In cammino

Parola tra noi
Luigi Giussani

Appunti di una conversazione di Luigi Giussani con un gruppo di universitari
La Thuile, agosto 1992


Vorrei anzitutto riandare alle scoperte o alle insistenze più suggestive e alle parole più significative di tutta la vita intellettuale e affettiva dell'anno trascorso, in vista della novità della strada che dovremo affrontare. Nello sguardo all'anno passato è infatti già implicato il suggerimento di un nuovo balzo in avanti della nostra coscienza (bisogna che la nostra coscienza viva, altrimenti il sentimento stesso del nostro io svanisce).

1. La coscienza dell'io impedita
Il supremo ostacolo al cammino nostro di uomini è la "trascuratezza" dell'io. Il primo punto, allora, di un cammino umano è il contrario di questa trascuratezza, è cioè l'interesse per il proprio io, per la propria persona. Un interesse che sembrerebbe ovvio, mentre non lo è per nulla: basta guardare al nostro quotidiano comportamento per vedere quali immani squarci di vuoto della coscienza e di sperdutezza della memoria lo qualificano.
Il primo nostro interesse è dunque lo stesso nostro soggetto. Il primo nostro interesse è che il soggetto umano sia costituito, e quindi che il mio soggetto umano sia costituito - che io capisca che cos'è e ne abbia coscienza. Esso è infatti ciò che sta alla radice della totalità delle mie azioni. Il muoversi di un soggetto (ogni "tendere-a") si chiama azione; l'azione è la dinamica di rapporto con qualsiasi persona e cosa. Se so che cos'è il mio soggetto, allora tutti i rapporti sono consapevolmente governabili, dominabili, determinabili da me: sono "miei". Non trascurare il proprio io significa poter dire "mio" con serietà - mia è questa preferenza, mio è quest'uomo, mia è questa donna, mio è questo bambino nato da mia moglie, mie sono le stelle.
Per poter dire mio con serietà bisogna esser limpidi nella percezione del proprio io. Per questo la prima preoccupazione che abbiamo sempre avuto, come caratteristica fondamentale di tutte le nostre indagini e riflessioni, è diventare coscienti dell'influsso decisivo, determinante, che ha su di noi quello che sinteticamente il Vangelo chiama "il mondo", e che si presenta come il nemico di ciò che è dignitoso per un io, del formarsi stabile e consistente di una personalità umana. Se qualcuno ci schiaccia distrattamente un alluce ne abbiamo subito un risentimento, e ci ergiamo in uno sguardo minaccioso; se invece ci schiacciano la personalità, in modo tale che essa ne risulta letteralmente soppressa, o così intimidita da rimanere incapace di agire e inebetita, questo lo subiamo "tranquillamente" tutti i giorni. È per la consapevolezza di questo che, ogni qualvolta ci mettiamo a ragionare su qualcosa, vogliamo scoprire in che modo siamo influenzati e ingombrati da un a-priori o da un preconcetto derivati dalla pressione che "il mondo" - ciò che ci circonda -, attraverso i mass media e altri strumenti (come la scuola, la politica, ecc.), esercita su di noi.
Dietro la sempre più fragile maschera della parola "io" c'è oggi una grande confusione. Soltanto l'involucro di questa parola ha una certa consistenza. Ma non appena essa si pronuncia, il tragitto di quel suono, "io", è tutto e solo pieno di dimenticanza - dimenticanza dunque di quello che più vive e vale in noi -. La concezione e il sentimento dell'io sono tragicamente confusi nella nostra civiltà. L'evoluzione di una società è tanto più definibile come "civile" quanto più porta a galla e chiarisce il valore del singolo io, della persona - non essendovi umanità se non nell'io concreto, nella persona singola.
Nella nostra età barbarica è "favorita" una grande confusione quanto al contenuto della parola "io". L'io è declassato a puro termine indicativo: come si dice bicchiere o bottiglia, così si dice io (bisogna ben usare qualche parola per intendersi!). La conseguenza inevitabile e imponentemente tragica di questa confusione introdotta, nella quale si dissolve la realtà dell'io, è il dissolvimento della parola "tu". L'uomo di oggi non sa dire coscientemente "tu" a nessuno: è l'inesorabile contraccolpo della mancanza di un soggetto, di un io. L'io è come qualcosa di fluttuante, di ondeggiante nell'«aer perso» di cui parla Dante, in un'atmosfera sombre, cupa, oscura, dove dominano confusione e contraddizione. Nessuna disumanità è più grande che far scomparire l'io: è precisamente questa la disumanità del nostro tempo.
McIntyre, in un suo libro, descrive tale situazione in termini che ci confortano a riesprimere giudizi così gravi: «Gli ostacoli sociali - osserva - derivano oggi dal fatto che la modernità suddivide ciascuna vita umana in una molteplicità di segmenti». La cultura della società di oggi produce un'immagine e un sentimento dell'io come aggregato di segmenti o frammenti. Ogni segmento, ogni frammento - il rapporto affettivo, il lavoro, la religione, il riposo, il divertimento, ecc. - ha la sua legge, ha una dinamica stabilmente fissata e ineludibile (ci sono delle leggi per giocare al football e ci sono altre leggi per il rapporto tra un uomo e una donna, o per affermarsi nel proprio lavoro, e via dicendo). Tutti i segmenti sono governati da una loro legge: perciò è come se la realtà rimanesse tutta terremotata. «L'esito di un simile comportamento culturale e psicologico è quello di azzerare ogni costruzione in frammenti», dispersi per terra e l'uno contro l'altro in lotta. Come dopo un violento terremoto, non esiste più la casa e non esiste più il paese: esistono mucchi di sassi, brani di mura, la «gran ruina» di cui ancora parla Dante.

2. Un avvenimento
È un avvenimento la positiva risposta alla drammatica dispersione in cui la società ci fa vivere. È solo un avvenimento - diciamo per ora, senza ulteriori qualificazioni - che può rendere chiaro e consistente l'io nei suoi fattori costitutivi. È questo un paradosso che nessuna filosofia e nessuna teoria - sociologica o politica - riesce a tollerare: che sia un avvenimento, non una analisi, non una registrazione di sentimenti, il catalizzatore che permette ai fattori del nostro io di venire a galla con chiarezza e di comporsi ai nostri occhi, davanti alla nostra coscienza, con limpidità ferma, duratura, stabile.
Un avvenimento è ciò che rende l'io soggetto adeguato di un'azione che "porti" il mondo. Non per nulla le azioni dell'uomo si chiamano «gesti». La parola «gesto» indica il rapporto con la realtà in quanto afferma, porta (gerit) un significato (di un animale non si può dire pertanto che compia gesti). La libertà, la non-schiavitù, e perciò la dignità nel tessere un rapporto con la realtà, ci viene dalla chiarezza sui fattori del nostro io (l'io è il soggetto segreto di ogni azione, di ogni tendenza ad afferrare, ad affermarsi, a realizzarsi). E questa chiarezza non può venire da una nostra riflessione, ma solo da un avvenimento: è un avvenimento che porta questa chiarezza.
Diceva Péguy in Notre jeunesse: «Quello che c'è di più imprevisto è sempre l'avvenimento». Un avvenimento cioè è "qualcosa" che improvvisamente s'introduce: non-prevedibile, non-previsto, non-conseguenza di fattori antecedenti. La parola più accostabile ad "avvenimento" è infatti «caso»; la parola «caso» definisce qualcosa la cui presenza non si spiega ai nostri occhi che la guardano. Un avvenimento è allora, possiamo dire, qualcosa di puramente e ultimamente casuale per la nostra ragione, per le nostre capacità. Anzi, per la nostra capacità di indagine e di presa, un avvenimento è tale proprio in quanto è inafferrabile, ha qualcosa che sfugge.
Un avvenimento ha la caratteristica di essere imprevedibile e imprevisto (è imprevisto in quanto, per sua natura, imprevedibile). Ciò che ha il potere di chiarirmi a me stesso è perciò qualcosa che penetra nell'orizzonte e nell'atmosfera della mia esistenza come un meteorite strano, estraneo, senza che io lo possa prevedere e quindi, ultimamente, capire, poiché l'imprevedibile non è nemmeno comprensibile.
È un incomprensibile, un imprevedibile, che fa dunque scattare - come un fiammifero che s'accende - la luce sulla verità di noi stessi. È per l'intrusione di questa "cosa" irrazionale - non afferrabile dalla nostra ragione, non dominabile dalla nostra misura, che supera e spacca tutte le nostre misure, non riconducibile, sia pure con qualsiasi scaltrezza, ai nostri pensieri - ed estranea, che nelle tenebre della nostra esistenza inizia a introdursi una luce sulla verità di noi stessi e nella confusione prende a stabilirsi un ordine. E di qui cominciano a nascere un'attrattiva e un'affezione verso di sé, una tenerezza e una compassione possibili verso gli altri, una serietà riguardo ai programmi dell'oggi e, soprattutto, del domani.
Ma insistiamo. Dice il critico francese Finkielkraut nel suo libro su Péguy, commentando la frase da noi prima citata: «Un avvenimento è qualcosa che irrompe dall'esterno. Un qualcosa di imprevisto. È questo il metodo supremo della conoscenza [conoscere è trovarsi di fronte a un nuovo, a qualcosa di estraneo a sé, di non costruito da sé]. Bisogna ridare all'avvenimento la sua dimensione ontologica di nuovo inizio. È una irruzione del nuovo, che rompe gli ingranaggi [delle cose già stabilite, delle definizioni già date], che mette in moto un processo».
La parola avvenimento è dunque capitale per ogni tipo di conoscenza. Me ne andavo, molti anni fa, su un sentiero che da un paese della Val Gardena sale sul monte Pana, vicino al Sasso Lungo. C'era davanti a me un giovane che continuava a guardar per terra e a raccogliere un sasso qui, un sasso là. Dopo poco capii: raccoglieva fossili, quella zona infatti ne era molto ricca, come tutte le Dolomiti. Ecco, quando quel giovane s'imbatteva in un sasso con la sagoma accennata di un fossile, faceva una "scoperta": un avvenimento entrava nella sua vita e gli faceva conoscere qualcosa di più.
Così è per la conoscenza del proprio io. È un avvenimento - «una irruzione del nuovo» - che mette in moto il processo per cui l'io incomincia a prendere coscienza di sé, ad aver tenerezza verso se stesso, a prender nota del destino a cui sta andando, del cammino che sta facendo, dei diritti che ha, dei doveri che deve rispettare, della sua fisionomia intera. È un avvenimento che dà inizio al processo per cui un uomo incomincia a dire io con dignità. E se un altro lo trattasse senza rispettare tale dignità, se volesse in qualche modo schiacciarlo, tenerlo schiavo, usarlo come "cosa" sua, egli insorgerebbe, poiché sentirebbe tutto ciò come la peggiore violenza.
Dobbiamo compiere il passo ulteriore. Riguardiamo brevemente il percorso fatto. Mi sono soffermato sulla confusione che, favorita dal potere, domina nella nostra società a riguardo della coscienza dell'io (andate su un tramvai carico di gente: nessuno, statisticamente parlando, ha la coscienza del proprio io; se fate loro una domanda al riguardo restano così inebetiti, o scandalizzati, da "ridervi dietro"). È l'ultima cosa cui un uomo immagina di dover e di poter pensare. Ma è un avvenimento, abbiamo detto, a far sì che questo io confuso e contraddittorio, ondeggiante nell'aria, sia chiarito e reso cosciente di sé. Perché è solo un avvenimento che può mettere in moto il processo attraverso cui l'io arriva alla coscienza o conoscenza di sé. La categoria di "avvenimento" è dunque capitale tanto per la conoscenza dell'io come per ogni tipo di conoscenza.
Ma ora ci interessa soprattutto la parola «avvenimento» come unica categoria che possa definire che cos'è il cristianesimo (il cristianesimo si riduce totalmente a questa categoria): il cristianesimo è un avvenimento.
È l'avvenimento cristiano infatti il catalizzatore adeguato della conoscenza dell'io, ciò che rende possibile una chiara e stabile percezione dell'io, che permette all'io di diventare operativo come io. Al di fuori dell'avvenimento cristiano non si può capire che cos'è l'io. E l'avvenimento cristiano è - secondo quanto è già emerso a riguardo dell'avvenimento come tale - qualcosa di nuovo, di estraneo, che viene dal di fuori, perciò qualcosa di non pensabile, di non supponibile, di non riconducibile a una ricostruzione nostra, che fa irruzione nella vita.
«Non aveva bisogno di noi. E anche Gesù non doveva che starsene ben tranquillo in cielo - dice Péguy, in Clio - prima della Incarnazione, prima della Redenzione. È venuto. È venuto perché l'uomo è venuto. Quanto bisogna che questo io umano sia grande, amico mio, per aver spostato tanto mondo, disturbato tanto mondo, così gran mondo, il mondo dell'infinito. Un Dio, amico mio, Dio si è disturbato! Dio si è sacrificato per me». Dio è diventato avvenimento nella nostra esistenza quotidiana: questo è il cristianesimo.
«Di fronte alla scristianizzazione del mondo moderno, Péguy non si pone il problema di un ammodernamento del linguaggio e tanto meno dei contenuti della fede cattolica. L'unica risposta possibile da parte dell'uomo alla scristianizzazione è il desiderio che il cristianesimo riaccada come avvenimento. Un avvenimento dentro al reale così come ci sfida tutti i giorni» (Il Sabato, Editoriale del 20 giugno 1992). Noi non abbiamo mai parlato di cristianesimo se non come avvenimento: non se ne può parlare che come avvenimento.

3. Lo stupore e le regole
«Il vero dramma della Chiesa che ama definirsi moderna [il vero dramma dei cristiani che vogliono essere moderni] è il tentativo di correggere lo stupore dell'evento di Cristo con delle regole». È una mirabile frase di Giovanni Paolo I (sarebbe stato provvidenziale quel suo mese di pontificato, anche solo per questa osservazione, di cui non si trova altrove l'equivalente). Cristo è un evento, un avvenimento, un fatto, che innanzitutto riempie di stupore.
L'irruzione di qualcosa di imprevedibile e di imprevisto - un avvenimento, un «evento» - desta innanzitutto stupore. E lo stupore è l'inizio di una reverentia, di un rispetto, di un'attenzione umile. Come in un bambino posto di fronte a una situazione nuova: in lui istintivamente si desta un senso di stupore e di rispetto umile e un po' timoroso. Chi si sottrae allo stupore dell'avvenimento, e all'attenzione, alla venerazione, alla curiosità rispettosa e umile che l'avvenimento istintivamente suscita, diventa schiavo di regole. Chi tenta di sottrarsi all'avvenimento si fa inevitabilmente schiavo di regole.
Questo spiega molto bene la caratteristica del soggetto umano creato dalla mentalità moderna: grumo di segmenti, di particelle e di brandelli, come dicevamo. Ognuno di questi brandelli sussiste e procede perché segue delle regole: le regole dell'ufficio, della famiglia, le regole anche dell'andare in chiesa o in parrocchia. Quando ci si sottrae allo stupore, alla luce e al calore che l'avvenimento di Cristo accende, e in cui soltanto emerge la faccia o l'unità dell'io nei suoi vari aspetti (per cui essi arricchiscono l'unità e non la deprimono in divisione rappattumata), non si può evitare di assoggettare la propria vita, segmentata, alla schiavitù di regole.
Questa osservazione ci richiama a Cristo che ha dato la vita per salvare l'uomo dalle regole dei farisei, dal fariseismo. Da quando Cristo è venuto, nei due millenni cristiani nessuna epoca è stata più farisaica della nostra, non c'è mai stato un farisaismo così determinante tutta la società: è il farisaismo in cui il puritanesimo, il calvinismo puritano, sempre scade; ed essendo oggi "al governo" nello Stato economicamente più potente, influisce anche culturalmente su tutto il mondo.
O prendiamo in considerazione con serietà l'avvenimento cui ho accennato, e questo ci libera, o scegliamo di esser schiavi di regole. Anziché regole possiamo dire convenienze sociali; e in un certo ceto possono invalere determinate convenienze, mentre in un diverso ceto sociale ne invalgono altre (così, per esempio, se le orge sono fatte dal popolo sono cose riprovevoli, se sono fatte da chi domina il popolo e dai ricchi, allora vanno benissimo).
Bisognerebbe fermarsi a lungo di fronte alla frase citata di Giovanni Paolo I, perché non è reperibile altrove un giudizio così acuto, che giunga così alla radice del danno dell'uomo di oggi, schiavo di regole. Schiavo, cioè senza più personalità (non esiste più l'io). Come al tempo degli antichi e pur civilissimi Romani (civilissimi almeno per il diritto che hanno creato, che, mi pare, può essere considerato il più evoluto quantomeno nella storia dell'Occidente). Nei loro testi di diritto è sancita la differenza tra liberi e schiavi. Gaio, che di essi è uno tra gli autori più in vista, diceva che solo il civis romanus era l'uomo vero, che viveva cioè la pienezza dei suoi diritti. Gli altri non avevano pari diritti, erano schiavi (la libertà era propria del civis romanus, non degli altri). Anche coloro che si trovavano in posizione intermedia, i liberti, non riuscivano a raggiungere la totale libertà di cui godeva il civis romanus. Solo il civis romanus aveva il diritto a possedere: poteva possedere "cose" che non si muovono e non parlano (gli oggetti); oppure "cose" che si muovono e non parlano (gli animali); ma aveva anche diritto a possedere "cose" che si muovono e parlano: gli schiavi.
È la parola "cosa" - questo è il punto - il denominatore comune di tutt'e tre le categorie. Senza che quell'avvenimento intervenga e catalizzi la forza e la verità del nostro io, senza che quell'avvenimento venga preso in considerazione, noi - noi ora - viviamo, veniamo guardati e trattati da chi ha il potere (di qualunque potere si tratti) con lo stesso criterio con cui Gaio descriveva la triplice categoria di ciò che rientrava nel diritto al possesso del civis romanus, cioè come "cose". Un uomo può aver potere anche soltanto in una sala da ballo, ma tratterà chi, come suol dirsi, "sta sotto" di lui, col criterio descritto da Gaio. E, ultimamente, si possono sorprendere gli esiti di questa riduzione ad animale o a "cosa" anche nel rapporto di una madre col proprio figlio: se quell'avvenimento non incide su di lei e non significa niente per lei, una madre tende a possedere suo figlio. Ognuno, se quell'avvenimento non penetra nella sua vita, nell'ambito in cui esercita un potere rende schiavi gli altri. O, nella misura in cui non ha potere, è reso schiavo.
L'avvenimento cristiano, penetrando nel nostro orizzonte, fa affiorare e accende tutta la drammaticità della nostra esistenza. Non si può dire "io" infatti senza "pagare" qualcosa, senza che un'esigenza strana che ci destina a una fatica venga indicata, senza che una sofferenza venga introdotta, e senza che un desiderio di felicità e di gioia, normalmente soffocato nella distrazione, prenda corpo. Questo avvenimento porta stabilmente nella nostra vita una drammaticità che altrimenti non vi sarebbe. Facilmente perciò chi pure si è accorto di questo avvenimento, sceglie di dimenticarsene, poiché esso inquieta, disturba, e preferisce abbandonarsi alla confusione od oscillare nell'«aer perso» come una foglia staccata dall'albero (secondo l'immagine della poesia di Arnauld).

4. Un incontro umano
Qual è la forma caratteristica dell'avvenimento cristiano? L'avvenimento cristiano ha la forma di un incontro: un incontro umano nella realtà banale di tutti i giorni. Un incontro umano per cui Colui che si chiama Gesù, quell'uomo nato a Betlemme in un preciso momento del tempo, si rivela significativo per il cuore della nostra vita. Oltre il volto di Gesù l'avvenimento cristiano ha la fattispecie di facce umane, di compagni, di gente come me e te. Così come, nei villaggi della Palestina dove non poteva arrivare, Gesù acquistava il volto dei due discepoli che mandava, arrivava sotto il volto di quei due che si era scelti. Ed era tale e quale: «Maestro, quello che Tu fai accadere l'abbiamo fatto accadere anche noi». Identico. «Il Regno di Dio è vicino. Il Regno di Dio è tra voi».
L'avvenimento cristiano è un incontro umano per cui Gesù Cristo si rivela significativo per il cuore della vita e svela l'io. In questo incontro soltanto è dato "cuore stabile" alla nostra vita: la conoscenza dell'io, la chiarezza nella percezione dell'io, la possibilità che l'io divenga principio vero di azione, possiamo ricondurle al termine "cuore". Sui rostri di Sant'Ambrogio l'ultimo grande retore romano, Gaio Mario Vittorino, ha dato l'annuncio della sua conversione al cristianesimo iniziando la sua più famosa orazione con queste parole: «Quando ho incontrato Cristo mi sono scoperto uomo». E Vittorino apparteneva a una società e a una cultura in cui schiavitù e libertà erano categorie in azione aperta (mentre oggi sono in azione coperta, oscurata, che bisogna sorprendere, pena il subirla senza avvedersene).
L'avvenimento cristiano è un incontro con una realtà umana che veicola l'evidenza di una corrispondenza del divino - che si è curvato ed è entrato nella nostra vita - a quello che siamo. Quest'incontro mi apre gli occhi su me stesso, suscita un disvelamento di me, si dimostra corrispondente a quello che sono: mi fa accorgere di quel che sono, di quel che voglio, perché mi fa capire che quel che porta è proprio quel che voglio, corrisponde a quel che sono. Come se dicesse: «Guarda che cosa sei, e poi dimmi se io non ti corrispondo: è solo perché non ti conosci che puoi credere che io non ti corrisponda, e preferire altro come significato del tuo io».
In una sequenza del suo film Andrej Rublëv, Tarkovskij fa dire a un personaggio: «Tu lo sai bene: non ti riesce qualcosa, sei stanco, e non ce la fai più. E d'un tratto incontri nella folla lo sguardo di qualcuno - uno sguardo umano -, ed è come se ti fossi accostato a un divino nascosto. E tutto diventa improvvisamente più semplice». L'avvenimento cristiano si palesa, si rivela, nell'incontro con la leggerezza, la sottigliezza e l'apparente inconsistenza di un volto che si intravede nella folla: un volto come gli altri, eppure così diverso dagli altri che, incontrandolo, è come se tutto si semplificasse. Lo vedi per un istante, e andando via porti dentro di te il colpo di quello sguardo, come dicendo: «Mi piacerebbe rivederla quella faccia!». È la descrizione migliore del "perché" ci siamo mossi verso questa compagnia e ci siamo trovati in essa. Noi siamo qui per un incontro fatto (messaggio e annuncio cristiano possono diventare dunque sinonimi della parola "incontro", dell'avvenimento cristiano come incontro). Dall'istante di quell'incontro il cristianesimo non ha più avuto lo stesso significato di prima: qualcosa d'Altro si è svelato come importante per il cuore della vita. Quel momento ci ha fatto intuire che questo Altro riguardava la vita: era una forma finalmente persuasiva, ragionevole, perseguibile, finalmente forse amabile, di qualcosa che ci era stato detto prima, ma che era arido, pietra, senza possibilità di comprensione, estraneo a noi.
«Devi vivere per un altro, se vuoi vivere per te stesso», diceva il filosofo romano Seneca. Se vuoi vivere per te stesso, se vuoi scoprire la consistenza e la dignità di te, devi percepirti attraverso la presenza di un altro, devi vivere per un altro. Ma chi è quest'altro per cui puoi vivere? O lo scegli tu - e allora scegli ancora te stesso, un tuo criterio e non un altro -, oppure ti si impone, e allora sei schiavo, sei un captivus. In un solo caso la frase di Seneca è vera, degna dell'umana libertà: se questo altro è ontologicamente tramite al tuo destino. Puoi vivere per te stesso vivendo per un altro solo se questo altro ti raccorda col tuo destino. Allora, se vivi per questo altro, raggiungi il tuo destino, e se non vivi per questo altro, ti disfi, ti sfai, distruggi te stesso.
Normalmente siamo obbligati a vivere per un altro che ci si impone, vale a dire per il potere (il potere madre-padre, il potere sposo-sposa, il potere ragazzo-ragazza, il potere dell'insegnante, il potere della polizia, il potere dei grandi potentati economici, il Potere). Il potere, questo è il nemico degli occhi e del cuore, e della bocca che esprime in parole il cuore. Non c'è alternativa: o l'altro lo scegliamo noi, e allora scegliamo ancora noi stessi - e affonderemo nel baratro della nostra inconsistenza - o ci si impone, e allora siamo schiavi del potere; oppure, e questo è giusto, viviamo per un altro che è ontologicamente - per la natura del suo essere - tramite, cioè strada, al nostro destino. E Uno solo ha detto: «Io sono la via», e non: «Io vi indico la via».

5. In un preciso momento
L'avvenimento cristiano come incontro - da cui si sprigiona una dinamica di conoscenza e di affezione che dà corpo e unità all'io - accade in un preciso istante della vita. L'incontro si riconduce sempre ad un momento puntuale.
Non vi è altro momento della nostra esistenza che abbia lo stesso valore, al punto che perdere quel momento può equivalere a perdere se stessi. E poiché lo si può perdere subito dopo, è solo riprendendolo che si ritrova un cammino sicuro. Se anche uno andasse in monastero a fare il monaco, è in forza della memoria di quel preciso momento che può continuare a camminare. Von Balthasar lo dice molto intensamente in un suo scritto. Quando, nel '61, è invitato a parlare della sua vocazione (la vocazione è la vita che diventa cosciente di sé, poiché diventa cosciente del suo destino e del compito che deve realizzare per arrivare al suo destino) racconta con precisione l'istante in cui percepì la sua chiamata. Avvenne durante un ritiro ignaziano, nell'estate del '27: «Anche adesso, trent'anni dopo - dice Von Balthasar -, potrei ritornare su quel sentiero della Foresta Nera, non molto lontano da Basilea, e ritrovare l'albero sotto il quale fui colpito come da un fulmine. E ciò che allora mi venne in mente di colpo non fu né la teologia, né il sacerdozio. Fu semplicemente questo: «Tu non devi scegliere nulla; tu sei stato chiamato. Tu non dovrai servire. Tu sarai preso a servizio. Ti sarà dato [la vocazione, come compito da svolgere, la dà Iddio, non la scegliamo noi], non devi fare piani di sorta, sei solo una pietruzza in un mosaico preparato da tanto tempo». Tutto ciò che dovevo fare era solo lasciare ogni cosa e seguire, senza fare piani, senza il desiderio di particolari intuizioni. Dovevo solo star lì, per vedere a cosa sarei servito».
Questo brano vale letteralmente per ognuno di noi, nella misura in cui ognuno di noi ha preso parte all'avvenimento cristiano in un momento d'incontro: il momento d'incontro è quello in cui Cristo, o il fatto cristiano, ci si è mostrato, come quel volto nella folla di cui parlava Tarkovskij. E se anche la percezione è stata momentanea, sottile, essa è inconfondibile: una corrispondenza a quello che siamo. L'incontro porta con sé il significato che il cuore della vita esige, come fonte di tenerezza verso se stessi e di amore verso gli altri, come ragionevolezza del tempo e dello spazio da attraversare, come appoggio per la vita e per la morte.
A ognuno di noi questo è stato dato: non dico a tutti gli uomini allo stesso modo, perché in questo è Iddio che fa i suoi piani, ma a noi che siamo qui sì. Quello che Von Balthasar dice di sé è vero per ognuno di noi, non solo per chi è chiamato a una particolare strada vocazionale. Il Battesimo ha segnato la strada vocazionale che ci accomuna. E a un preciso momento della nostra esistenza, in una determinata circostanza, in un certo incontro, il contenuto del Battesimo è come apparso nella sua grande pretesa così ragionevolmente fondata, dimostrata dalla persuasività che esercita - giustamente - una corrispondenza percepita col nostro cuore.

6. "Questa cara gioia sopra la quale ogni virtù si fonda"
«Questa cara gioia sopra la quale ogni virtù si fonda, onde ti venne?». Non può esservi moralità («virtù»), dignità, intensità e perfezione del vivere, se non a partire da una gioia. «Questa gioia onde ti venne?». Questa gioia viene da quel momento in cui l'avvenimento cristiano è entrato nei confini della nostra esistenza, abbiamo fatto cioè un incontro con una realtà umana per cui Cristo si è palesato significativo per la nostra vita, ossia per la ragione e per l'esigenza di affettività del cuore.
La moralità suprema - vale a dire un modo di vivere adeguato all'io, alla dignità di quell'essere creato che viene indicato con la parola «io» - è la fedeltà all'atteggiamento con cui il Creatore ci fa.
Come il Creatore ci fa? Come bambini. Il bambino si presenta con la faccia spalancata, aperta positivamente alla realtà (la curiosità è il fenomeno in cui innanzitutto, pur in modo arido, si documenta questa positività originale dello sguardo). L'uomo creato sta di fronte al mondo non solo aperto positivamente, ma attendendo il compimento. Il bambino, infatti, stupito di fronte alla realtà, è pieno di desiderio, attende il compimento, con letizia, «come preparandosi a una festa». Apertura positiva al reale e attesa del compimento perciò si identificano.
Come si può esser fedeli all'atteggiamento con cui siamo stati fatti? Come si può mantenere quella purità originale del volto, quello sguardo positivamente aperto alla realtà, attendendo il compimento con letizia, «come preparandosi a una festa» (la letizia è il sentimento originale dell'uomo che rimane fedele al gesto che l'ha creato)? Solo appoggiandosi all'avvenimento di Cristo nella fattispecie storica in cui ci ha toccato.
È per l'introdursi nella nostra vita dell'avvenimento cristiano che può accendersi e in vario modo fiorire la riscoperta dell'io nei suoi fattori e nel suo destino, e una corrispondenza favorevole alle esigenze più profonde dell'intelligenza e del cuore che si affermi fino a rendere la nostra persona soggetto di moralità - cioè di azione degna dell'Essere, di comportamento degno del rapporto col Mistero che l'ha fatta. E anche il male e l'incoerenza non squalificano più questa "linea", una volta instaurata. Come Dio non rinnega l'Alleanza che stabilisce con l'uomo, anche se l'uomo sbaglia e la rinnega, così c'è un nesso con Dio, che una volta scoperto non si può più rinnegare, anche se si tradisce mille volte al giorno. Quando si è vista una cosa, non si può più negare di averla vista, se non dicendo coscientemente una menzogna che ci sotterra come in una cassa da morto e ci soffoca.
Tutto questo inizia con l'avvenimento cristiano che irrompe nella nostra vita: un incontro con una realtà umana che porta con sé l'evidenza di una corrispondenza del divino che è entrato nella nostra storia - l'evidenza di una corrispondenza Sua - a quello che siamo.
L'avvenimento di Cristo che si palesa nell'incontro unisce ad altri, è l'inizio di un popolo nuovo; crea un ambiente nuovo, una compagnia: come una casa, una dimora nuova, dove le cose son tue, dove tutto è tuo, dove tutto è per te, dove tu sei totalmente libero. E questa compagnia apre alla realtà intera, di tutto tende a far interessare, rende meno estraneo il mondo con gli uomini che lo popolano. Questa compagnia scopre e ama la storia come dimora della unità attiva di un popolo, introduce la percezione della possibilità di una storia nuova.

7. L'inizio di un soggetto nuovo
L'avvenimento cristiano - come ogni avvenimento - è l'inizio di qualcosa che non c'è mai stato prima: è un'irruzione del nuovo che mette in moto un processo nuovo. L'irruzione del mistero di Dio fatto uomo nella nostra storia umana e personale dà inizio a un soggetto nuovo. Perciò, per quanto poca attenzione sincera, meravigliata, sorpresa, noi abbiamo fatto e facciamo all'incontro in cui questa grande presenza ci ha raggiunti, qualcosa di nuovo si è mosso in noi. Può rimanere magari sottile, "tubercolotico" e senza eccessiva vitalità per tanto tempo, però qualcosa si è mosso e non si ferma: se è richiamato, se siamo in compagnia, cioè dentro la modalità con cui qualcosa d'Altro entra nella nostra vita. Perché è una compagnia - fatta di coloro che Egli sceglie e che Lo riconoscono, la comunità dei credenti - la modalità con cui Cristo si rende presente alla nostra vita di uomini, l'ambito dove l'incontro col mistero di Dio fatto uomo accade. E al momento dell'incontro iniziale non si sa quello che accade, non si sa di quella grande presenza, non si sa che è l'incontro della vita. Ma con l'andar del tempo, se si rimane - in qualche modo - fedeli alla realtà esterna, al volto esteriore che ci ha messo in contatto con Cristo, in cui la presenza di Cristo ci ha toccati, ci ha mossi, ci ha provocati, allora tutto si chiarisce.
«Questa cara gioia, sopra la quale ogni virtù si fonda, onde ti venne?». Quella sicurezza strana, piena di letizia, su cui si fonda l'energia con cui un uomo attua se stesso («ogni virtù») e a partire da cui incomincia a svilupparsi un impegno con la vita, viene da quel momento in cui un avvenimento ci ha fatto incontrare qualcosa d'altro che si è rivelato corrispondente al nostro destino.
L'avvenimento cristiano è l'inizio di un nuovo modo di vivere questo mondo; mette in moto una concezione e una manipolazione nuova della realtà, che dà alla realtà una forma più umana - più vera -, così che la realtà e l'uomo diventano sempre più una cosa sola - fino a far dire a Jacopone da Todi in uno dei versi più belli della letteratura italiana: «Amore amore, omne cosa conclama», tutto grida insieme «amore», che è l'impeto che caratterizza l'essenza dell'uomo esistente, il moto del cuore umano.
Questo "lavoro" - si chiama lavoro l'applicazione dell'umana energia alla realtà - è creato e rilanciato nella sua esattezza e precisione dall'irruzione dell'avvenimento di Cristo nella nostra esistenza.
A questo "lavoro" ogni giorno noi siamo chiamati. «E noi che di notte vegliammo attenti alla fede del mondo, protesi al ritorno di Cristo or verso la luce guardiamo», dice un Inno delle Lodi. È come un paradigma. Nella notte in cui tutti affondano, nella notte d'incoscienza del mondo - «tenebra sopra l'abisso», dice Eliot parlando di un mondo in cui l'uomo, come coscienza, è spaccato, rotto, bloccato, disperso, dalla sua incapacità - noi vegliamo: ci è stata data una luce che illumina dall'intangibile profondità del cuore fin l'ultimo orizzonte degli occhi, contenuto di un'esperienza che si può fare, che siamo chiamati a fare, nella quale si riverberi la risurrezione finale.
Ogni giorno siamo chiamati a sperimentare quest'urto sottile e discreto di risurrezione: abbiamo uno spunto di luce, una volontà di conoscere, un impeto di bene gratuito, una passione per il destino degli uomini e delle cose - come proiezione dell'amore al proprio destino -, in cui lentamente, col tempo che passa, tutto viene abbracciato e coinvolto, fino a giungere al culmine di cui Gesù ci dà l'esempio. «Guardate il piccolo fiore del campo, l'uccello che cade, di cui il Padre sa. Anche i capelli del vostro capo sono numerati». «Ha un valore eterno - una ridondanza eterna - anche una parola detta per scherzo». Come sarebbe giusto che in noi fosse il più possibile vibrante e intensa l'arditezza o l'acume di questa coscienza di sé e delle cose che implica l'eterno!
Vorrei a questo riguardo raccontare un episodio che è rimasto tra i più significativi ricordi della mia vita. Alla fine di un anno scolastico andai a una cena con una ventina di miei scolari. Erano amici, ma con una certa prudenza, come un po' da lontano. Al termine della cena si misero a ballare. Seduto, li osservavo, dalla tavola ancora coperta di piatti, in quella bella danza, in quella spontaneità suggestiva, non ancora del tutto turbata, deturpata, d'una prima giovinezza. Dalla mia posizione vedevo quest'espressione viva e piena di speranza inconscia di umanità. A un certo punto fermai la danza: «Sapete - dissi - qual è la differenza tra voi e me? La differenza è che io godo del vostro ballare, come fossi parte del gioco, e vi lodo per la leggerezza e la precisione con cui ballate, e anche per il rispetto che avete gli uni verso gli altri; però in me c'è come un pensiero che dal fondo del cuore s'erige, con cui vi guardo abbracciandovi: è una tristezza, una tristezza buona e ultimamente piena di speranza, che voi non avete e non conoscete. È la tristezza dettata dal limite, dal limite perciò anche di quello che fate! Perché tra qualche ora sarete a casa e, distratti, confusi, assonnati, non proverete più nulla; anzi, normalmente dopo questi momenti - ricordo i miei tempi - si va a casa tristi. Non però della tristezza con cui io, ora, vi parlo. La mia tristezza è un giudizio, è un amore: è un giudizio sul limite delle cose e sull'apertura senza limite del destino, a cui anche questo ballo è, deve essere, un passo - anche questo ballo dev'essere un passo verso la conoscenza e l'amore al vostro destino, verso la bellezza che vi affascina e vi attira, la felicità da cui volete essere riempiti, la perfezione cui siete destinati -. Mentre la tristezza di quando sarete soli è come una mano - la mano del limite - che vi prende alla gola e da cui non sapete come liberarvi».
«Solo se l'avvenimento cristiano entra nella vostra esistenza potete avere una percezione stabile, intera e vera di voi stessi e di ciò che vi circonda, e vivere una positività che non ha bisogno di dimenticare nulla per affermarsi». Questo però non lo dissi loro che dopo qualche tempo; quell'occasione fu infatti l'inizio di un'amicizia che non solo è durata, ma ha dato anche grandi frutti. Eppure Cristo, l'avvenimento cristiano, era già entrato nella loro vita, perché li aveva afferrati nel Battesimo. Ma il Battesimo afferra il fondo dell'io - in termini filosofici si dice l'ontologia, la natura ultima del nostro essere -, là dove l'io non "sente", non può prendere con le mani, non può misurare con gli occhi. Questo mistero iniziale - il Battesimo - si rivela nel suo valore, diventa avvenimento mobilitante, quando l'incontro con una certa realtà umana entra a colpire la nostra intelligenza e affezione, a muovere e commuovere qualcosa che non si era mai mosso e commosso prima, e ci fa trovare, per questo "movimento" nuovo, quasi automaticamente insieme ad altri. E nel rapporto con essi si mantiene e si riproduce continuamente quell'inizio, diciamo "emotivo" (nel senso etimologico), cui nessuno che l'abbia sperimentato può sfuggire, poiché la verità è qualcosa che, quando appare, anche per un fuggevole istante, colpisce per sempre.
Negli anni di insegnamento al liceo, durante la lezione, tutti gli alunni, senza distinzioni, erano attenti. E io dicevo loro: «Vedete, mentre parlo, voi siete colpiti dalla verità di ciò che dico e senza che ve ne accorgiate siete lì con la bocca aperta a sentire. Se avete da contraddire, se avete qualche ragione contro (erano infatti tutti avversari accaniti), ditemela. E se non l'avete, perché non aderite a quel che vi dico?». La verità, come appare, colpisce per sempre. È soltanto quando la memoria dell'uomo - la grande facoltà attraverso cui tutto è abbracciato e approfondito - diventa "necrofora" che sembra di poter nascondere sotto palate di terra (le palate della distrazione) il vero che si è intuito nell'avvenimento di un incontro.

8. Il dono dello Spirito
Come mai può accadere quell'avvenimento? Come mai possiamo essere provocati dall'urto di quell'incontro - per cui la vita s'incomincia a illuminare, un baluginare sia pur crepuscolare s'insinua nel nostro orizzonte, e insorge un desiderio di capire di più ciò che ci si è fatto incontro, di esserne più profondamente investiti e di seguirlo? Come mai l'avvenimento accade? Poiché non c'è nessun precedente che lo possa far prevedere; ma accade. Se accade, ha una causa. Essa non si lascia tuttavia includere nell'elenco che nostre analisi di accadimenti antecedenti possono formulare: è qualcosa d'altro. Qual è dunque la causa dell'avvenimento, la causa per cui quell'avvenimento diventa un incontro con una presenza eccezionale, che poi riconosceremo coscientemente divina, cui poi diremo: «Tu, Cristo» - poi, non allora? Nel momento dell'incontro essa è infatti una realtà che semplicemente ci colpisce e ci muove per la sua diversità, perché chi da quell'avvenimento è già stato colpito, e partecipa dunque della sua comunicazione nel mondo, ha una faccia con degli aspetti diversi: ha criteri diversi, una emotività e una affettività diversa, un impeto di gratuità ignoto, una capacità di impegno strana («Chi te lo fa fare?» gli si direbbe guardandolo).
La causa di quell'avvenimento, di quell'incontro, e del movimento che suscita in noi, si chiama, nel linguaggio cristiano, Spirito Santo. Si dice Spirito l'energia con cui il mistero di Dio opera nel mondo che ha creato, lo plasma e lo piega, come un grande fiume, verso la sua foce - che è il mistero stesso di Dio. Questa energia viene nel mondo e lo penetra infinitamente di più da quando quell'Uomo cui lo Spirito stesso ha dato vita («... concepì per opera dello Spirito Santo») è morto ed è risorto.
Da quando quell'Uomo, che è Dio, è morto e risorto, questo Spirito è il Suo Spirito, è l'energia con cui Lui è destinato a prendere possesso definitivo di tutte le cose, come dice il Vangelo di san Giovanni, al capitolo XVII: «Tu, o Padre, mi hai dato nelle mani ogni carne - tutti gli uomini -, affinché abbiano la vita eterna». «Questa è la vita - vita eterna vuol dire infatti vita "vita" -, che conoscano Te, unico vero Dio, e Colui che hai mandato, Gesù Cristo».
Lo Spirito di Dio perciò è l'energia con cui Cristo penetra la storia, il tempo e lo spazio, afferrando ciò che il Padre gli dà nelle mani, secondo un disegno che a noi appare lento; ma per Lui, di fronte a cui mille anni sono come un giorno, tutto ha la brevità dell'istante (come per il centro di una circonferenza, che nello stesso istante ha presente tutti i punti; è sulla circonferenza che la fatica del cammino viene: nel punto centrale tutto è presente nello stesso tempo).
Per il suo carattere donativo e comunicativo di vita, di fede, di certezza, e quindi di stimolo a fare, di speranza, e di larghezza infinita di dedizione, o carità, sempre si dice «il dono dello Spirito Santo». Invece di «dono dello Spirito Santo», possiamo usare più brevemente - come la maggior parte delle volte avviene nel linguaggio di coloro che hanno fatto l'esperienza di quell'avvenimento e di quell'incontro - il termine «grazia», spettacolosamente significativo. Non esiste parola più bella di questa: «grazia», che implica una ricchezza senza fine, con una mobilità e una fantasia senza possibilità di limite, e dove tutto è per amore; per amore del destino dell'altro, così come per Cristo tutto fu per amore del destino degli uomini e delle cose al disegno del Padre, del Mistero. Il Mistero domina la parola «grazia» nella misura in cui essa investe la vita dell'uomo: «La grazia - dice Péguy - è ancora più misteriosa e più profonda della bellezza. La grazia è ancora più arbitraria, più libera, più sovrana, più perfettamente illogica [al di là della nostra logica, senza ragioni, irriducibile a ogni calcolo]; inquietante anche, come tutto ciò che è donato gratuitamente [ciò che è donato gratuitamente è inquietante, perché chiama a qualcosa cui non avevamo pensato, cui non penseremmo, cui soprattutto non vorremmo pensare]. Potenza della grazia. Potenza eterna del Sangue eterno, di un Sangue eterno, quello di Gesù Cristo».
Accenniamo brevemente ora allo scandirsi dell'opera dello Spirito, di questa energia che entra dentro di noi: una energia così reale che diventa sperimentabile. Ed è a partire dalla sua sperimentazione che essa si rivela e si dimostra nella sua certezza. Perché l'avvenimento di qualcosa d'Altro nella nostra vita diventa esperienza umana, secondo tutte le caratteristiche proprie di una esperienza umana, dominata da quell'apertura misteriosa all'estremo confine, da quel punto di fuga, che va oltre, incommensurabilmente. L'esperienza è l'avvenimento a livello umano; e l'uomo parte sempre da una esperienza.

9. La valorizzazione dell'inizio
L'urto dello Spirito incomincia con l'incontro, nel cuore di quell'avvenimento che ci ha iniziato a muovere, sia pur con tutta la nostra fragilità e incoerenza - così che l'abbiamo dimenticato subito dopo, e poi l'abbiamo nuovamente ripreso (perché Iddio non entra mai in una vita se non per condurre a compimento la Sua opera). Vediamo ora lo scandirsi dei passi di quest'urto.
È dono dello Spirito, è grazia, la valorizzazione dell'incontro. Confortiamoci perciò se ancora non capiamo: la valorizzazione dell'incontro, di quel momento iniziale, è una grazia, non una capacità nostra. Non si può dire, dopo il primo impatto e la prima sottile e confusa emozione: «Ho capito!», «Parto!». Ma come? Per dove? Chi ci fa capire e partire è qualcosa d'Altro. Ci voltiamo indietro e non sappiamo dire che cos'è: è il dono del Mistero, è la grazia. E dove andiamo? Non lo sappiamo! Non sappiamo dove siamo spinti, dobbiamo seguire l'impeto, l'emozione, l'urto iniziale.
È dono dello Spirito capire che l'incontro che ci ha mosso è come un seme, l'inizio di una realtà nuova che deve svilupparsi; una realtà sperimentabile, di questo mondo, che, come dice san Paolo, coincide con un modo nuovo di capire e amare, mangiare e bere, vegliare e dormire, vivere e morire.
Più precisamente, è un dono dello Spirito che ci introduce a presentire che l'incontro fatto è una promessa. Questa è la grande parola con cui lo stesso dono dello Spirito ha anticipato di millenni ciò che doveva accadere. E il contenuto di una promessa è qualcosa che ancora non si è dato a vedere, di cui non si può sapere com'è, come per un seme di cui non si è mai visto lo sviluppo (un uomo che non avesse mai visto un cipresso, vedendone il seme non potrebbe mai arrivare ad immaginare il cipresso).
È grazia capire che l'incontro - l'avvenimento iniziale - è un seme, è una promessa, destinata ad invadere la nostra esistenza. Il Benedictus che recitiamo nelle Lodi è la prima descrizione della storia di questa promessa e il Magnificat del Vespero è come la stessa visione, ma realizzata da una pienezza ormai raggiunta.
L'inizio è una promessa, un seme, che lentamente si sviluppa e invade la nostra esistenza, non per una logica nostra, non per una coerenza nostra, ma per la forza dello stesso dono iniziale, per la forza dello stesso amore strano che ci ha fatto sperimentare l'incontro in cui Cristo si è reso presente e ci ha provocati. Il momento in cui il mistero di Dio o, meglio, il mistero di Cristo viene presentito come pertinente alla propria vita, come - in qualche modo, non potendo immaginare il "come" - utile e connesso alla vita, è dono dello Spirito Santo, è grazia.
Il dono dello Spirito ci fa sentire responsabili verso quest'inizio. Possiamo anche non aderirvi, e cercare di cassare o cancellare ciò che è accaduto: esso ha però suscitato in noi un principio di responsabilità, in rapporto al quale tutta la nostra vita sarà giudicata, avrà fortuna oppure no, riuscirà oppure no (dove la parola "riuscita" è usata in un'accezione ben lontana da quella degli umanisti: è la riuscita di fronte all'Eterno, la riuscita vera, che si attua anche quando un uomo è ucciso, come Cristo).
È nella responsabilità che in qualche modo assumiamo di fronte all'incontro fatto che incomincia la storia della personalità nostra, che acquistiamo cioè un volto inconfondibile e irriducibile, e diventiamo protagonisti nuovi del tempo e dello spazio, attivi e indomiti «ricostruttori di città distrutte», come dice Isaia (58, 12).
È grazia dello Spirito che insorga questo senso di responsabilità, in cui soltanto emerge l'inizio di un protagonismo nuovo. La personalità non prende infatti consistenza e forma per il fatto che otteniamo un diploma o una laurea, esercitiamo una professione, intraprendiamo il rapporto con una donna, ecc., ma solo nella responsabilità di fronte al destino. Questa responsabilità, dunque la personalità, insorge per la grazia di un incontro e per la grazia che ce ne fa rimanere colpiti, che ce ne fa presentire il valore, che ci fa, in qualche modo, cercar di seguirlo. Nella responsabilità di fronte all'urto del dono dello Spirito - di fronte all'incontro - incomincia il protagonismo dell'uomo nel mondo. Protagonista nel mondo è chi lo cambia, cioè chi contribuisce - poco o tanto - a cambiare il mondo secondo il suo destino, secondo una umanità più vera, più grande e più bella, cioè più carica di attesa di Colui che deve venire (altrimenti ogni mossa non introdurrebbe che un'altra menzogna).

10. La conoscenza di Cristo
Accenniamo alla seconda scansione del dono dello Spirito. È grazia l'approfondimento dell'esperienza del divino che ha generato l'incontro. L'approfondimento dell'incontro non deriva da uno studio nostro, o da una nostra forza di volontà che ci eriga a maestri morali, ma è frutto del dono dello Spirito (che ha suscitato l'inizio). È il dono dello Spirito che ci permette di compiere un approfondimento dell'esperienza dell'incontro, in cui diventa sempre più consistente e affascinante la conoscenza di Cristo. La grazia dell'incontro - l'incontro viene da qualcosa d'Altro, perciò è grazia, è puro dono d'uno Spirito, d'una energia che possiede il mondo e manipola la storia - porta alla conoscenza di Cristo come consistenza di tutto e come inizio di un popolo nuovo.

a) Cristo come consistenza di tutto
«Tutto in Lui consiste», dice la Lettera ai Colossesi. Cristo è perciò la consistenza di me, è ciò di cui, ultimamente, io sono fatto.
Se sono attento, cioè adulto, non ho nessuna evidenza più grande di questa: in questo istante io non mi faccio da me, non mi do la realtà che sono (cfr. Il senso religioso, cit.). Ultimamente sono fatto di un Altro. A questo Altro io dico "Tu" con timore, reverenza e adorazione. Questo "Tu" è il Mistero, che è diventato uomo. Perciò l'uomo-Cristo è ciò di cui io, ultimamente, sono fatto: è un essere posseduti totale, che una volta scoperto e accettato, mette la possibilità della pace entro tutti i confini della vita, così che dolore e male vengono vinti in un abbandono amoroso e gratuito.
A chi inizia un rapporto affettivo dico sempre (normalmente questi nessi eludono o oscurano il nesso magari prima timidamente scoperto con Cristo): «Tu sei innamoratissimo della tua ragazza. Ma, dimmi, in ultima analisi, di che cosa lei è fatta? Di qualcosa d'Altro, come te. Non c'è nulla di più evidente, in questo momento, chiunque tu sia. E chi te l'ha fatta incontrare? Il Signore della storia, Colui che ha in mano tutti i fili del tempo e dello spazio, che è lo stesso di cui lei, ultimamente, è fatta: Cristo. E chi te la manterrà domani? Chi non te la farà scomparire? Lui. Te la fa incontrare Lui, te la rende compagna eterna, per sempre, Lui. Allora, verso Cristo non può non venirti un'onda di tenerezza ancora più grande della tenerezza che hai verso questa ragazza». La realtà nella sua verità è segno di "qualcosa d'altro", è segno di Cristo, "consistenza di tutte le cose". Tutto noi siamo stati chiamati a investire e vivere secondo la sua verità, cioè come segno di Cristo.
Ognuno di noi, che è stato toccato dalla grazia dell'incontro, è chiamato a partecipare di questa "novità di misura" dell'essere, a guardare e ad accostare tutto secondo una prospettiva infinita, che è ciò per cui l'uomo è fatto (la ragione è fatta per qualcosa di più grande di sé, per il rapporto con l'infinito; e il cuore è fatto per qualcosa di più grande di quello che possiamo immaginare, tant'è vero che stanca anche l'innamoramento più acre). Proviamo a pensare a come Cristo, in quell'istante di silenzio, quand'era in cima alla collina, guardava tutta la gente che veniva: il Suo sguardo era senza fine! E quando si rivolgeva a una donna come la Samaritana: pensiamo che impressione doveva invadere questa povera donna di fronte a quegli occhi che la guardavano secondo una prospettiva senza fine.

b) Cristo come inizio di un popolo nuovo
Un popolo nasce da una persona, come il popolo ebraico è nato da Abramo. Cristo è l'inizio di un popolo nuovo, del popolo nuovo definitivo.
Come dice san Paolo, in Galati 3: «Tutti voi che siete stati battezzati vi siete immedesimati con Cristo. Non esiste più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna, ma tutti voi siete uno - eis -, una persona sola in Cristo Gesù». Perciò, ci apparteniamo l'un l'altro perché apparteniamo a Lui. Tutti coloro che Lo riconoscono - che Lui tocca e che Lo riconoscono - formano un popolo nuovo: noi siamo allora l'inizio di un popolo nuovo. Ed è sempre un inizio, fino alla fine. Ma questo popolo, piccolo o grande che sia, secondo il mistero della volontà di Dio, percorrerà la storia. Si chiama Chiesa: uomini raccolti insieme per uno scopo, chiamati a riconoscere il vero e a fare il bene. La Chiesa, dice san Paolo nella Lettera agli Efesini, è il corpo di Cristo, di Colui che si nasconde dentro l'incontro fatto, di Colui che ci si è comunicato nell'avvenimento che ci ha toccati. «La Chiesa è il Suo corpo, la pienezza di Colui che si realizza interamente in tutte le cose».
NB: È nella memoria che il dono dello Spirito ci fa penetrare le profondità di Dio. Le profondità di Dio sono le profondità di ogni creatura: ogni creatura è come l'inizio di una prospettiva infinita. È attraverso la memoria che il dono dello Spirito ci fa penetrare la natura vera del rapporto con tutte le cose, ci rende cioè puri.

11. Totalizzante e cattolico
La terza scansione consiste in due implicazioni importanti del dono dello Spirito.
a) Ciò che lo Spirito ci fa approfondire è totalizzante: l'incontro è un avvenimento totalizzante, esso è cioè la forma di tutti i rapporti. L'incontro fatto è come una luce, un'energia che illumina tutti i rapporti, li piega e li plasma, come un artista, secondo la forma che devono assumere. È questa l'origine della purità o, che è lo stesso, della verità dei rapporti. La verità di un rapporto è l'adeguatezza del suo nesso con l'infinito - perché nemmeno l'afferrare la penna e il mettersi a scrivere è senza rapporto con l'infinito. «Su ogni istante grava il peso dell'eterno», diceva la poetessa Ada Negri, che si convertì per questa scoperta. L'affermazione del valore sconfinato, eterno, infinito, anche del più piccolo istante che l'uomo possa considerare, è infatti la prova del divino, è dono dello Spirito. Non vi può essere una simile affermazione se non in una concezione divina.
Mi ricordo tanti anni fa, appena dopo la guerra, l'intervista radiofonica che il primo giornalista ammesso in un monastero di clausura fece alla monaca più giovane. Da giornalista scaltro qual era, l'intervistatore pose delle domande cui era ben arduo rispondere. Sarebbe occorsa un'esperienza grande di vita per aver la scaltrezza sufficiente a coprire e a eliminare la cattiveria insita nelle domande. Sentire le risposte di quella giovanissima ragazza, non ancora diciottenne, fu una sorpresa: vibravano di una saggezza stupefacente. Da che cosa le veniva? Dall'abitudine a percepire l'eterno dentro l'istante effimero e ad abbracciar le cose tutte insieme, perché non si può giudicare neanche d'un capello se non dalla totalità dell'organismo cui esso appartiene. Si può capire allora perché una donna che vive in clausura possa essere intensa e lieta, precisa e compiuta, come un grande artista, l'artista del suo tempo e dei suoi modi.
«O Dio - ci fa dire la Liturgia - che hai preparato beni invisibili a coloro che Ti amano, infondi in noi la dolcezza del Tuo amore, perché amandoTi in ogni cosa e sopra ogni cosa…». Ogni, omnis, significa tutte le cose a una a una, nessuna esclusa. È totalizzante la pretesa di Dio: un Dio che non avesse questa pretesa totalizzante semplicemente non sarebbe più Dio. E Colui che si è comunicato a noi nell'avvenimento dell'incontro è Dio fatto uomo. Perciò l'incontro fatto ha un'esigenza e una pretesa totalizzante sulla nostra vita, su tutti i suoi aspetti espressivi: privati, pubblici, interiori, esteriori, di fronte allo scacco come all'esito favorevole. Per amarLo non bisogna escludere nulla. «AmandoTi in ogni cosa e sopra ogni cosa»: questo «sopra» non è alternativa alle cose, ma significa che ogni rapporto, con qualunque realtà e persona, è definito dalla presenza di Cristo, dalla memoria del rapporto con Cristo; e così ogni rapporto da povero, diventa ricco; da incerto, diventa certo; da inquieto, diventa pieno di pace.
b) La seconda implicazione del dono dello Spirito è la cattolicità. L'avvenimento dell'incontro è "cattolico", ci spinge cioè ad accostare tutto e tutti con un'apertura senza confini. Nell'esperienza del rapporto con Cristo - riconoscimento e affezione -, che lo Spirito ci fa approfondire, non c'è più tregua e non ci sono più limiti. «Tutto è vostro, come voi siete di Cristo», diceva san Paolo: è l'eliminazione di ogni paura e la ragionevolezza di ogni rischio. Dandoci un criterio di intelligenza e di affezione chiaro, lo Spirito ci spalanca a tutto e a tutti senza confini.
L'avvenimento dell'incontro rende l'uomo che ne è investito aperto a tutto secondo un "preconcetto", un punto di vista, positivo e amoroso, così che in ogni cosa in cui si imbatte egli sottolinea, valorizza e utilizza, per una costruzione nuova del mondo, quanto c'è di buono, foss'anche un sottilissimo filo dentro un enorme groviglio. La "cattolicità" descrive un'inconcepibile apertura positiva a tutto il reale.
Di qui nasce un concetto nuovo, vero, di "critica", di cui san Paolo ci offre la definizione: «Panta dokimazete to kalon katekete», vagliate ogni cosa, trattenete e valorizzate ciò che vale la pena, il bello, vale a dire ciò che è funzione dell'Eterno, di Cristo, e perciò della salvezza e della ricostruzione del mondo. L'atteggiamento "critico", dunque, cristianamente parlando, non ha nulla di negativo, ma, esattamente all'inverso, va alla scoperta animosa e amorosa di qualsiasi riverbero della verità si annidi anche nelle cose più piccole. Racconto spesso in proposito l'episodio attribuito a Cristo da un agraphon, secondo cui, mentre attraversava i campi, Gesù vide la carcassa marcita di un cane; san Pietro, che gli stava davanti, disse: «Maestro, scostati»; ma Gesù, al contrario, andò avanti, e fermandosi un istante esclamò: «Che denti bianchi!». Era l'unica cosa buona in quel corpo marcio. Questa è la critica! Non ostilità alle cose, ma un abbraccio che esalta il valore immanente a ogni cosa.
Lo sviluppo di questa capacità critica nel rapporto con tutto e con tutti genera una visione nuova dell'uomo, del mondo e della storia, cioè una cultura nuova. Una cultura nuova può generarsi solo poggiandosi su quella "critica" che la cattolicità dell'impeto che il dono dello Spirito fa insorgere realizza. Tutto quanto vi è di bene nel mondo, pur sotto un cumulo di detriti o di cattiveria, viene valorizzato per una nuova costruzione del mondo. Questa è la cultura cristiana, la cui definizione si trova nella Lettera ai Romani (12,1-2).

12. "Mandati"
Ognuno di noi è stato scelto attraverso un incontro gratuito perché si renda egli stesso incontro per gli altri. È dunque per una missione che siamo stati scelti, così come Cristo è stato mandato dal Mistero eterno per una missione - mandato, missus -: «Come il Padre ha mandato me, così mando voi». Quello che ci è stato dato e continuamente ci viene dato è "per" il mondo; è dato a noi perché in noi si riverberi e si comunichi ad altri, non secondo i nostri calcoli, ma come Dio vuole.
Non si può parlare della vita umana in modo così pieno di pace e di esaltazione, pieno di certezza, di speranza e di gratuità, se non essendo stati investiti dall'avvenimento da cui siamo stati investiti, se non per la grazia dell'incontro con la presenza di Cristo. Perciò, amici, aiutiamoci.