LA DIVERSITÀ DI UN’OPERA

Pagina Uno
Julián Carrón

Appunti dall’Assemblea della “Scuola Opere” per gli associati di CdO Opere Sociali
Milano, 13 giugno 2012


Bernhard Scholz. La Scuola Opere è nata per permettere un dialogo, un confronto, una formazione continua su tutti i temi che riguardano le opere sociali. Abbiamo parlato della libertà come sorgente di una reale costruzione, di chi non delega ad altri, ma si mette in gioco in prima persona; abbiamo parlato dell’inserimento lavorativo dei giovani, della sostenibilità economica che non è uno scopo ma uno strumento assolutamente decisivo, dell’apertura delle opere al mondo, della collaborazione, perché anche questo è decisivo per lo sviluppo di un’opera. In tutto questo percorso è diventato sempre più evidente che esso dipende dal soggetto, o meglio dall’insieme delle persone che lavorano per e dentro un’opera. Siamo diventati anche più coscienti che in questo mondo - dove ci sono tanti progetti che cercano di sostituire la persona e la sua responsabilità con automatismi, modelli e meccanismi - scopriamo una bellezza umana quando ci accorgiamo che tutto, l’opera e la professionalità, sono espressione di un io che si mette in gioco. Occorre quindi una posizione autenticamente umana perché l’opera possa essere realmente a servizio dell’uomo. Per questo siamo molto grati che stasera ci sia don Julián Carrón, che ha accettato l’invito; è una grande occasione per scoprire ancora di più in cosa consiste questa autenticità umana, in cosa consiste una posizione vera, creativa, capace di trasformare la realtà per il bene di tutti.

Monica Poletto. Le domande che facciamo questa sera nascono anzitutto dal lavoro della Scuola Opere di quest’anno, e toccano tanti temi. Nel dialogo e nel percorso di questi anni abbiamo spesso fatto emergere dei punti critici e delle difficoltà; è una cosa a cui, a un certo punto, abbiamo iniziato a prendere gusto, perché ci siamo resi conto che fa parte di un cammino da uomini e da amici il fatto di affrontare tutte le criticità che emergono nel nostro lavoro. Il fatto che questa sera affronteremo alcune di queste difficoltà è in nesso con la percezione di una grande positività: questo ci rende capaci di guardare tutto.

Intervento. Lavorando sulla formazione, che per noi significa aiutare le opere a essere più professionali, più capaci di una solidarietà operativa, ci interessa approfondire il nesso tra due affermazioni che talvolta sembrano contrastanti, se non addirittura contraddittorie. La prima è che «dal frutto si riconosce l’albero», e quindi che in qualche misura il risultato ha a che fare con la validità della nostra azione. L’altra affermazione, che tra di noi ci ripetiamo spesso, è che «bisogna essere liberi dall’esito». Spesso ci troviamo addosso una resistenza a guardare con realismo l’esito delle nostre azioni. È più facile rimanere sulla premessa - le ragioni per cui facciamo le cose - e cogliere l’esito in modo parziale, enfatizzando quasi esclusivamente i successi e censurando invece i punti critici, di incapacità. Ci siamo accorti che un certo modo di dire: «Siamo liberi dall’esito», quando non è addirittura espressione di una irresponsabilità, sottende una grande paura a guardare l’esito, perché in quell’esito ci sentiamo consistere. Allo stesso tempo stiamo scoprendo come affascinante e umanamente conveniente la tensione a guardare l’esito delle nostre azioni con il desiderio che tutti i fattori emergano, in modo da farci correggere da quello che accade, dal risultato. Come sono uniti la tensione a imparare dall’esito delle azioni, da un lato, e la libertà dall’esito stesso, dall’altro?

Julián Carrón. Soltanto un chiarimento non basta per poter realizzare una risposta; è molto importante che noi ci rendiamo conto che non ci bastano delle spiegazioni, ma ci serve ciò che rende possibile che noi possiamo realizzare quello che abbiamo sentito come risposta. Per potere riconoscere e realizzare quel che abbiamo sentito come risposta occorre un’esperienza umana, una consistenza senza la quale la risposta rimane teorica. Questo è decisivo. Per questo, se tutta l’assemblea di oggi non viene inserita dentro al cammino che stiamo facendo nella Scuola di comunità, vi assicuro che è una perdita di tempo, anche se riusciamo a rispondere per filo e per segno a tutte le domande, perché non basta “sapere” le risposte. Questo è un esempio palese: come posso, in fondo, essere libero dall’esito? La prima cosa che occorre capire - come ciascuno può riconoscere subito dalla propria esperienza - per incominciare a essere liberi, è riconoscere che ogni opera, ogni tentativo di risposta a un bisogno è sempre imperfetto. E questo non soltanto perché siamo peccatori: anche il santo più santo non può fare che un tentativo ironico. Se cominciamo a riconoscere l’imperfezione di ogni atto umano, di ogni gesto umano, di ogni tentativo umano, allora potremo pian piano essere liberi di cominciare a guardare quello che non va, a riconoscerlo, senza sentirci giudicati o messi in discussione soltanto per questo, perché appartiene a ogni gesto umano l’essere imperfetto. Malgrado questo, che riconosciamo tutti perché ne facciamo esperienza ogni giorno, a volte - come dite - siamo disponibili a riconoscere le cose che vanno bene enfatizzando i successi, ma siamo meno disponibili a riconoscere i punti critici. Perché? Perché c’è una grande paura. Io lo ricordo bene, non c’era cosa meno piacevole per i docenti della scuola dov’ero preside che giudicare che cosa succedeva. Io facevo una domanda molto semplice: «Un ragazzo che viene nella nostra scuola, dopo quattro anni di liceo che esperienza ha fatto? Possiamo dare un giudizio per cominciare a capire qual è l’esito del nostro tentativo educativo, anche per migliorare e per cambiare?». Erano disponibili a tutto tranne che ad accettare un giudizio. Al massimo resta il sentimentalismo, per cui gli allievi, finita la scuola, se ci incontrano per la strada ci salutano con piacere. Complimenti! È il massimo a cui riusciamo ad arrivare? Tante volte abbiamo paura perché mettiamo la consistenza in quello che facciamo. Questo lo diceva molto bene don Giussani in un articolo del 2000, ripubblicato su Tracce di giugno, in cui difendeva Giovanni Paolo II che chiedeva scusa per gli errori che la Chiesa aveva commesso nella storia. A un certo momento, dice: «Tutte le ideologie hanno un aspetto per cui l’uomo è sicuro almeno in una cosa che lui stesso fa». Cioè: le ideologie mettono la consistenza in quello che fanno. E qual è la conseguenza? «Non vorrà mai rinunciare né mai mettere in discussione» quello che fa. Semplice, cristallino come l’acqua. Questa è l’ideologia; «ma il cristiano sa che i suoi tentativi e tutto ciò che possiede o fa sempre debbono cedere alla verità». Perché è imperfetto e quindi la verità è più grande di quello che riusciamo a fare. Vale a livello personale e a livello operativo, qualsiasi opera facciamo. Che cosa consente, allora, a un uomo di riconoscere i limiti di quello che fa? Don Giussani lo dice con questa frase: «A nulla fuorché a Gesù il cristiano è attaccato» (L. Giussani, «Quella grande forza del Papa in ginocchio», la Repubblica, 15 marzo 2000, p. 16). È solo se noi siamo attaccati a Gesù, se non mettiamo la nostra consistenza in altro che non Gesù, che possiamo riuscire a riconoscere i limiti di quello che facciamo. Per questo è importante che noi ci rendiamo conto che non basta sapere che l’opera è imperfetta, non basta sapere che le ideologie mettono la consistenza in quello che fanno, non basta sapere che l’unica possibilità è avere Gesù, ma occorre che Gesù sia così realmente presente, sia un’esperienza così reale, che io possa guardare anche il mio limite, il mio male e la mia incompiutezza senza scandalizzarmi, perché la mia consistenza non è in quello, perché la mia consistenza davvero è in Cristo: «A nulla fuorché a Gesù il cristiano è attaccato». E questo non si improvvisa facendo un’opera, perché non appartiene all’opera, ma appartiene al cammino di fede che ciascuno fa. E se non lo fa, è evidente che questo, poi, si vede nell’incapacità di riconoscere i limiti dell’opera; così tante volte i problemi sono problemi personali non risolti. Non sono problemi dell’opera, sono problemi nostri: non abbiamo la consistenza adeguata per riconoscere quello che è imperfetto e quello che non va. Dunque, soltanto uno che ha una consistenza può costantemente tendere a imparare, essendo libero dall’esito. Senza un’esperienza così - che è a monte o che matura attraverso quello che uno fa - le domande, anche se ne conosciamo la risposta teorica, non riusciamo a risolverle.

Intervento. Nell’inizio, quando l’opera è piccola, è molto facile che non perda l’origine; la mission dell’opera è chiara, e generalmente le persone che la guidano tendono a non smarrire l’obiettivo. Ma per molti, man mano che si cresce, c’è una deviazione del percorso, e quando ce ne si rende conto non si ha più la chiarezza della mission dell’opera e della sua origine. Ciò che mi preoccupa è che la nostra opera cresce sempre di più, arrivano nuovi volontari e questi portano nuove proposte di modifica. Questa pressione al cambiamento ha un aspetto positivo, perché ci mette in movimento e non ci lascia tranquilli; ma porta il rischio di allontanarci dall’origine e dallo scopo dell’opera. Ogni giorno stiamo combattendo battaglie reali per tenere viva la mission dell’opera e a volte penso di non riuscire a tenerla viva a lungo. Vorrei che mi aiutassi a capire come posso vivere questa crescita naturale dell’opera senza che si allontani dall’origine e perda la chiarezza dello scopo.

Intervento. Anche noi in questi anni abbiamo dovuto fare i conti con la crisi che stiamo vivendo. Alcune opere rischiano di vedere terminare una esperienza che si ritiene ricca per gli altri e per chi la conduce. Sicuramente non è un momento facilissimo. Di fronte alla crisi l’operatività normale viene meno, bisogna imparare, introdurre e sviluppare alcune funzioni che finora non erano consuete, quali, per esempio, quella commerciale o quella gestionale. Bisogna rivedere la tipologia e la qualità dei servizi. Bisogna insomma interagire profondamente con la realtà che abbiamo davanti, con un contesto in profondo divenire. Non nego che questo lavoro non sia spontaneo né naturale. «Cosa stiamo facendo?», «Dove stiamo andando?»: sono domande che costantemente ci poniamo tra di noi. Affrontandole, viene spesso a galla la domanda sull’origine dell’opera, sullo scopo. Tante nostre cooperative, infatti, sono nate da esperienze di volontariato, di caritativa, magari un po’ pionieristiche, tanti anni fa, in modo assolutamente innovativo per rispondere con generosità ai bisogni delle persone incontrate, e chi le ha fondate ha dato veramente tanto perché esistessero. In questo lavoro di costante confronto con la situazione attuale ho notato che un certo modo di riferirsi all’origine dell’opera, soprattutto quando questa non è stata alimentata dall’esperienza vissuta negli anni e quindi risulta oggi fissata sulla modalità iniziale, blocca la spinta al confronto con il contesto e quindi lo sviluppo dell’opera stessa. Come si supera questa forma quasi di possesso dell’origine dell’opera, che alla prova dei fatti si rivela ostacolo allo sviluppo dell’opera? E qual è la fonte di questo errore?

Carrón. È evidente che in qualsiasi opera in cui ci sia una vita, c’è un rischio. Se c’è la vita e la vita si muove, c’è sempre il rischio. E questo di per sé è inevitabile, perché la vita passa costantemente tra di noi attraverso la libertà. Quindi non è un problema tanto di crescita o non crescita; il problema è che ogni opera passa sempre attraverso la libertà della persona. Anche se non crescesse, infatti, non per questo sarebbe assicurata la permanenza dell’origine. La fatica di quel che chiedete è un’altra spia di quel nichilismo di cui parlavamo ai recenti Esercizi della Fraternità. A noi piacerebbe che fosse sempre tutto meccanico, che non ci fossero rischi. Arriviamo sempre a questo punto: lo scandalo della libertà. Ho già raccontato l’episodio in cui un tassista, appena ha capito che ero un prete, mi ha detto che è uno scandalo che Dio abbia lasciato la libertà agli uomini; gli ho detto: «Senta, ma a lei piacerebbe che sua moglie le volesse bene non liberamente, ma perché costretta da un meccanismo biologico?». «Assolutamente no!». «E pensa che il Mistero abbia meno gusto di lei?! Il Mistero ha generato un essere libero proprio perché non ha meno gusto di lei». Tutte le leggi dell’universo non valgono un «sì» detto liberamente. Quando uno ti vuole bene, ciò interessa molto di più la tua vita che tutte le leggi dell’universo. La libertà, quindi, non è il pedaggio da pagare o qualcosa da sopportare, ma è questa facoltà affascinante che abbiamo noi umani e che ci consente di non essere meccanici e di vivere, di rischiare, di partecipare all’avventura; e quindi di crescere, di diventare sempre più noi stessi perché ci coinvolgiamo sempre di più in quello che facciamo. Allora, invece di spaventarci di questo, dobbiamo usare tutte le opportunità, tutte le occasioni come possibilità di crescere nella nostra autocoscienza. E se arrivano altri a coinvolgersi con le vostre opere, essi sono una sfida per ciascuno di voi, perché è la possibilità di generare anche loro in questa prospettiva, di farli diventare uomini, di farli partecipare. A cosa serve l’opera se non rende gli uomini più uomini? Non servirebbe, sarebbe già fallita in partenza. Invece se ognuno che arriva è una possibilità ed è una sfida per noi (perché non ci consente di dare le cose per scontate e ci chiede di essere presenti come fosse il primo giorno), allora ci dà un contributo dell’altro mondo per non chiuderci nel nostro brodo, nella nostra inerzia, nel nostro già-saputo, perché dobbiamo testimoniare a un altro che arriva che cosa ci muove. E questo, paradossalmente, è l’occasione più grande perché l’opera non perda l’origine. Sono io ad avere costantemente bisogno dell’origine per poter vivere ogni situazione! Per questo non si può parlare dell’origine come qualcosa di statico, perché occorre che io risponda e affronti le sfide che ha il presente, che è il luogo della verifica dell’origine stessa (se è in grado di accettare tutte le sfide che la realtà sempre nuova pone). Basterebbe pensare a come la fede ha sempre dovuto affrontare in ogni epoca della storia la sfida di comunicare lo stesso messaggio con un altro linguaggio, capendo che per rimanere fedele a se stessa occorreva che si sviluppasse. Non bastava una ripetizione meccanica di certe parole, perché le parole avevano cambiato significato, o si usavano altri termini. Allora occorreva sviluppare l’origine, altrimenti si perdeva. Vedete? È il contrario: l’origine permane solo come qualcosa di vivente. Altrimenti è morta e sepolta, o si è persa per strada cambiando il punto sorgivo. Invece, proprio il costante bisogno dell’origine per affrontare la sfida del presente rende possibile che l’origine rimanga viva. Ne abbiamo bisogno; e per questo non basta una ripetizione formale. Diceva don Giussani che per comunicare il cristianesimo occorre in qualche modo “ricrearlo” in continuazione. Se Giussani non lo avesse fatto, molti di noi non sarebbero qui. Non basta una ripetizione formale dell’origine, perché l’origine non è mai formale! L’origine è un evento, un punto infiammato che, a un certo momento, ha fatto scattare la libertà di qualcuno. Se non c’è più, allora tutto diventa piatto. Per questo don Giussani ha sempre detto che il metodo è sempre lo stesso: qualcosa che viene prima. Ma non solo all’origine: è qualcosa che viene prima sempre, in ogni punto della strada, perché è proprio un evento. L’origine è un evento, è una spinta, è una genialità, una novità. Questa origine deve permanere, non come all’inizio, ma quella dell’inizio.

Intervento. Stiamo capendo quanto sia importante che i luoghi di guida delle opere siano luoghi di reale assunzione di responsabilità, dove l’assunzione di responsabilità spesso tra noi è stata ed è scansata dalla affermazione: «Sono in quel luogo per me». Ci sembra però che questo dualismo vada giudicato come tale; infatti nella mia esperienza io non riesco a pensare che un luogo sia per me, se non mi assumo la responsabilità che nel luogo è implicata. Detto questo, ci accorgiamo spesso che il passaggio da quella che chiamiamo ironicamente “monarchia” a una guida condivisa ancora un po’ stenta; e la fatica a condividere va di pari passo con la fatica di delegare, cioè di far crescere le persone. Laddove questo passaggio avviene, abbiamo assistito a esperienze impressionanti. Ci sono cooperative che in questo periodo di crisi hanno visto l’assunzione di responsabilità da parte di tutti: ma questo è stato frutto di un lavoro di chi le guida e di coinvolgimento delle persone. Non è una cosa che inventi. E nello stesso tempo questo è un frutto di cui siamo grati. Nelle opere iniziano a esserci tanti giovani che crescono e diventano responsabili. A noi sembra che questa fatica che permane dipenda da un problema di concezione. Io non vivo una corresponsabilità se non penso che questo sia un “di più” per me, che faccia parte della mia natura, che sia in qualche modo un rispondere alla realtà attraverso l’acquisizione di nuovi fattori, che sia un bene per me e per l’opera.

Carrón. Assumersi la responsabilità è un segno di maturità dell’adulto, senza assumerci una responsabilità noi siamo ancora bambini. Allora, assumersi la responsabilità è il segno che stiamo crescendo come uomini. E questo è decisivo per noi, perché è così che noi realizziamo la nostra umanità. Noi ci realizziamo come persone in questo cammino. Non è che la realizzazione della mia vita vada da una parte e l’opera dall’altra, come se ci fosse un dualismo. No: io mi realizzo affrontando tutte le sfide che la vita mi pone, in casa, nei rapporti, nel lavoro, e anche nella responsabilità che devo assumermi. Per questo la vita è imparare il rapporto che c’è tra l’io che ciascuno di noi è e le persone, le cose, le sfide, le circostanze che ci vengono incontro. Se non rispondiamo a questo, non rispondiamo alla modalità con cui il Mistero ci chiama attraverso la realtà, e quindi non cresciamo. Pensate se la realtà non vi sfidasse, se non ci fosse, se fosse lì senza provocarvi. Il nostro sarebbe un encefalogramma piatto, come vediamo in tanti intorno a noi. Se uno comincia a guardare la realtà così, inizia a vedere che il fatto che il reale lo provochi è un bene, è un bene perché l’io non permanga in uno stato da encefalogramma piatto. Allora comincio a guardare la realtà come amica, ogni circostanza come amica. E chiunque entra nel mio orizzonte, indipendentemente dalle intenzioni con cui lo fa, che abbia ragione o torto, mi mette in moto. Se ciascuno di noi non risponde a questo, la vita per noi passa senza che si compia lo scopo per cui c’è, cioè farci diventare sempre più noi stessi. Tanto è vero che don Giussani, nel decimo capitolo de Il senso religioso, dice che una persona che non è sfidata intensamente dalla realtà non può avere la coscienza di sé che ha un’altra che lo è stata. Ma non perché sia più brava o meno brava, più intelligente o meno intelligente. No, è che se la realtà non ti sfida e non ti provoca e non ti fa mettere in moto tutte le tue risorse, è come uno che non fa alcun esercizio fisico; se non fa niente, non è che si lesiona, semplicemente rimane lì, paralizzato; non fa niente “contro”, ma siccome l’esercizio fa parte essenziale dello stato fisico, se non lo fa, sappiamo che cosa succede. È un esempio banale di quello che succede nella vita, nell’essere umano: se la mia intelligenza non è sfidata, se la mia libertà non è sfidata, se la mia affezione non è sfidata, io sono come un morto vivente. Allora, se non capiamo che questo è un bene, noi ci difendiamo, ci scarichiamo e ci lamentiamo sempre delle sfide del vivere. Se invece comincio a capirlo, allora voglio che nessuna sfida mi sia risparmiata, perché è un’occasione, perché qualsiasi cosa il Mistero permette, anche se non lo capiamo, ci è data per la nostra maturità, per la nostra crescita, per la nostra umanità. Questo è il valore del tempo, della storia: farci diventare più noi stessi. Se noi non capiamo questo, ci difendiamo. E da cosa ci difendiamo di più? Da quel che più ci può sfidare: il “tu” dell’altro. Perché, allora, tante volte abbiamo questa concezione “monarchica”? Perché l’altro mi importuna e sarebbe meglio che non ci fosse. Questa è una concezione che difficilmente uno mette in discussione. È una concezione errata dell’io: penso di poter dire «io» senza dire «tu». E mi difendo dall’altro, invece di riconoscere - come tante volte accade, se siamo leali - che se ci mettiamo intorno a un tavolo con altri, vengono fuori una quantità di idee che a me da solo non verrebbero. Allora vediamo che l’altro è un punto decisivo, che mi dà qualcosa che mi conviene, e che quindi difendermi dall’altro è una stupidaggine. Così l’altro non è qualcosa da evitare, da cui stare lontano perché “rompe”; al contrario, comincio a vedere l’altro come uno che può dare un contributo alla mia opera, a quello che voglio costruire. Perché l’altro può contribuire solo se io gli lascio lo spazio per farlo. Potete vedere qual è la vostra concezione con un test semplicissimo: dall’altro vi difendete o lo venerate come un bene e una risorsa? E subito capirete la concezione che avete del vostro io. È semplice la vita, perché in ogni cosa con cui siamo in rapporto dimostriamo a noi stessi se l’altro fa parte della modalità con cui io dico «io» o se l’altro è estrinseco e giustapposto al mio io. L’io è concepito o come rapporto o come isolamento. Questa è la grande sfida.

Intervento. Un altro aspetto della responsabilità su cui ci siamo resi conto che c’è molto in gioco è la questione della coincidenza tra forma e sostanza delle cose. Il fatto di non obbedire alla forma che è l’opera - per cui i luoghi di responsabilità formale non coincidono con i luoghi di responsabilità sostanziale - pone un punto di disobbedienza all’interno dell’opera che si ripercuote su tutto, anche sul fatto che chi guida proietta se stesso e la sua immagine.

Carrón. Questo è il dualismo nell’opera. Se volete svuotare i luoghi di responsabilità, basta una cosa molto semplice: decidere fuori da quei luoghi. L’avete già ammazzata, perché portate nel luogo di responsabilità cose già decise. Allora è una presa in giro! Così i luoghi di responsabilità diventano formali. È una presa in giro per le persone che invitate nei luoghi di responsabilità: «Se hai già deciso, a cosa mi inviti? E se mi inviti qui, perché non decidi qui? Vuol dire che tu non hai bisogno di me». Dovete avere la libertà di mandare a quel paese chi si comporta così nei vostri confronti, se avete questa libertà: «Io non vengo più a un luogo formale». Perché questa è la tomba delle vostre opere, perché questo favorisce i personalismi che non producono niente di buono. Se ci si dota di certi organi per la conduzione, non è perché non ci si fidi, ma perché si conoscono tutti i propri limiti. Una delle cose che più creavano confusione, quando facevo il preside, era fare gli orari delle lezioni. Era il gran dibattito annuale, perché se uno ha dei buoni orari, l’anno scolastico è già molto diverso. Qual era la modalità di uscire da questa situazione? Dire: «Per evitare che io faccia qualcosa portato dal mio soggettivismo e che voi cerchiate di ricattarmi, mettiamoci d’accordo prima: decidiamo i criteri. Così voi non mi importunate più. Perché io non voglio cedere al mio soggettivismo (posso cedere per la mia fragilità, come voi); ma anche voi potete cedere, non soltanto io. Allora diamoci un criterio che poi applichiamo». Per questo da quando sono a Milano a guidare il movimento ho solo una regola di conduzione: ciascuno è libero di avere tutti i rapporti che ha, con chi vuole, questo non solo non è negativo, ma è un bene per tutti noi; tuttavia ci sono luoghi di decisione, e nessuno si permetta di decidere qualcosa riguardo al movimento in quanto tale al di fuori di essi. Basta, non c’è un’altra regola. Questa è la modalità per non svuotare un luogo di conduzione, perché se le cose si decidono fuori, allora lo svuoti automaticamente.

Intervento. Nel 2009 hai detto alla CdO: «Che la carità penetri negli interstizi dei nostri calcoli deve essere sempre davanti a noi come ideale, come tensione da avere. Perché noi, essendo tutti peccatori, non siamo per niente esenti dal decadere della gratuità e finire nel puro calcolo, pensando che siamo preservati solo perché apparteniamo a una amicizia come la nostra. Il rischio, e non solo, di arroccarsi in una difesa corporativa di ciò che facciamo, magari con dentro un progetto di egemonia politica, è sempre in agguato. Che la gratuità sia l’estrema convenienza significa una gara nel cercare il bene che passa per il rispetto delle leggi, ma che fa di questa gratuità affezione, costruzione per il bene comune, correzione senza reticenze di fronte alla continua caduta» (J. Carrón, «La tua opera è un bene per tutti», Tracce, n. 11/2009, p. VIII). Questo ha iniziato a essere per noi un punto di lavoro. Racconto un fatto. In un recente lavoro istituzionale siamo stati chiamati a dare il nostro giudizio su un progetto di legge in tempi strettissimi. Questo poteva essere una grandissima fonte di lamento: la solita pubblica amministrazione che fa finta di tenere conto delle nostre opinioni, un lavoro inutile che non porterà ad alcun frutto, prevarranno altre dinamiche... Invece ci siamo messi a fare un lavoro di conoscenza, certi che, in un mondo che sta cambiando, la partecipazione attiva e non lamentosa è la vera risorsa. Come esito inaspettato di questo intenso e fervido lavoro, i nostri interlocutori hanno tenuto presente i nostri giudizi. Una di noi ha commentato: «Questo è il metodo. La partecipazione attiva e non lamentosa è la vera risorsa». Questo non per dire quanto siamo bravi, ma come l’umile lavoro di confronto, e una posizione aperta e che valorizza come ideale quello del bene comune, dà prima di tutto come esito una grandissima soddisfazione, e a Dio piacendo porta anche questi frutti inaspettati. Ma ci sono dei momenti in cui nei rapporti istituzionali ci scontriamo con posizioni ideologiche, con una durezza dell’interlocutore a cui consegue una lamentela che frena la gratuità, la tensione al bene comune di cui parlavi. Molto spesso sembra che la posizione che ha maggior presa sia quella di un’inerzia, che si scontra con la posizione che abbiamo scoperto recentemente. Come aiutarci a tenere desta questa tensione alla gratuità, anche in momenti in cui lo scontro con l’istituzione sembra l’unica via accessibile?

Carrón. Come tenere desta la gratuità? In altre parole: che esperienza del vivere te la ridesta? Questo non dipende dall’istituzione, non dipende dalla nostra capacità, ma dipende dal partecipare a un luogo di vita che ti ridesta costantemente, che ti rende sempre più in grado di partecipare a un’esperienza che ti fa traboccare di quella pienezza da cui può nascere una gratuità. Perché la gratuità è il debordare, il traboccare di una pienezza. Noi possiamo partire da un pieno o da un vuoto. Se partiamo da un vuoto, saremo sempre in balìa dell’esito, di quello che riusciamo a fare. E se è così, appena la strada sarà in salita ci stancheremo e getteremo la spugna. Invece per poter vivere la gratuità non basta dire la parola «gratuità» o sapere che cosa sia, occorre che la gratuità accada, occorre che partecipiamo a una esperienza tale che nessuna sconfitta ci possa fermare, perché non dipendiamo da essa, perché il punto sorgivo della nostra gratuità è altrove! Questo è il valore dell’esperienza cristiana come punto sorgivo di una modalità di stare nel reale in un modo diverso, veramente nuovo. Tutti gli altri, in fondo, si lamentano. Perché? È inevitabile che si lamentino, non perché sono cattivi, ma perché non hanno un’esperienza nel presente che li riempie costantemente. E questo non è un problema dell’opera, dell’altro che non vi dà retta, dell’istituzione... Potrebbero anche darvi retta tutti, e il problema della vostra gratuità non essere risolto. È soltanto un’origine diversa che rende protagonisti di un lavoro; non un lavoro approssimativo, ma un lavoro profondo. Non possiamo pensare che, poiché viviamo un’esperienza bella, ci venga risparmiato questo lavoro, come se bastasse dire una parola magica. No, occorre entrare nel merito delle questioni e mostrare attraverso quello che fate di aver presenti tutti i fattori e di saper risolvere meglio i problemi che si pongono. E questo - tutti lo sappiamo - non avviene dal giorno alla notte, ma è un lavoro, come hai detto benissimo. Ma a volte dovete lottare contro una posizione ideologica. Allora è una sfida per la tua creatività. Non devi forse farlo con i tuoi figli, che a volte si confondono e si incastrano? E che cosa fai? Li mandi a quel paese? O sono una sfida a te? «Cosa gli posso dire? Cosa gli posso raccontare? Cosa gli posso dare da leggere?». E vai a letto, ti ridesti al mattino e vai a lavorare. E poi - «ecco!» - ti succede qualcosa che ti dà uno spunto da offrire loro. Non è diverso con gli interlocutori sul lavoro, perché sono rapporti. Allora, guarda se ogni volta in cui ti trovi davanti a una certa situazione ti dai da fare; immagina che, anziché lamentarti dell’ideologia dell’altro, tu ti domandi costantemente: «Io come devo entrare in rapporto con questo? Cosa gli posso dire perché non si difenda? Cosa gli posso offrire? Cosa gli posso raccontare?». E tante volte l’altro può non capire. Faccio spesso l’esempio di Abramo. Immagina se, quando è stato chiamato, fosse andato da Dio a lamentarsi: «Guarda che questi non mi danno retta, non capiscono, sono ideologici...» (tutte cose che diciamo noi). Cosa gli avrebbe detto Dio? «Ma è proprio per questo che ho chiamato te! Loro non capiscono: è per questo che ho chiamato te, perché comincino a capire!». Dio dà la grazia a uno perché, attraverso questo uno, possa arrivare agli altri. Noi invece diamo la colpa all’altro perché non capisce. No! Tu hai avuto questa percezione, questa grazia, questo guizzo di cominciare qualcosa: la grazia è per te, e attraverso te arriverà agli altri in un modo e attraverso un disegno che non sai. Immagina se Abramo avesse cominciato a misurare quanto tempo doveva passare perché gli altri capissero... Si sarebbe stancato dopo qualche giorno. Il disegno di Dio per fare partecipare gli altri di quello che ci dà non lo decidiamo noi.

Intervento. Quello che tu chiami «il progetto di egemonia» sembra una scorciatoia. A volte sembra che questa posizione di gratuità sia una posizione più debole. Mi piacerebbe approfondire questo punto, perché mi sembra che invece il risultato che ottieni è qualitativamente diverso, perché l’egemonia presuppone che non esista la libertà.

Carrón. Esatto. Con l’egemonia tu puoi arrivare a destinazione perché hai un compagno di cordata, ma non perché l’hai convinto. Così non fai un lavoro sulle ragioni del tuo contributo al mondo. Tante volte ci possiamo accontentare di prevalere egemonicamente, ma in fondo perdiamo culturalmente; invece possiamo vincere culturalmente, anche se non prevaliamo egemonicamente. Questo vuol dire che noi non abbiamo altro da comunicare al prossimo che quel che ci è capitato (e non sappiamo di quanto tempo avremo bisogno e quanto ci servirà perché questo vinca; quando san Benedetto ha cominciato, chi avrebbe pensato quanti secoli sarebbero stati necessari!). Ma noi pensiamo: o metto la moneta nel distributore e cade la bibita, o altrimenti è sbagliato. No, non è sbagliato, è semplicemente che il ritmo lo decide un Altro, il disegno è di un Altro. Per questo, se uno non ha un fondamento adeguato, quanto tempo resiste? Il problema non è che le cose non funzionano secondo quanto da noi previsto, ma che non abbiamo una consistenza. E quindi ci lamentiamo, cominciamo anche noi a partecipare del lamento generale. Oppure semplicemente gettiamo la spugna. Per questo è facilissimo che tante persone, dopo una, due, tre volte, si stanchino e smettano. Il problema è la tensione. Come fai con i tuoi figli. Pensa se tua moglie misurasse quanti sorrisi deve fare per far scattare il primo sorriso del bambino. Guarda quante volte hai trattato così gli interlocutori sul lavoro! Pensaci, e vedrai come non ci sia molta differenza.

Intervento. La domanda è inerente al lavoro con gli altri collaboratori. Il posto di lavoro è un luogo di formazione e di educazione. Entrando nella realtà lavorativa si imparano al contempo la professione e la statura umana. Uno degli aspetti più significativi del mio lavoro è la formazione degli operatori (gli insegnanti, i tutor, gli educatori). Avendo la responsabilità di insegnare un mestiere, soprattutto avendo tanti giovani che incominciano a lavorare con me, devo avere a cuore la consegna di un metodo. E il metodo non è mai un tecnicismo, non può esaurirsi in un aspetto solo professionale, e allo stesso modo è attraverso la puntualità di trasmettere un metodo professionale che si trasmette una posizione umana. Su questa unità (tra l’apprendimento di una professione e una posizione autenticamente umana) c’è ancora fatica, perché mi accorgo che posso facilmente scivolare su una approssimazione nell’insegnare il mestiere, rimanendo poi una esortazione il richiamo alla posizione umana.

Carrón. Questo non serve, perché puoi risvegliare la posizione umana soltanto attraverso quello che fai. Non è che tu stanchi i tuoi studenti durante l’ora di lezione e poi fai loro la predica nei cinque minuti finali! Il problema è se riesci a tenerli un’ora in tensione perché è così interessante quello che spieghi (attraverso gli strumenti con cui lo spieghi, il metodo che usi). E così insegni un metodo e risvegli l’umano. Altrimenti il risveglio dell’umano si riduce a predica... Qui, come ci ha insegnato sempre Giussani, contenuto e metodo coincidono. Gesù non fa prima la predica a Zaccheo e poi gli dice: «Vengo a casa tua». No. Gli dice una sola cosa: «Vengo a casa tua». Zaccheo ha capito subito. L’ha ricevuto contentissimo. Il contenuto (lo sguardo) e la parola che dice (il metodo) coincidono; non sono due cose diverse. Perciò se non abbiamo cura del metodo, è perché non abbiamo amore al contenuto; infatti il contenuto si comunica soltanto attraverso una forma, un metodo. Per questo don Giussani era così attaccato alla questione metodologica, perché è attraverso la metodologia che fai entrare qualcosa nelle fibre dell’essere dei ragazzi. Mi raccontava questa mattina un insegnante di una bravissima collega che incanta gli studenti per il modo di spiegare cose che per gli altri sono noiose; tanto è vero che una mamma le dice: «A me viene invidia di mia figlia perché ha un’insegnante così!». Cosa deve aver visto la mamma di questa ragazza! Cosa deve averle raccontato la figlia per invidiarla! Questa identità tra contenuto e metodo non si può inventare in un giorno.

Intervento. Ancora oggi, quando ci viene chiesto di descrivere quale è l’origine, l’atto generativo delle nostre opere, normalmente diciamo che sono nate tentando di rispondere a un bisogno. Ma l’esperienza ci ha insegnato che lo sviluppo di un’opera non può essere determinato dal bisogno, e deve essere caratterizzato da realismo e prudenza. Don Giussani l’ha detto anche nel 1987 ad Assago: «Le caratteristiche di opere generate da una responsabilità autentica devono essere realismo e prudenza. Il realismo è connesso con l’importanza del fatto che il fondamento della verità è l’adeguazione dell’intelletto alla realtà; mentre la prudenza, che nella Summa di san Tommaso è definita come un retto criterio nelle cose che si fanno, si misura sulla verità della cosa prima che sulla moralità, sull’aspetto etico di bontà. L’opera, proprio per questa necessità di realismo e prudenza, diventa segno di immaginazione, di sacrificio e di apertura» (L. Giussani, L’io, il potere, le opere, Marietti 1820, Genova 2000, p. 169). D’altra parte, sappiamo che ogni attività che facciamo, ogni attività umana in generale, contiene una porzione di rischio; quello che chiamiamo «buttare il cuore oltre l’ostacolo». E spesso lo abbiamo constatato nell’esperienza: proprio nei momenti meno strutturati, meno programmati, accadeva qualcosa, e la Provvidenza ci ha aperto strade nuove e imprevedibili. Però corriamo costantemente il rischio - e qui è il nodo della questione - di ingabbiare e snaturare le nostre opere nel tentativo di garantirne la sostenibilità economica. Molto spesso la necessità economica che prevale e il mantenimento dei posti di lavoro, soprattutto adesso, rischiano di snaturare e ingabbiare l’opera stessa. Perciò la domanda è: in che modo questo realismo e questa prudenza non diventano una misura e un freno allo sviluppo? E di fronte a una sollecitazione della realtà - il bisogno incontrato, l’occasione, la proposta, il nuovo rapporto che nasce, il desiderio di aiutare nuove opere - in che modo realismo e prudenza suggeriscono quali passi fare?

Carrón. Realismo e prudenza devono costantemente farci fare il punto della situazione. Se la situazione cambia, realismo e prudenza vi possono portare a ridimensionare l’opera. Non dovete testardamente continuare, contro il realismo e la prudenza, ad andare avanti come se niente fosse. Il realismo e la prudenza sono la modalità per superare il dualismo. La fede desta la ragione e ce la fa usare secondo tutte le sue caratteristiche di conoscenza della realtà, secondo tutti i fattori, quindi con realismo e con l’applicazione della prudenza come il retto criterio (come dice San Tommaso) delle cose che si fanno. Se incominciate a fare astrazione di questo nell’opera, allora iniziate ad andare contro la ragione. Volete rispondere al bisogno o volete affermare voi stessi? Gesù avrebbe potuto risolvere il problema delle ong nel Terzo mondo, sarebbe bastato cedere alla prima tentazione nel deserto: «Fa’ che queste pietre diventino pane». Avrebbe potuto farlo e il problema sarebbe stato risolto. Perché non lo ha fatto? Perché non era il disegno di Dio, sarebbe stata una modalità di affermare Sé contro il disegno del Padre. Allora non tutto quello che pare buono, se è contro il disegno di Dio, è giusto, perché tante volte non sappiamo se stiamo affermando il disegno di Dio o solo il nostro ombelico. E come lo sappiamo? Se obbediamo alla modalità con cui il Mistero ci dà le risorse. Se ne abbiamo per fare cinque - dico sempre -, non facciamo quattro e mezzo, facciamo cinque. Ma se possiamo fare soltanto tre, facciamo tre. Perché prima di rispondere secondo la nostra misura dobbiamo imparare a obbedire. Del resto, anche se facessi ventotto invece che tre, sarebbe sempre una goccia nell’oceano del bisogno. Questa è la nostra presunzione: pensiamo che gonfiando un po’ di più l’opera risolviamo qualcosa. Non risolviamo niente! Risolviamo solo un pezzettino in più di un bisogno che è sterminato rispetto a tutto quello che resta da fare. Quindi se, a un certo momento, occorre ridimensionare l’opera per realismo e per prudenza, la dovete ridimensionare. Perché questa è la modalità con cui obbedite. Se poi la situazione cambia e potete fare ancora di nuovo quello che facevate prima, occorre ridimensionarla ancora, perché è sempre una obbedienza. Se non fate così (in nome del bisogno, in nome di ciò che è buono, in nome del fatto che è un’opera giusta, in nome di non so quali cose), fate i cavoli vostri, affermate voi stessi perché non accettate i segni del reale. E così vi mettete nei guai, ma questo non è il disegno di Dio. Questa è l’affermazione del nostro ombelico. Che un’opera sia veramente una presenza non dipende dalle dimensioni dell’opera, dipende dalla diversità che porta. Per questo don Giussani usava la parola «esempio». Le opere non sono il tentativo di rispondere a tutto il bisogno che c’è, sono solo un esempio. Per questo mi avete sentito altre volte dire che Gesù non ha guarito tutti gli ammalati del suo tempo. Avrebbe potuto farlo, non è che non avesse risorse per farlo. Ma il disegno di Dio era un altro. Se Dio non lo fa è perché non ha risorse o perché il Suo disegno è un altro? Questa domanda semplicissima forse dobbiamo farcela, perché questo ci darà pace, non per accomodarci e non fare quello che dobbiamo fare (come se fosse un narcotico che ci tranquillizza), ma per fare memoria che il disegno di Dio è ciò che deve “comandare” le opere. Come sappiamo che stiamo obbedendo al disegno di Dio? Semplicemente se obbediamo ai segni. Un esempio: ai nostri amici dell’Irlanda, poiché c’era il Congresso Eucaristico, è venuto in mente di fare qualcosa di significativo. E uno ha detto: «Portiamo la mostra “Con gli occhi degli Apostoli”, sulla vita di Gesù a Cafarnao, presentata al Meeting del 2011». Una pazzia! Sembrava una pazzia. «Proviamo. Proviamo a vedere se riusciamo a trovare i mezzi per farlo». Sembrava una cosa impossibile: una comunità così piccola, una spesa così grande. Li ho incoraggiati sin dall’inizio: «L’unica condizione è: obbediamo ai segni. Se arriviamo a trovare persone che capiscono la portata che questo può avere per la Chiesa in Irlanda, lo facciamo. Altrimenti pace, sarà che il Signore non vuole. Se vuole, muoverà quello che deve muovere». Infatti l’ha mosso, e sono riusciti a fare la mostra alla grande! Mi raccontavano oggi delle cose stupefacenti che stanno accadendo. Questa è la modalità. Se si riesce, facciamolo, con audacia, senza risparmiarci. Ma se non riusciamo, fermiamoci, per non fare danni.