atteggiamento assunto da questo grosso settore del movimento nell’epoca che stiamo commentando?


a) Primo, come dice il foglio: «Una concezione efficientistica dell’impegno cristiano, con accentuazioni di moralismo». Altro che accentuazioni: con riduzione intera a moralismo! Per che cosa si doveva rimanere ancora cristiani? Perché il cristianesimo ti spinge all’azione, ti spinge all’impegno, e basta! Come un padre e una madre che ti dicono: «Coraggio, guarda che tu devi fare questa cosa qui!»; e poi, in quella cosa, tu devi entrarci da solo, come se loro non ci fossero (invece: «Sarò con voi fino alla fine dei secoli»9, dice Gesù). È un concetto di incarnazione in cui il cristiano è veramente spaccato in due, fesso in due. E, dal punto di vista contingente, storico, il cristiano ha ancora diritto a rimanere nel mondo solo nella misura in cui si butta nella azione mondana: è il cristianesimo etico, cioè l’etica cristiana, il comportamento cristiano, il che cosa significa essere cristiani nel mondo identificato con l’impegno mondano. Per cui l’essere cristiani nel mondo significa interessarsi degli emarginati, dei poveri, delle sperequazioni salariali, dell’ingiustizia nel mondo del lavoro: questo è l’essere cristiani, il cristianesimo ricondotto a un moralismo efficientistico.
Mi ricordo quando quel tale, fuori dalla Cattolica, ex incaricato giessino, a me che l’avevo preso un po’ in giro disse - spesso ci si vedeva alla Cattolica, ed erano sempre delle boutades, l’uno contro l’altro, serie, ma ridendo; quella volta invece non rise -: «Guardi, mi sto chiedendo perché io devo rimanere ancora cristiano». «Eh, già - replico io -, se essere cristiano vuole dire fare quello che fai! Te l’hanno insegnato gli altri a fare così; ma loro sono più bravi di noi e perciò non capisco perché tu non debba semplicemente identificarti con loro». Adesso a noi sembra chiaro che l’essere cristiani non è fare il sit-in davanti alla Cattolica (che l’impegno cristiano possa suggerire anche quello, è un altro problema, ma il cristianesimo non è quello!), ma allora, nello smarrimento di allora, non lo era.
Quindi, innanzitutto, una concezione efficientistica. E col passare degli anni, in chi ha battuto questa strada, se è rimasto cristiano, è fisiologicamente sensibile il dualismo, la divisione. Magari fanno anche “Democrazia Cristiana di sinistra”, ma il Fatto cristiano non c’entra minimamente con quello che fanno: ricongiungendosi in ciò alla Democrazia Cristiana del dopoguerra, identificandosi proprio con lo stesso sistema mentale, con lo stesso atteggiamento spirituale.


b) Seconda conseguenza - questa è la cosa più grave -: l’incapacità a culturalizzare il discorso, a portare la propria esperienza cristiana fino al livello in cui essa diventa giudizio sistematico e critico, e quindi suggerimento di modalità d’azione. È l’esperienza cristiana bloccata nella sua potenzialità di incidenza sul mondo, perché un’esperienza incide sul mondo solo nella misura in cui raggiunge un’espressione culturale (il che non significa solo nella misura in cui raggiunge l’università: questo non c’entra!). Espressione culturale significa giudizio, capacità di giudizio sistematico e critico sul mondo, sulla mondanità, sulla contingenza storica, e quindi suggerimento d’una modalità di programma e d’azione.
L’esperienza che non arriva a questo non ha volto, non ha faccia nella storia; non ha volto, e perciò può sussistere a lungo in epoche “preistoriche”, ma nella misura in cui la società, la vita umana si ispessisce nei rapporti, pigia addosso a quell’esperienza, essa scompare, perché viene alienata nelle pressioni dell’ambiente. È esattamente il destino che hanno subìto tanti tentativi delle nostre famiglie (non le nomino più oramai): questi tentativi di raggruppamenti non sono diventati “insediamenti”. Incominciano a diventare un tentativo d’esperienza, diventano insediamento, solo nella misura in cui rispondono a una espressione culturale, a un giudizio critico e sistematico, perciò a un programma suggerito e a una modalità d’azione. E questo non può avvenire se un gruppetto vuole fare da sé, come questi gruppetti hanno sempre cercato di fare. Se un gruppetto fosse veramente capace di fare da sé, genererebbe esso stesso una trama di rapporti con tutto il movimento - che è quello che desideriamo -, influirebbe in modo positivo sul cambiamento del movimento.
La seconda conseguenza è, dunque, un’incapacità a culturalizzare il discorso e perciò, come corollario, un’incapacità al giudizio unitario sulla situazione. È soltanto l’espressione culturale sorta da un’esperienza unitaria che può rendere capaci di un giudizio unitario sulla situazione. Invece - a guisa della favola di esopica memoria dell’uva acerba e della volpe - si è passati (dico Gs e Gl di allora) a esaltare come normale la disparità degli atteggiamenti nelle situazioni, salvo poi organizzativamente, avendo in mano il potere, imporre una certa flessione. Perciò si è teoricamente esaltata la divisione, la molteplicità indefinita dei giudizi e degli atteggiamenti: «Siamo liberi, uno può essere di destra e l’altro di sinistra», ma, se uno accennava a non essere di ultrasinistra, era messo fuori combattimento, se non linciato (perché ancora non era giunto il momento); se non linciato fisicamente, linciato moralmente.
Perciò si è avuta una divisione di fronte al mondo nella sua urgenza contingente, nel suo bisogno contingente, una divisione terribile che, una volta di più, ancora di più, cancella la capacità di testimonianza del Fatto cristiano al mondo stesso. La testimonianza del Fatto cristiano al mondo sta, infatti, nella presenza al bisogno del mondo: nella presenza del Fatto cristiano al bisogno del mondo, non nella presenza dei cristiani alle manifestazioni della “bandiera rossa”.


c) Terza conseguenza: la sottovalutazione teorica e pratica dell’esperienza autorevole, dell’autorità. Guardate che non esiste azione sistematica, pensiero sistematico e azione sistematica, senza diventare discepoli di maestri! Perciò i casi sono due: o l’autorità la riconosci data, offerta, o la scegli tu; o l’autorità è grazia della tua storia, grazia di Dio dentro la tua storia, oppure scegli tu la tua autorità. I nomi dei capoccia di allora (e, almeno alcuni, di ora) erano usati allo stesso modo con cui precedentemente si usava il nome del tal prete o del tal altro per avallare quello che si faceva. Comunque, il Fatto cristiano - ripetiamocelo - ha nella funzione autorevole creata da Cristo il luogo geometrico dove si salva il Mistero, ha lì il luogo dove il riconoscimento e il rispetto del Mistero sono documentati, garantiti, testificati. Credo che poca gente come noi sia costretta a ripetere queste cose quasi con rabbia, tanto è con dolore. Peccato che non abbiamo ancora gente che sappia esprimere questo letterariamente! E non so se questo sia proprio l’ultimo aspetto della pigrizia o della negligenza o della istintività con cui ci muoviamo, e che non ci permette di individuare una gerarchia più adeguata degli impegni che, secondo i carismi che abbiamo, dovremmo assumerci.


Allora, nello smarrimento generale il primo modulo d’atteggiamento, che concretamente, storicamente, ha dominato Gs e Gl (Gl anche quantitativamente, quasi al cento per cento; Gs, invece, quantitativamente no, quantitativamente era una maggioranza, ma non una grande maggioranza; però la fisionomia di Gs, per il modo della conduzione, fu dominata da questo), è stato il superamento dell’impasse come un buttarsi a capofitto seguendo il mondo. La propria storia, i suoi contenuti di valore sono stati minimizzati, il più possibile interpretati secondo una versione astratta rispetto alla vita, come estromessi, ostracizzati dalla possibilità d’una incidenza sul contingente storico e perciò d’una vera incarnazione. È stato tolto lo spessore storico al Fatto cristiano (questa è, torno a ripetere, l’espressione migliore). Ne è risultato un dualismo in chi ci è restato, in chi voleva restarci - dico nell’ambito cristiano -: un dualismo tra un cielo incombente e una terra che se ne andava per i suoi versi e per i suoi destini. Dal punto di vista della storia della Chiesa, questo è - nel senso essenziale, nel senso proprio e puro - l’atteggiamento protestante. La teologia secolarista, che impegna così acremente l’aspetto più giovanile e più vivace del clero cattolico, e quindi dei giovani che si coagulano attorno a esso, non può essere ultimamente interpretata - non come intenzione e non secondo un giudizio quasi di attuazione coerente, ma dal punto di vista culturale -, non può essere vista e giudicata, a mio avviso, se non secondo la categoria d’un protestantesimo autentico, puro, ortodosso, diciamo, ora, barthiano.


5. L’abbandono del discorso
Sono tre, dunque, le conseguenze importanti da notare; e l’importanza delle notazioni non è dettata da un amore all’analisi storica, ma dal fatto che questa dialettica sarà sempre presente; poco o tanto questo urto, questa prova - questa prova e questa tentazione - sarà sempre presente. La prima è una concezione efficientistica dell’impegno cristiano, moralistica: davanti al bisogno del mondo, vi è l’analisi di esso, la teoria per rispondervi, e la risposta secondo questa teoria. Tutto si gioca nell’umana misura, Cristo non c’entra; c’entra a un livello al di là del tempo e dello spazio; è un’ispirazione morale, che è al di là del tempo e dello spazio, “trascendentale”. La seconda è l’incapacità a culturalizzare il discorso, perché la culturalizzazione cui ci si abbandona ha come matrice l’analisi marxista o la teoria marxista, comunque l’analisi mondana e la teoria mondana. La culturalizzazione cui ci si abbandona ha come matrice l’esperienza del mondo, non l’esperienza cristiana, e quindi la teorizzazione, l’esaltazione, l’idealizzazione della diversità dei pareri e degli approcci, esattamente come la traiettoria del Movimento Studentesco, tanto quanto praticamente, organizzativamente, viene imposta una certa “unica” direttiva. La terza è la sottovalutazione teorica e pratica dell’autorità, perché l’autorità è la funzione garante dell’autenticità dell’esperienza cristiana.
Dai contributi che mi sono stati offerti si potrebbe trarre molta documentazione al riguardo, sia dell’impeto pieno di desiderio di una autenticità reale, sia quanto al passaggio che ha tradito la propria storia. Da un certo giornale studentesco di allora, fatto da Gioventù Studentesca, possiamo leggere qualche brano.
«Anche noi avevamo iniziato l’anno scolastico tutti preoccupati di lanciare le iniziative del primo trimestre, estraniandoci di fatto dalla situazione reale della scuola, anche se timidamente si balbettava la necessità di una maggior partecipazione all’ambiente. Ma tutto questo era ancora esclusivamente finalizzato alle nostre iniziative, alla nostra proposta». Basterebbe l’analisi di questo brano per andare a fondo della questione di allora. È chiaro che un simile disagio lo sentiva chi era energico, chi era vivo, non la gattamorta. Ma, prima di tutto: vedete come era già stato abbandonato il discorso del movimento, il discorso della storia di Gs? Era stato radicalmente abbandonato Appunti di metodo cristiano. La premessa di Appunti di metodo cristiano10, che è la chiave di volta della nostra posizione, non esisteva più, non era più considerata.
«Anche noi avevamo iniziato l’anno scolastico tutti preoccupati di lanciare le iniziative del primo trimestre». E, infatti, in gente estremamente incidente e decisiva di allora, i testi non erano più Appunti di metodo cristiano o Tracce d’esperienza cristiana11 (tranne qualche brano del libretto verde12, dove si parlava di decisione, di globalità della decisione), ma erano quelli di González-Ruiz, Il cristianesimo non è un umanesimo13, eccetera. In fondo, nella prova - è un’altra versione di quello che ho detto prima, come premessa - viene a galla quello che avevamo già scelto: sempre abbiamo già scelto altro, se in un interrogativo, in una problematica, noi andiamo “per rane”.
La situazione di Gioventù Studentesca ha potuto favorire un cedimento - come l’ha favorito - esattamente perché il discorso era stato abbandonato. Può darsi che nei quadri direzionali di allora non fosse stato neanche afferrato; comunque non era più, almeno, lo strumento culturale cui ci si ispirava e di cui si usava. E, infatti, un efficientismo già notevole prima dell’occupazione del ’68 creava disagio in chi guardava le cose con una certa oggettività o con una certa coscienza del discorso che si era sempre fatto. E ancora, il fenomeno dell’espressione culturale era già in atto come tentata ricerca, da antologia, di quello che dicevano altri e non come approfondimento delle cose, attacco alle cose, dovuto a una ispirazione cavata dalla propria esperienza. Era come una città assalita e presa perché non aveva gli spalti vigilanti: erano state tolte le sentinelle, le vigilanze sugli spalti della città, era stata tolta la vigilanza del discorso.
Ma anche questo non lo si può capire, se non ci si immedesima col “perché” di questo, e il “perché”, ultimamente, è la difficoltà che il discorso cristiano, l’esperienza cristiana ha a diventare matura. Se non teniamo presente questo, oltre che scandalizzarci e giudicare in senso cattivo i nostri antichi amici, noi rischiamo gravemente di fare cilecca nel presente. L’impazienza non è l’ultima trappola, è la prima. L’esperienza cristiana - pensate - cambierà il mondo; ci vuole però, per cambiare il mondo, tutta la traiettoria della storia. È un’analogia impressionante: l’esperienza cristiana cambierà la mia vita, ma occorre la traiettoria dell’esistenza; cambierà i nostri gruppi, le nostre comunità, ma occorre tutta la traiettoria dell’esistenza di questi gruppi. È tutta la traiettoria che occorre!
L’esperienza cristiana, insomma, non appaga il gusto febbrile efficientistico dell’uomo, dell’avere subito, dell’avere, perché questa è la tentazione dei farisei, i quali dissero a Cristo: «Fa’ il miracolo come lo diciamo noi, mandaci la folgore dal cielo. Manda la folgore dal cielo, e allora noi ti crederemo»14. Stabilivano loro il miracolo come doveva essere: se Cristo accedeva alla loro misura, allora avrebbero creduto. Questo è realmente il pathos che sta sotto il dramma di allora e sotto l’incertezza, la malinconia, le stanchezze e le dubitanze di adesso.
È a questo punto che uno capisce, s’accorge di che cosa vuole dire la fede - credere, credere a Lui -, fare credito al Fatto cristiano. Perché in certi momenti veramente è come morire a se stessi, anzi è veramente morire a se stessi. Prosegue il brano: «Ci siamo accorti, per prima cosa, che non sapevamo quasi nulla e che non avevamo niente da dire». Capite l’equivoco di questa frase? È come quello che diceva prima: «Ma tutto questo era ancora esclusivamente finalizzato alle nostre iniziative e alla nostra proposta». Si sono assunti in proprio l’accusa che sentiamo farci: che noi vogliamo affermare la “nostra cosa”. Certo, noi vogliamo affermare il fatto di Cristo, noi vogliamo affermare la Chiesa, proprio perché la Chiesa è la salvezza del mondo!

«Non avevamo niente da dire»: siccome la storia passata, siccome l’impegno col cristianesimo, con la comunità cristiana non ci rende capaci di andare contro i professori con scaltrezza come i marxisti, dicevano: «Vedi? Ci hanno tradito». Nella canzone, Giuda dice: «Non fu per i trenta denari, ma per la speranza che lui, quel giorno, aveva suscitato in me»15. Ma era una speranza sulla sua misura! «Ci siamo quindi messi in contatto con persone e gruppi che avevano già fatto un’esperienza di contestazione nella scuola, per avere chiari i termini del problema attraverso la loro testimonianza e il loro lavoro». Questo è tutto. La riduzione è già in atto totalmente. La riduzione è totalmente già fatta, come si vede anche nell’editoriale del Michelaccio - del Michelaccio di allora, intendiamoci -, che riflette come unico problema la democrazia. Tutto era lentamente, tentativamente equilibrato nel concetto di democrazia, ma il problema era quello detto prima. Che differenza c’è tra il cristianesimo identificato con l’azione sociale, come nei gruppi contestatori cattolico-marxisti di adesso, e - come metodo - queste frasi, questo atteggiamento? Badate, per favore, che proprio l’aspetto più vivo delle nostre assemblee, l’aspetto più vivo dei nostri gruppi - più vivo nel senso d’energia umana -, subiva di più questa tentazione. Leggo un’ultima frase: «La questione più grossa di tutte è l’inserimento nostro nella società». È una ambiguità che domina in queste frasi, così come suonano; ma è la scelta già fatta, che sta sotto, che è contraddittoria a tutto il nostro discorso.


6. La fedeltà alla propria storia
Terzo elemento della nostra diagnosi. Nello smarrimento generale, una grossa parte di Gioventù Studentesca, pardòn, una certa parte di Gioventù Studentesca, e i nostri primi universitari, così come i nostri primi adulti (i nostri universitari e i nostri primi adulti quasi totalmente) sono rimasti come impietriti, arrestati, intimiditi e confusi dalla situazione. Ma una cosa fu immediatamente chiara, almeno a molti fra questi: la fedeltà alla propria storia doveva essere più forte e determinante rispetto alla clamorosità delle urgenze giuste e all’imponenza della effettualità pratica degli altri. Questo, per coloro che si sono - scusate questo termine - “salvati”, è stato indubbiamente il catalizzatore del loro atteggiamento fondamentale: la fedeltà alla propria storia.
La fedeltà alla propria storia aveva due fattori importanti dal punto di vista della riflessione della loro coscienza.
a) Il primo fattore è stato indicato sul foglio con la parola “Mistero”. La fedeltà alla propria storia non fu per un fideismo, né per un “fidelismo”; fu una fedeltà alla propria storia in quanto essa aveva portato allo sguardo della propria coscienza, in modo netto, la decisività della dimensione religiosa per l’esistenza e la storia dell’uomo. E la dimensione religiosa per la vita dell’uomo e della storia significa la coscienza dell’incidenza del Mistero sulla contingenza che vivo. Il Mistero incidente sulla realtà che vivo si chiama Cristo nella sua continuità storica: “Chiesa”. Questo fu chiaro subito.
b) Il secondo fattore di questa fedeltà alla storia furono la sincerità e la coerenza nella stima e nella fiducia, perciò nell’appoggio della propria persona all’autorità, la riscoperta, la scoperta nuda e cruda, dell’importanza estrema che la funzione autorevole aveva avuto nella storia vissuta. Del resto, è proprio attraverso la funzione dell’autorità che viene garantito il rispetto e l’utilizzazione del termine misterioso.
Comunque, la gente che si è salvata, si è salvata per il sentimento di fedeltà alla propria storia, in quanto aveva chiaro - esclusivamente, si può dire - l’imponenza della dimensione religiosa come incidenza sul contingente concreto, perciò la presenza del Mistero come incidente fattore sul contingente umano, e, in secondo luogo, per una riscoperta leale e chiara del credito da fare all’autorità, della funzione storica dell’autorità.
In vario modo, questa posizione, per lungo tempo, è rimasta come bloccata dentro confini di immaturità per mancanza, nella evoluzione della nostra esperienza, di quella scoperta che è stata caratterizzante questi ultimi due anni, e che è partita dalla proclamazione, al Centro Péguy, della dialettica “croce-risurrezione”. Ma il punto preciso in cui è scattato il fattore che mobilita, spaccando i confini dell’immaturità, è da due anni il richiamo all’“autocoscienza”. Allora non era ancora venuto il tempo, perciò vi fu una rigidezza dentro confini di immaturità che favorivano una fedeltà meccanica nelle forme. Perciò sono stati portati avanti per molto tempo, specialmente ai livelli educativi, un conformismo, una schematicità e una certa aridità, alle cui conseguenze indubbiamente solo ora, nel senso del 1972, possiamo forse, se vinciamo questa immaturità veramente in noi, incominciare decisamente a ovviare.
È stata proprio l’assenza di questa autocoscienza, della coscienza di quello che è accaduto a me con Cristo - che, se anche tutto il mondo, compreso tutto il clero del mondo, diventassero altro, non mi smuovo, perché è me stesso questo, è un fatto che definisce la mia carne, le mie ossa, il mio spirito, tutta la mia ontologia: è la creatura nuova -, è stata l’assenza di questa coscienza che ha fatto rimanere, sia all’università i primi anni, sia per molto tempo (compreso adesso in tanti strati) nella scuola (ma da alcuni mesi c’è, almeno da questo punto di vista, un clima cambiato), con quel complesso di inferiorità che persuase molti ad andarsene da un’altra parte e che si conficcò nelle carni anche di chi rimase fedele alla nostra storia, irrigidendone i movimenti, irrigidendone il modo di parlare, rendendo schematico, meccanico il suo offrirsi, non generando, insomma, nulla.
Queste notazioni restano, però, sommarie, perché non tutti furono così. Sentite, per esempio, in un documento di allora, fatto dai nostri universitari, che chiarezze già esplicite, sebbene non fossero ancora clima delle nostre comunità: «Punto di partenza è che la solidarietà e i gruppi già esistenti a livello universitario cessino di essere gruppi giustificati dal dover fare o dover dire qualche cosa, ma diventino ambito di conversione per ognuno, luogo di esperienza della comunione come coscienza personale». Oppure: «Anzitutto il nostro modo di conoscere è la vita nuova che ci è stata data. Non contrapponiamo una teoria che ci sembra più comprensiva, più umana, a quella del Movimento Studentesco: opponiamo una vita diversa, dalla quale noi possediamo un altro modo di conoscere [questo è già perfetto!], e questo è il fondamento della nostra conoscenza. Ma più in generale dire che la nostra esperienza quotidiana è la vita di comunione significa fare presente che c’è nel mondo un luogo sorto solo per la potenza di Dio. Il Fatto che noi siamo, mentre non si può ricondurre all’interpretazione di una teoria storica, è allo stesso tempo visibile, si può toccare, tanto da sorprendere noi per primi». Certo, si può toccare in chiesa, nel sacramento - nell’Eucarestia, per esempio -, ma è impossibile che uno non capisca come tutta la tensione dell’essere cristiano è rendere visibile, sensibile questo Fatto all’università o al lavoro.
Ancora: «La domanda che il nostro essere in università pone a categorie quali “contestazione globale”, “rivoluzione”, “lotta anti-imperialistica”, “lotta di classe”, è ben più radicale e originale: si tratta di testimoniare una dimensione di fede e una coscienza di comunione vivente, che impedisce all’orizzonte politico entro cui il Movimento Studentesco si muove di assolutizzarsi e di diventare esclusivo di ogni altra visione del mondo. L’alienazione sociale non è in grado di scalfire la gratuità di un dono che è per l’uomo la possibilità di rinascere dall’Alto». Sono frasi chiarissime, espressione di una coscienza chiarissima fin da allora, anche se - ognuno di noi lo nota - è ancora soltanto un lontanissimo albore, appena accennato in qualche frase, l’aspetto positivo di incidenza, di alternativa alla mentalità e alla teoria mondana. Non c’è ancora qui, ma questo - ecco l’importanza della cosa - è il metodo per arrivarci.
Ciò che ha salvato la continuità della nostra esperienza, pur attraverso uno smarrimento che ci ha irrigidito, anni di confusione, di complesso di inferiorità, di meccanismi perseguiti con schematismo e con conformismo ripetitivo di cose fatte negli anni antecedenti, con un attaccamento magari adolescenziale a una funzione autorevole; ciò che ha comunque permesso che dopo l’inverno ritornasse la primavera e la pianta continuasse, è stata la fedeltà alla propria storia. Gnoseologicamente, metodologicamente - dal punto di vista gnoseologico e dal punto di vista pratico - questo è tutto.
Nella nostra piccola contingenza, nel nostro effimero tentativo storico, si ripete analogicamente quello che succede per la Chiesa nella storia del mondo: è la fedeltà alla tradizione che rende la Chiesa fattore di presenza risanatrice, liberatrice del mondo. Non esiste altro: la fedeltà alla propria storia. Certo, è la fedeltà dell’uomo vivo, non della gattamorta. Questo è dato per supposto. Sarebbe un insulto, se noi ci trattassimo senza questo presupposto: è la fedeltà dell’uomo vivo, perciò dell’uomo che sente i problemi del suo tempo, che applica la sua intelligenza e che usa tutto, come il buon padre di famiglia, che trae dal suo tesoro il nuovo e il vecchio, come dice Gesù nel Vangelo16. E chi ha paura di queste cose? E chi non le sa? Ma il problema è la forma specifica, è l’autocoscienza, è la personalità, che trae tutta quanta la sua natura dal Fatto cristiano e perciò assolve il suo compito nella fedeltà alla storia, la fedeltà alla storia della nostra esperienza: questa è la formula sintetica più comprensiva della metodologia sana, sia dal punto di vista gnoseologico, dell’impostazione conoscitiva, sia dal punto di vista dell’impostazione pratica. Questo ci ha salvato.
E così, improvvisamente quasi, negli ultimi due anni (l’affare è avvenuto nel ’68: si tratta di quattro anni, quindi; ma gli antecedenti erano già gravi in Gs da almeno due o tre anni: quell’efficientismo, quell’assenza di sviluppo culturale, eccetera) c’è stato un cambiamento. Chi di noi non sente come lontane e remote queste accuse - l’accusa di non volontà di incidenza sul mondo, di non partecipazione ai problemi del mondo -, nonostante che ci sentiamo ancora smarriti, ancora per tanti versi confusi? Lo pensavo quando leggevo l’altro giorno lo schema dell’attività culturale del nostro gruppo universitario a Cagliari. Lo leggevo commosso, perché pensavo: ma quando è sorta questa cosa? È come un miracolo! È il miracolo fiorito sull’attività di questi due anni. Nella situazione precaria in cui sono, con gli aiuti ancora sporadici e frammentari che ricevono, che pertinenza, che centratura, che ricchezza di orizzonte, starei per dire: che presunzione di sfida! Dobbiamo, semplicemente, veramente continuare nella fedeltà alla nostra storia, alla nostra esperienza come matrice del nostro impegno culturale e del nostro impegno politico.
I fattori, l’humus, la linfa per la nostra presenza, il volto della nostra presenza, quindi la capacità di collaborazione che la nostra presenza dà al mondo, li troviamo solo nella memoria di noi stessi: solo! Nella misura in cui siamo memoria, perciò nella misura in cui il senso del Mistero e il senso dell’autorità sono veramente i due fattori decisivi (l’uno ideale, di concezione, di coscienza, e l’altro di metodologia pratica, concreta), nella misura in cui noi saremo questa memoria, diventeremo veramente padri di famiglia, della famiglia del mondo, che traggono dal loro tesoro il nuovo e il vecchio: non ci sfuggirà un capello del capo del mondo, non ci sfuggirà il giglio del campo, il fiorellino del campo del mondo, come non sfuggiva agli occhi di Cristo. Ma il richiamo è che dobbiamo vincere l’immaturità, questa rigidezza che ancora ci tiene dentro come in uno schema di ghiaccio. E badate che il calore che rompe il ghiaccio, l’energia che rompe il ghiaccio, il calore che lo scioglie, non è il darvi da fare, ma è la conversione secondo tutte quante le sue dimensioni.
“Comunione e Liberazione” è certamente la formula che definisce comprensivamente tutto lo sviluppo, l’ultimo punto della nostra storia: “comunione” e “liberazione”, questo deve essere veramente inteso, perché non lo è ancora. È realmente embrionale nella maggior parte di noi: non dico nei lavoratori che hanno fatto la terza elementare, ma nei professori di università. È ancora embrionale questo per noi, ha ancora risvolti moralistici o attivistici o estetici predominanti.
Il vero nostro problema è uscire dall’immaturità. Ma spero che almeno qualcheduno abbia pensato in questo momento a quello che dice la premessa del libro marrone17. Perché, lo dico tra parentesi, pensando specialmente agli “scribi” e ai “farisei” nel nostro popolo di Dio, che sono coloro a cui è più dato, vale a dire coloro a cui è dato come carisma o come possibilità di tempo, di coltivare l’indagine, l’interesse e l’espressione culturale: non so se veramente la loro matrice siano i nostri testi! Comunque, la metodologia è la fedeltà all’esperienza. Non so se qualcheduno tra noi ha ricordato in questo momento quello che dice la premessa: che il cristianesimo si diffonde nel mondo non per opera nostra, ma per grazia di Dio. Allora, uscire dall’immaturità, diventare maturi, è grazia dello Spirito in noi. Ricordiamocelo! E lo Spirito Santo è sceso là dove erano tutti riuniti nel Cenacolo, là dove erano tutti riuniti. Lo Spirito scende sopra la comunione nostra. Perciò, per esempio, l’insediamento è un esito dell’espressione culturale, ma, prima che essere esito dell’espressione culturale, almeno come tendenza, è la premessa dell’espressione culturale. Infatti la maturità in noi si esprime come tendenza profonda, come passione che la Chiesa di Dio viva visibilmente là dove siamo, perciò che si costruisca la comunione cristiana là dove siamo e dovunque siamo, affinché questa «persona nuova», questa «persona sola», come dice san Paolo18, «in cui non c’è più né uomo né donna, né greco né barbaro, né destra né sinistra», («tutti voi siete uno, una sola persona in Cristo Gesù»), faccia il bene del quartiere, dell’università, del lavoro, della parrocchia, faccia il bene del mondo. Una presenza incarnata, incarnata!

Ma la logica dell’incarnazione, cioè la logica della missione, avviene tutta in noi, perché l’incarnazione nel mondo, nel senso di interesse e aiuto ai problemi del mondo, di collaborazione reale all’urto verso l’autenticità che il mondo vive, è solo un alone di luce, è solo una conseguenza inevitabile di quei problemi, delle esigenze mondane, della carne e delle ossa, del mondo, della vita vissuta come comunità cristiana, convertita, tradotta in termini di fede. L’incarnazione non è andare a interessarsi di sindacato, di fabbrica o di università. L’incarnazione, cioè la missione, è vivere l’università, la fabbrica, eccetera, come comunione. Non è andare a interessarsi di questi o di quei problemi culturali o pratici o sociopolitici, ma è il vivere intera la nostra umanità come comunione.


Riassumendo, il mondo, in tutti i suoi terremoti, è strumento di richiamo di Dio all’autenticità e alla verità della vita per tutti, ma in particolare per il cristiano, che è come la sentinella nel campo del mondo. Autenticità, esigenza d’autenticità: questo è il valore che è stato nel cuore di allora, della “sommossa” (pensiamo alla nostra presenza nella Chiesa, per esempio: capite che noi siamo trattati da contestatori? Noi, per gli altri, fino a un certo punto, siamo parte del fenomeno del ’68: i contestatori. E, infatti, è un desiderio di autenticità che ci muove nelle parrocchie o nelle diocesi!). Ma questa autenticità fu perseguita negando il passato, come una eruzione improvvisa, come un’eruzione: il “nuovo” era inteso come eruzione senza nessi antecedenti.
In secondo luogo, di fronte a quel che accade nel mondo normalmente, noi ci troveremo un po’ smarriti, con un complesso di inferiorità, perché la nostra è una strada lunga alla maturità: la maturità completa l’avremo alla fine dell’Apocalisse. Nella storia della Chiesa, quando la Chiesa e i cristiani non ebbero questo complesso di inferiorità, quante volte vissero però l’equivoco mondano (dico dall’Umanesimo in poi)? La grazia di un san Tommaso d’Aquino è una grazia miracolosa che Dio fa nella storia non necessariamente, e perciò quando vuole. In fondo, come legge, non possiamo evitare questo smarrimento. «Il mondo riderà, e voi piangerete. Il mondo vi deriderà»19. È il concetto di persecuzione. Badate che il mondo per perseguitarci ha un ottimo spunto da noi, nella nostra vita. Il mondo prende scandalo da noi, e ha ragione dal punto di vista dello spunto meccanico. La persecuzione ha sempre un ottimo spunto dal nostro comportamento, perciò in questo smarrimento non abbiamo neanche la coscienza a posto. Non possiamo dire: «Sono puro, però ho paura»; «Sono peccatore», dobbiamo dire nello smarrimento.
In questo smarrimento, ecco lo spartiacque: chi rimane fedele alla propria storia, a ciò che si è visto («Rinnova, o Signore, la parola nella quale mi hai destato la speranza»), e chi invece, per l’impazienza della canzone di Giuda, perché la promessa non corrisponde all’urgenza come è sentita nel presente, mutua dal mondo quello che lo soddisfi e lo faccia sentire degno di vivere, mutua dal mondo il significato della sua contingenza, mutua dal mondo il significato della storia; e se trattiene l’antico, se trattiene la fede, la trattiene escatologicamente, come un punto lontano, anticipato in gesti strani (i preti in chiesa, la religione dei sacramenti). Operativamente parlando, l’energia del fatto cristiano si riduce a un: «Fa’ il bravo, interessati del mondo», a un avvertimento di impegno, a un moralismo e basta. Mentre, di fronte allo smarrimento, chi rimane fedele alla propria storia, avrà un più o meno lungo tempo di martirio, in cui capisce che bisognerebbe fare e non sa cosa fare, e perciò, da una parte, è deriso dal mondo, è calciato dal mondo, dall’altra, gli viene dal di dentro il dubbio sulla sua fede, perciò deve combattere di fronte a tutti, su tutti i fronti. È realmente la prova. Poco o tanto, sarà sempre così, a meno che ci ritiriamo come gattemorte attorno al campanile o nei gruppi di comunione, secondo l’immaturità di cui sopra.
È perciò di estrema importanza, per chi veramente ha come criterio la fedeltà alla propria esperienza e alla propria storia, l’eliminazione dell’immaturità. Tutte le difficoltà che abbiamo nel percepire unitariamente il problema di Comunione e Liberazione nelle fabbriche o in università, il proprio gruppo parrocchiale o il proprio gruppo di comunione di famiglie amiche, che altro credete che siano, se non immaturità! Perché la persona è una (l’autocoscienza) e il Fatto cristiano è uno. Non vuole dire, allora, che io scelgo la parrocchia. È Dio che sceglie per te, e se vai a lavorare, se vai all’università, è tale e quale come sotto il campanile! E quando torni a casa dal lavoro, dopo avere battagliato nei sindacati, nel lavoro sindacale, è un altro ambito e, nella misura delle energie e del tempo, anche lì devi vivere il mistero della comunione.
L’immaturità. Dall’altra parte, però, coloro che spezzano la linea della fedeltà alla tradizione e poggiano le loro speranze, come diceva il profeta, sui carri e sui cavalli, sugli egiziani, sul patto con gli egiziani (e non dicono che rompono il patto con Javhè, ma lo rompono se lo fanno con gli egiziani, e Dio glielo dice; vedi i primi capitoli di Isaia, o i capitoli 30-31), costoro sposano l’attivismo, l’efficienza immediata. C’è un criterio più mondano di questo? «Verranno pseudo-cristi, pseudo-profeti e faranno cose così grandi da stupire tutto il mondo, così che la carità in molti diminuirà»20. La carità che cos’è? La fede in Cristo, aderire con la propria vita a Cristo, riconoscere Cristo, e perciò riconoscere la comunione. Questa è la carità. Siccome gli altri fanno cose più grandi, si misconoscerà la comunione per buttarsi nell’efficientismo; di qui l’intraducibilità del Fatto cristiano, della fede, in termini culturali, come espressione culturale, perciò il sottrarre completamente la propria collaborazione a Dio nel mondo, il lasciare totalmente fare allo Spirito Santo, disinteressandosi di fare restare la Sua Chiesa nella storia, il non collaborare, insomma, a tradurre in Chiesa il mondo. Come a dire: la Chiesa è indefettibile, perché c’è lo Spirito Santo; anche se io non me ne interesso più, va avanti lo stesso.
Nella fedeltà alla propria storia vengono bene a galla i due punti duri. Uno, culturale: l’incidenza del Mistero nel modo di concepire, di analizzare e di teorizzare, l’incidenza del Mistero nella flessione culturale, metodologicamente. Questo è il duro, questa è in noi l’immaturità, perché la metodologia nostra è ancora mondana nella sua espressione culturale (e, almeno tendenzialmente, lo sarà sempre). Ma il Mistero non è “il mistero”; “Dio” è Cristo e la Chiesa. Il punto duro è, cioè, la comunità cristiana, il mistero del patto, della comunione, come fattore determinante, metodologicamente, il proprio modo di pensare, la propria cultura. Questo è il punto. Dall’altra parte, l’altro punto duro, l’intoppo, è il nostro amor proprio. Il primo è la difficoltà della metanoia come cultura, il secondo è la difficoltà della metanoia come morale, vale a dire il rintuzzarsi dell’amor proprio e il riconoscimento dell’autorità, della funzione dell’autorità.


 Note

1 Cfr. Mt 24,11-12.
2 Lc 8,10.
3 Lc 8,8.
4 Mt 3,12; Lc 3,17.
5 Lc 22,42.
6 Gv 19,30.
7 C. Chieffo, Il monologo di Giuda, in Canti, Cooperativa Editoriale Nuovo Mondo, Milano 2002, p. 205.
8 Ap 3,19.
9 Mt 28,20.
10 Cfr. L. Giussani, «Appunti di metodo cristiano», in Il cammino al vero è un’esperienza, Rizzoli, Milano 2006, pp. 129-133.
11 Cfr. L. Giussani, «Tracce d’esperienza cristiana», ibidem, pp. 83-125.
12 Cfr. L. Giussani, «Gioventù Studentesca: riflessioni sopra un’esperienza», ibidem, pp. 21-80.
13 J.M. González-Ruiz, Il cristianesimo non è un umanesimo...: appunti per una teologia del mondo, Cittadella, Assisi 1968.
14 Cfr. Mc 8,11.
15 Vedi qui, nota 7.
16 Cfr. Mt 12,35.
17 Vedi qui, nota 10.
18 Cfr. Gal 3,28.
19 Cfr. Gv 16,20.

20 Vedi qui, nota 1.