È bella la strada. Per chi cammina

Pagina Uno
Julián Carrón

Sintesi all’Assemblea Responsabili dell’Italia. Riva del Garda, 24 gennaio 2010

«È bella la strada per chi cammina». Questa è la novità che il Mistero introduce nella storia: fa diventare bella la strada. Per chi cammina. «È bella la strada per chi va». È impressionante come questo si avveri: la vita diventa una strada bella, un cammino sempre più affascinante, un’avventura sempre più entusiasmante per chi cammina e sempre più pesante invece per chi non cammina. «Quando si alzava la mattina, tutto gli dava fastidio, a cominciare dalla luce; perfino il latte col caffè», diceva il canto di Chieffo L’uomo cattivo (in Il libro dei canti, Jaca Book, Milano 1976, p. 291). Gli stessi ingredienti del vivere sono per uno un fastidio e per un altro una bellezza.
Che cosa introduce questa bellezza, che cosa fa diventare bella la strada? «I wonder as I wander out under the sky» (I Wonder, in Canti, Cooperativa Editoriale Nuovo Mondo, Milano 2002, p. 283), mentre cammino sotto il cielo mi stupisco che Gesù sia venuto a morire per la povera gente affamata come me e come te. Per chi è pieno di questo stupore, una volta che Lo ha incontrato, ogni cosa desta la nostalgia di Lui. «È gialla tutta la campagna ed ho già nostalgia di te» (C. Chieffo, La strada, in Canti, op. cit., p. 245). Quello che fa diventare bella la strada è che tutto, tutto, una volta che Lo abbiamo incontrato, ci desta la nostalgia di Lui - di Te, o Cristo -, e quanto più camminiamo (quando la vita stringe, quando la campagna è più gialla) più diventa nostalgia.
Questa è la novità che Cristo, il Mistero fatto carne, diventato presenza per l’uomo, ha introdotto come possibilità nella situazione storica di allora, nello sfascio di allora, nella situazione convulsa di allora e che introduce, per ciascuno di noi, nello sfascio di oggi. Come veniva osservato nell’assemblea che si è svolta ieri, chi insegna oggi nelle scuole non si trova più davanti ragazzi cui occorre mettere a posto qualcosa, correggere qualche sfumatura; no, l’umanità che vediamo davanti a noi è sempre più confusa, disfatta, distrutta. Ma quanto più si è consapevoli di questa situazione, tanto più ci si stupisce che Uno abbia avuto pietà di gente come te e come me, così come siamo, con tutta la nostra umanità, prima di qualsiasi altra considerazione. Domandiamoci allora: tutti i segni di umanità che vediamo intorno a noi - il disagio, l’insoddisfazione, la tristezza, la noia, o lo sfascio - sono un ostacolo? Il fatto che non ci troviamo più davanti il ragazzo doc, o la persona doc, o che noi non siamo più doc come prima, è un ostacolo o è di nuovo l’occasione per stupirci che sia venuto Uno che ha avuto e ha pietà di noi, di me e di te? Ancora: quei segni di umanità sono i sintomi di una malattia o i sintomi di una sproporzione strutturale, di una attesa dell’Unico che può rimettere in sesto l’io - non nel senso di sistemarlo, ma di farlo risorgere da questa situazione -? Siamo arrivati a un capolinea, lo vediamo, in tanti nostri gesti, in tante persone che incontriamo: non serve a noi né serve alla Chiesa una riduzione del cristianesimo a etica. Nella situazione in cui siamo, in cui ci troviamo a vivere, noi e gli altri, come è stato detto, può solo accadere Gesù. Vale a dire, abbiamo bisogno di qualcosa d’altro, di qualcosa di più di quello che noi riusciamo a fare, di tutti i nostri tentativi.

Il valore della situazione in cui ci troviamo è nel renderci evidente che non possiamo più permetterci di ridurre il cristianesimo, la natura del cristianesimo: o accade il cristianesimo, per noi e per gli altri, o non stiamo in piedi; e se noi non stiamo in piedi, non è ragionevole la fede, non abbiamo ragioni per credere. Quello che stupisce è che in questa situazione, come ha testimoniato l’assemblea di ieri, sta venendo a galla chi in questi anni sta facendo un cammino, sta facendo una strada, perché Gesù accade, è accaduto e accade, sta accadendo.
La grazia accade. E da che cosa si vede? Per rispondere prendo spunto da quello che avete detto. Uno di voi l’ha descritto molto bene: «In me è successo un rovesciamento totale nel modo di guardare». Da che cosa si vede che uno sta facendo una strada? Da che cosa si vede che la grazia di Cristo, come avvenimento, accade? Dal fatto che uno può dire: prima ero in un modo e adesso mi ritrovo diverso, prima cercavo di mettere quello che succedeva in una «griglia» predefinita, adesso è «la sorpresa di una conoscenza nuova». Un avvenimento ha fatto saltare la griglia, ha introdotto una novità. Quando uno si lascia prendere dall’avvenimento, dalla grazia che accade, si introduce una novità. Si vede che c’è la grazia, si vede che c’è l’avvenimento e si vede che c’è una disponibilità della nostra libertà ad accoglierlo dal fatto che salta la griglia: l’avvenimento - accolto - ci rispalanca, ci fa respirare. Chi sta facendo un cammino, chi si lascia prendere, può dunque descrivere un’esperienza (non “riflessioni”, ma una esperienza): ero lì, mi capitava questo, è accaduto qualcosa e adesso sono qui, in un altro punto, e vedo una novità succedere. Si vede che uno fa esperienza di qualcosa d’altro perché si introduce una conoscenza nuova. Se io posso giudicare la situazione precedente è per la luce che si introduce nel presente, per il fatto che adesso respiro, mi trovo come sorpreso e stupito di quello che accade e mi rendo conto che prima mettevo le cose nella griglia. La novità di quello che accade introduce un giudizio nuovo; e si vede che è una esperienza perché incrementa la persona. Qual è la differenza da prima? Non svanisce tutto dopo che è finito il contraccolpo sentimentale. È una novità che permane e si introduce nel quotidiano: «Un rovesciamento totale nel modo di guardare».
Ora, se molti di voi hanno potuto testimoniare questo ieri, è perché l’avvenimento accade, la grazia accade, altrimenti non avreste potuto dirlo.
E allora - secondo segno - «sorge una amicizia come sorpresa», avete detto, un ritrovarsi insieme non perché occorre, non per l’organizzazione, ma «per non perdere quello che accade», cioè per la memoria, «per andare a fondo del rapporto con Cristo». Ho subito pensato, sentendo queste vostre testimonianze, al bene, alla grazia che è per tutti quello che sta succedendo in America Latina. Lì alcuni si sono lasciati travolgere dall’avvenimento che accade, dalla grazia che accade; hanno una umanità così bisognosa, così ferita, che si sono lasciati trascinare. Senza che nessuno abbia dato loro alcuna indicazione, Cleuza e Marcos, tornati dall’Assemblea Internazionale di agosto, sono andati a cercare padre Aldo per guardare insieme quello che era successo; e padre Aldo è ritornato a trovarli, perché voleva approfondire quello che era accaduto con loro, e Julián de la Morena è il primo a seguirli, tutto stupito davanti a quello che accade.

Da dove partiamo per capire se la grazia sta accadendo o non sta accadendo? Che cosa guardiamo quando parliamo del movimento? Il movimento è uno, è internazionale, e quello che succede in un determinato posto nel mondo (che sempre più spesso posso vedere direttamente) è per tutto il movimento. Così, quando vedo i nostri amici degli Stati Uniti che si radunano, partecipano a un gesto bellissimo, dopo di che non si cercano, non hanno il bisogno di chiamarsi, dico: sta succedendo qualcosa anche lì, ma non è ancora quello che è accaduto in America Latina. Non è che si debba riprodurre meccanicamente qualcosa, semplicemente non si può evitare di dire: se in America Latina è potuto succedere quello che è successo, è perché l’avvenimento cristiano accade e trova una umanità che lo accoglie. Là dove esso è accolto, infatti, si verifica quello che avete detto: un rovesciamento totale nel modo di guardare (salta per aria la griglia) e l’amicizia come una sorpresa di ritrovarsi insieme. Non trovo parole migliori per descrivere quello che vedo - che non si può riproporre come il risultato di una organizzazione - e al tempo stesso quello che manca. Per la novità descritta si sta generando in America Latina tutto un sommovimento. Così, senza forzature, argentini, paraguayani, brasiliani premono per fare una vacanza insieme: per il gusto di stare insieme, di condividere questa novità, di non perderla.
È lo stesso che accade fra molti di voi, come avete testimoniato ieri. Ripeto solo alcune delle frasi che avete detto, come documentazione della novità. «Io sto riacquistando la vista, il mio rapporto con il reale, la mia umanità», diceva una di voi. Da che cosa si vede se uno sta facendo un’esperienza? Dal fatto che si incrementa l’io. «Io recupero la mia umanità»: vale a dire, non appiccico un discorso alla mia umanità vecchia, non rimango nella griglia aggiungendo qualcosa, non metto un’etichetta sopra un io già perfettamente costituito. La grazia della Sua presenza investe il mio bisogno, la mia solitudine, fino al punto da determinare, da plasmare la percezione che ho di me. Se così non fosse significherebbe che il cristianesimo non è in grado di toccare il nocciolo della questione, che tutto alla fine rimane come prima, e noi camminiamo verso lo scetticismo: «Niente di nuovo sotto il sole!».
Questa dunque è la sfida: succede o non succede qualcosa di nuovo sotto il sole? Ciascuno può decidere che posizione prendere davanti a quello che accade, che abbiamo visto ieri, che vi racconto dell’Africa, di Londra, dell’America Latina o degli Stati Uniti. Potrei andare avanti a lungo a raccontare fatti che documentano la contemporaneità di Cristo fra noi, questo avvenimento che non ha limite, che aspetta soltanto di trovare una umanità in grado di stupirsi. Davanti a quello che accade, occorre infatti una ferita aperta. Solo attraverso essa la grazia può entrare: la grazia che accade, perché la grazia ha acquistato un volto nell’incontro, ha acquistato una faccia, non è qualcosa di “spirituale”, ma l’evento che è capitato attraverso qualcosa di reale.

Avete detto: «È avvenuto un cambiamento dell’io, uno sguardo nuovo su tutto»; «ho cambiato lo sguardo con cui guardavo mio fratello». Si vede che l’avvenimento accade dal fatto che ci riapre di nuovo al Mistero, ci educa al senso religioso, ci fa respirare, fa saltare la griglia. Noi possiamo vivere il movimento cercando di metterlo nella griglia («Adesso dico io quello che occorre») o possiamo lasciarci trascinare dall’avvenimento in atto. Il rischio di dire: «Ho capito» e di mettere l’etichetta sopra quello che accade, di farlo rientrare nella griglia, è sempre in agguato. Se il cristianesimo non trova un io che si lascia travolgere, non può dimostrare tutta la sua capacità di cambiarci e di rigenerare la nostra speranza, così che sia possibile respirare a pieni polmoni e la strada diventi bella.
Come è possibile ciò? Se ciascuno di noi si lascia prendere, se la nostra libertà si lascia interpellare. Niente è automatico. «Occorre lasciarsi prendere dal Mistero come accade», diceva una di voi - e questo dipende da un giudizio - e aggiungeva: «La grande questione è non cambiare il metodo». Che cosa significa non cambiare il metodo? «Andare dietro a quello che accade», seguire la grazia che accade, che è per te ed è per me. Tutta la questione del percorso di questi anni sta qui: se ci siamo lasciati travolgere da quello che accadeva. Tutta la differenza è tra chi si è lasciato colpire da quello che stava accadendo, qualsiasi fosse il momento della strada, e chi ha resistito o resiste, si sottrae, cerca di mettere nella griglia quello che accade. Ma il cristianesimo non entra nella griglia: «A vino nuovo otri nuovi», è impossibile metterlo dentro i nostri schemi, è un tentativo inutile. Se uno si imbatte nell’avvenimento della Sua presenza e si lascia colpire, cambia, è reso a sua volta avvenimento, e non può più essere messo nella griglia. C’è sempre più gente tra di noi che non può più essere messa nella griglia. Il cristianesimo è un avvenimento a cui possiamo resistere, ma che non possiamo controllare: è imprevedibile, irriducibile. Quando il cristianesimo accade uno si riempie di ragioni, perché fa esperienza della risposta alla sua urgenza umana. Solo il Mistero diventato una presenza familiare e storica, infatti, può veramente rispondere alla nostra umanità. Senza questa presenza nessuno potrebbe rimanere a lungo se stesso, senza vedere scomporsi il proprio volto umano. «Solo il divino può “salvare” l’uomo, cioè le dimensioni vere ed essenziali dell’umana figura e del suo destino» (L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2001, p. 104). Come il divino ci educa a questo? Attraverso una presenza storica. Non stiamo parlando di nostre “visioni”, stiamo parlando di presenze storiche (di cui sono testimone, per tutto quello che vedo in giro) attraverso cui accade la Sua presenza. E non occorre prima sistemare l’uomo, metterlo a posto, per poi entrare in rapporto con la Sua presenza, perché l’uomo non può essere veramente messo a posto senza che accada l’avvenimento cristiano.
È qui che Cristo dimostra chi è veramente. Solo il divino può salvare le dimensioni essenziali dell’uomo. Il segno più persuasivo che Cristo è Dio, il miracolo più grande, è dunque quello sguardo che ricomponeva tutto l’io. L’unica questione è se c’è questo sguardo, se questo sguardo rimane nella storia - nel modo di trattare l’umano, di guardare al fratello, di guardare ai ragazzi, di guardare a noi stessi -, se il nostro umano è raggiunto e abbracciato da esso. Il segno della contemporaneità alla nostra vita di quello sguardo è l’accadere in noi di quello che accadeva nei primi che lo hanno incontrato: la loro vita, abbracciata, si ridestava in quel momento in tutta la sua profondità originale, nella sua originale apertura, vale a dire in tutto il suo senso religioso, in tutta la sua misteriosità. Che quello sguardo ci raggiunge ora lo si vede dal fatto che rinasce una affezione a noi stessi che sarebbe impossibile. Perché «non si può rimanere nell’amore a se stessi senza che Cristo sia una presenza come è una presenza una madre per il bambino... Senza che Cristo sia presente ora - ora! -, io non posso amarmi ora e non posso amare te ora» (L. Giussani, Qui e ora. 1984-1985, Bur, Milano 2009, p. 77). Questo è allora il segno più potente della autenticità del carisma: uno sguardo come quello che noi abbiamo rintracciato in don Giussani è il segno del divino, il segno della contemporaneità di Cristo, in quanto ha reso possibile una affezione a se stessi altrimenti impossibile.

È soltanto perché Cristo ridesta tutto il mio umano che io posso riconoscere la Sua presenza. Possiamo allora rovesciare la frase di Dostoevskij: il problema non è se un uomo colto del nostro tempo può credere alla divinità di Gesù Cristo, ma che senza un uomo colto, cioè senza un uomo che usi tutta la sua ragione e tutta la sua capacità di libertà non vi può essere una fede reale, non si può affermare ragionevolmente Cristo, tranne che come aggiunta alla griglia, come cappello posto sopra un io già perfettamente costituito. Per credere veramente in Gesù Cristo, per ammettere che è possibile una novità di questo calibro, occorre tutta la libertà e tutta la ragione, occorre un uomo colto nel senso detto. Altrimenti non si può credere con pienezza di umanità.
Ecco allora la sfida che abbiamo tutti davanti: sono disponibile alla grazia con cui Cristo chiama la mia vita oggi, allo sguardo con cui Cristo abbraccia la mia vita oggi? È solo in questa disponibilità che si può generare. Come veniva ricordato ieri, solo chi si lascia generare genera, cioè solo chi riconosce il bisogno di un luogo dove essere costantemente generato, chi ha questa povertà, genera. La vera decisione - entro così nel nuovo passo della Scuola di comunità sulla carità - è se io mi lascio abbracciare oggi. Tutta la drammaticità del vivere consiste nel resistere o nel lasciarmi prendere dall’abbraccio di Cristo oggi. La prima carità non è quella che facciamo noi. Noi non siamo in grado di dare noi stessi gratuitamente, se non perché siamo travolti, siamo disponibili ad accettare la carità del Mistero verso di noi, la carità di Cristo per noi, che arriva in tanti modi. Diceva uno di voi ieri, parlando della moglie: «Tu sei la carità di Cristo per me», o padre Aldo, citato: «La mia opera è tutta la mia vita che nasce da Uno che mi ha amato senza tornaconto». La vera decisione, l’unica decisione - tutto il resto sono conseguenze - è se io sono disponibile a lasciarmi abbracciare dalla modalità con cui Cristo mi abbraccia oggi.

È semplice la vita, se c’è in noi questa semplicità. Dobbiamo mendicare costantemente di avere questa semplicità per lasciarci generare da Cristo, perché quello che posso generare è soltanto quello che trabocca di quello che ricevo. Mi auguro che la nuova Scuola di comunità ci introduca a capire fino in fondo qual è l’origine di tutto il percorso della fede. Cristo ha stupito i primi due perché il cuore della sua presenza è la carità. L’intimità ultima della Presenza riconosciuta dalla fede è la carità. Anche soltanto come intuizione, avevano percepito quella Presenza buona, piena di passione per la loro vita. La carità è l’intimità della Presenza riconosciuta dalla fede. Senza la precedenza unica dell’amore di Cristo verso ciascuno di noi non c’è cristianesimo. Non solo all’inizio, ma in ogni passo del cammino c’è qualcosa che viene prima di qualsiasi nostra mossa: ci precede. La vita cambia, si compie, solo se si è disponibili a questo «qualcosa che viene prima», che è generato da Lui, che non siamo noi, che è Lui e che ha la pretesa di essere con noi tutto il tempo, fino alla fine del mondo. È Lui che costantemente lo genera e che ci viene incontro. L’unica nostra questione è: ma io ci sono? «Mi ami tu?».