Il Giubileo e la vita

Parola tra noi
Luigi Giussani

Appunti da una conversazione di Luigi Giussani in preparazione al Giubileo della Redenzione.
Duomo di Palmanova, 15 giugno 1983


Ognuno sa che il primo gesto ufficiale e clamoroso del pontificato di Giovanni Paolo II è stata l'enciclica che incominciava con la formula Redemptor hominis, Gesù Redentore dell'uomo. Redentore dell'uomo significa innanzitutto che Cristo assicura il significato della vita e quindi chiarisce il destino e dà la forza per raggiungerlo. Una volta si sarebbe detto: "È Redentore perché è salvatore dell'anima, perché salva l'anima". Ma il Papa non ha usato l'espressione "salvare l'anima"; ha usato invece il termine "Redentore dell'uomo". E l'uomo è indubbiamente colui che ha l'eternità dentro le sue viscere, dentro la sua natura immortale, ma è prima di tutto colui che deve percorrere il suo cammino su questa terra, deve vivere un'esistenza nel tempo e nello spazio.
Cristo Redentore dell'uomo non significa, dunque, soltanto Colui che assicura all'uomo il suo destino eterno, la salvezza eterna, come diceva il catechismo antico, ma anche Colui che salva, cioè redime, la vita dell'uomo quaggiù, la vita dell'uomo in quanto cammina, dell'uomo che si alza al mattino, va a lavorare, e si corica alla sera: Cristo è il Salvatore dell'uomo intero, oggi e domani. Forse, un tempo, si sottolineava esclusivamente il domani. E, infatti, il presente per che cosa ci è dato, se non per il domani? Un cammino che cosa significa se non la fine, il fine, il traguardo, il destino? Ma, oggi, credo che l'uomo abbia bisogno di completare, di sentirsi completata la proposta e di capire innanzitutto in che modo Cristo sia il Salvatore della sua vita presente.
Mi hanno spiegato che i Veneziani, che hanno costruito Palmanova come fortezza di fronte al pericolo turco e all'imperialismo nordico, definivano questa città, costruita apposta, "propugnaculum Patriae, propugnaculum Italiae et propugnaculum Fidei": avamposto difensivo per la Patria, per il nostro Friuli, per l'Italia, e per la Fede. A noi sembra strana questa unità profonda che una volta, invece, nella coscienza cristiana era abituale, perché la Fede, che vibra nella coscienza della persona, sempre diventa luce ed energia per i rapporti e, perciò, sorgente di vita sociale, legando così nel tempo il destino dell'individuo con il destino della sua gente, del suo popolo.
Io credo che nessuno abbia fatto risorgere questa visione unitaria - perché la possiede fin nel midollo e nel cuore - come Giovanni Paolo II. Egli la possiede nel profondo del cuore, perché la fede, nella tradizione polacca, non è mai venuta meno a questa unità, a questa profondità e unità di concezione.

Destino di felicità
Ma io vorrei dapprima soffermarmi sull'aspetto tradizionale, immediato e ultimo della prima enciclica di Giovanni Paolo II: Cristo Redentore dell'uomo, come Colui che salva l'uomo e il suo destino; perché, come dice il grande filosofo ebreo americano Heschel, all'uomo non interessa tanto approfondire le sue origini quanto capire bene dove va a finire, qual è il suo destino.
Se una donna fosse così riflessiva che, dando alla luce il proprio bambino, guardandolo o tenendolo nelle mani per la prima volta, si domandasse dove egli andrà a finire, qual è il suo fine, che ne sarà di lui, se nell'intensa emozione di quel momento pensasse questo, se in quel momento una donna pensasse così, sarebbe assalita da un timore improvviso, perché non può proteggerlo, perché non può proteggere la sua creatura come la proteggeva nel suo seno e in tutto rassicurarla. Io mi ricordo di una signora che veniva a confessarsi, tantissimi anni fa, regolarmente tutte le settimane; aveva una bambina, e a un certo punto non è più venuta. È ritornata dopo un mese e mi ha detto: "Sa, ho avuto un secondo bambino". E prima che io le facessi le mie congratulazioni mi disse: "Sa qual è il primo sentimento che ho avuto non appena mi sono accorta che era nato? Non ho pensato se stava bene, se era un bimbo o una bambina, ma: "Ecco, incomincia ad andarsene"". È questo il sentimento più drammatico che, consapevole o no, vige nel cuore di una donna che diventi madre, perché, man mano che il tempo avanza, quella creatura, che è così sua, è come se diventasse sempre di più non sua, proprio come destino. Se, dunque, facendo nascere un bimbo, una donna pensasse: "E adesso dove andrà a finire?", se non ci fosse un destino di felicità, sarebbe un delitto aver fatto nascere, perché è un delitto non solo uccidere, ma anche mettere nelle condizioni che uno venga ucciso; senza un destino di felicità, non sarebbe un delitto soltanto infliggere pene e dolori a un essere vivente, ma anche metterlo nelle condizioni che dolori, anche atroci, gli avvengano. Chi lo può sapere o chi lo può evitare con certezza? Chi può fare un progetto che non implichi questa possibilità? L'unica cosa che rende ragionevole il nascere è l'annuncio e la sicurezza di un fine buono, del fine buono o, come ho detto prima, è la parola che solo la Fede pronuncia con serietà, la parola più seria della vita che, al di fuori della Fede, viene svigorita e svuotata di tutto il suo contenuto grande: la parola "Felicità".
Solo la sicurezza di un destino di felicità rende ragionevole l'essere madre. E c'è un gesto più naturale che l'essere madre? No! Dunque non esiste nulla di più necessario, di più consono, di più vicino alla carne di una madre, e perciò all'espressione più originale della natura, di quella Voce che è entrata nel mondo e che non va più via: nessuno più strapperà dalle orecchie dell'uomo questa voce "fisica", che assicura all'uomo il suo destino felice. "Che importa - disse una volta questa voce fra la gente che lo rinserrava in una piazzola - se tu ti prendi tutto il mondo e poi perdi te stesso? O che darà l'uomo in cambio di se stesso?"(1). Ed è questo valore supremo della persona che una madre, in concreto, in pratica, sente e vive quando guarda e si rivolge al proprio bambino - anche se ne ha sette, anche se ne ha dodici, perché è inconfondibile il "tu" che riferisce a ognuno. Ciò che essa avverte è proprio l'irriducibilità di questo mistero del destino di felicità che è l'uomo!

Per amore del singolo uomo
Io mi ricordo, e me lo ricorderò per sempre, tanto è vero che ai miei amici giovani ogni tanto lo racconto, di quella volta che sono andato a visitare una missione sul Rio delle Amazzoni, all'Equatore, un territorio immenso che i Padri del Pime coprivano a pezzi; ognuno si prendeva una zona, cosicché in un anno rivedevano almeno una volta tutti gli abitanti di quel territorio in cui non ci sono strade, ma soltanto fiumi nella foresta e che, pur essendo grande quasi quanto l'Italia, contava sessantamila abitanti. Quando uno di questi padri andava, come loro lo chiamavano, in "desobriga", riceveva l'assoluzione in articulo mortis, perché era un pericolo mortale quel viaggio in mezzo alle foreste infestate di serpenti e di animali. Un giorno, un certo padre Titta doveva partire per il suo turno e mi disse: "Vieni anche tu". Io non ho capito l'umorismo con cui me lo disse; risposi subito di sì e andai. Venne la sera e lo vidi, a un certo punto, mettersi dei gambali che gli arrivavano fino all'anca e poi, sorridendo, introdursi in un pantano. La melma gli arrivava sopra il ginocchio. Impiegava un minuto per fare un metro e c'era già una nuvola di insetti che gli dava fastidio. Ero lì fermo a guardarlo e lui mi disse: "Non puoi venire più avanti". Doveva fare otto ore di notte di quella fatica per andare a trovare uno, che lì chiamano "caboclo" (vale a dire uno di quegli indigeni che vivono tirando fuori la gomma dagli alberi, guadagnandosi pochi centesimi), per andare a trovare uno, uno! Io mi rivedo ancora in quella posizione, mentre il padre missionario se ne andava con quella fatica e ogni tanto si voltava a salutarmi con un sorriso ironico. Pensavo: "Rischia tutta questa fatica, rischia la vita per andare a trovare un uomo che non ha forse mai visto e mai rivedrà: un solo uomo". E di fronte al sole cadente, io mi ricordo che avevo negli occhi molto più che la luce accecante, avevo negli occhi l'idea grande che mi venne su nell'anima: "Che cos'è il cristianesimo? È l'amore all'uomo, non all'umanità, ma all'uomo, cioè a ogni figlio di madre".
Come dice il Papa - che quando parla di umanità ripete sempre: "Parlo di ogni uomo", e ogni tanto dice: "tu" -, il cristianesimo è l'amore all'uomo che solo Dio poteva avere, può avere (un amore più grande di quello di una madre). "Cristo, Dio fatto uomo per amore dell'uomo, ha dato se stesso per me ed è morto per me"(2), diceva Paolo. Non esiste nessuna realtà umana, nessuna impresa umana che guardi all'uomo in questo modo, che guardi all'uomo come persona e guardi alla persona come essere che ha un destino non paragonabile, irriducibile, un destino eterno. Tutto ciò che l'uomo fa, qualsiasi uomo per l'altro uomo, in fondo, anche nel migliore dei casi non può evitare quello che osservava un filosofo laico come Kant: "Non può fare l'uomo per l'altro uomo qualche cosa senza che ci sia una sfumatura di interesse, un criterio di contropartita, un'aspettativa".
La purità assoluta, la vera gratuità, si chiama "carità", nel senso letterale della parola, perché in greco gratuità si dice charis. Questo è possibile solo per chi cerca veramente di seguire Cristo come quel padre che mi sta ancora nella coscienza e negli occhi. Cristo è la salvezza dell'uomo, Colui che assicura alla madre che farà un figlio la ragionevolezza dell'avvenimento, Colui che assicura all'uomo l'eternità del suo destino e il compimento della sua inesauribile sete di perfezione o di soddisfazione (due parole che in latino vogliono dire la stessa cosa), o di felicità.

Un avvenimento che tocca il tempo, l'istante
Per questo, quella sera nella sinagoga, quando tutti se ne erano andati scandalizzati dal modo di dire di Cristo: "Mangerete la mia carne", alla domanda che ruppe il silenzio pesante, di fronte ai pochissimi rimasti: "Anche voi volete andarvene?", san Pietro sbottò a rispondere: "Anche noi non comprendiamo quello che tu dici, ma se andiamo via da te, dove andremo? Tu solo hai parole che danno senso al vivere"(3).
Ecco: Cristo è redentore dell'uomo, non solo per la sua salvezza finale, ma anche per questo tempo di esistenza che percorre nelle più varie condizioni, proprio perché questa certezza solleva l'anima, conforta l'anima, il cuore dell'uomo che cammina ogni giorno; perché non c'è niente che faccia respirare ora, nel preciso momento in cui uno lo pensa o lo ascolta, non c'è niente che faccia respirare, che faccia riconfortare e vivere, come questo annuncio sicuro e certo: "Venite a me voi che siete logorati dalla vita e io vi restaurerò; io vi ristoro, prendete su di voi il mio giogo, venite con me, perché il mio giogo è soave e il mio peso è leggero"(4). Per questo, dunque, dal fondo del cuore, questa Redenzione tocca il tempo, tocca l'istante in ogni condizione.
Non c'è alcun suggerimento, ho detto prima, che faccia respirare totalmente, a pieni polmoni, non c'è alcuna promessa e alcuna gioia al di fuori dell'orizzonte di questa certezza: la gioia che l'uomo riesce a ottenere è una gioia falsa, non nel senso cattivo del termine, ma perché, per mantenersi anche quelle poche ore, ha bisogno di dimenticare o di rinnegare qualcosa.
Ma di fronte a quell'Uomo e alla promessa che lui era (la gente gli andava dietro per questo, per questa promessa che lui era!) la gente diceva: "Questo sì che parla con autorità!"(5). L'autorità, ognuno di noi lo sa, è l'esperienza di un incontro che fa riprendere vita, fa risentire più profondamente se stessi. Dicevano: "Nessuno ha mai parlato come quest'Uomo!"(6), perché il grande criterio che si applica nella meschinità delle nostre scelte quotidiane (un film da andare a vedere, l'andare o no a scuola, il modo con cui uno decide di stare a casa dal lavoro) è unico: è questa sete di felicità che ci sospinge dal fondo. Nessuna promessa, se non Quella, spalanca il cuore e i polmoni, ristora, restaura. Dentro quell'aura, dentro quel clima che essa instaura, allora anche i pesi diventano tollerabili.
In questo istante mi ritorna alla mente una ragazza, morta alcune settimane fa, che fino a tre o quattro anni fa si ribellava profondamente a tutta la sua vita, che era stata un martirio da un punto di vista fisico e familiare e che, poi, acquistata la fede, si era placata. Sei mesi fa scoppiò il cancro, e quando due mesi prima lo seppe con chiarezza telefonò a tutti i suoi amici che non vedeva da dieci, vent'anni dicendo: "Vienimi a trovare, perché tra poco morirò". E mi disse, quando le espressi l'edificazione che mi incuteva: "Ma io sono felice e anche ai miei compagni di lavoro dico: "Ma voi, che siete intelligenti, non avete qualcosa per cui l'istante è pieno, è pieno di godimento. Per me l'istante diventa pieno e io so - aggiungeva - che cosa voglia dire offrire"".
Non esiste nessuna promessa più umana, non esiste nessuna promessa umana, se non Quella. Per questo vale ciò che diceva san Paolo: l'aderire a Cristo, la Pietas (pietas è una parola latina che significa il rapporto che ci lega con i principi del nostro essere e per questo si dice che si ha pietà dei genitori, pietas in parentes, oppure della terra, pietas in patria, oppure di Dio, pietas in Deum), cioè il rapporto con Cristo, "ad omnia utilis est", è utile per tutte le cose, avendo in sé la promessa per i secoli futuri e per il presente. È questo che Giovanni Paolo II ha, soprattutto, davanti agli occhi proponendo Cristo Redentore.

Una sproporzione radicale
Vorrei che comprendessimo meglio tutto ciò, indicando i due fattori che Cristo, entrando nella nostra vita, mette in gioco. Innanzitutto Cristo richiama l'uomo a ciò che anche tanti teologi sembrano aver dimenticato dopo il Concilio Vaticano II (raramente, molto raramente se ne è sentito parlare nei venti anni dopo il Concilio): l'uomo non è capace da solo di essere uomo. Io lo spiego ai miei amici giovani così: "Ditemi se ci sono tre esperienze più umane di queste: l'amore dell'uomo alla donna, l'amore dei genitori ai figli, e l'amore, la passione, per la vita degli uomini nel suo senso generale, cioè la politica (la politica è interessarsi agli uomini perché stiano meglio). E ditemi, per favore, se ci sono tre sorgenti di egoismo più grandi di queste, perché l'uomo ha in fondo a sé la divisione". La dottrina cristiana lo chiama "peccato originale".
Io mi permetto di leggere alcuni brani del Papa su questo tema: "[L'uomo] deve fare i conti con la povertà radicale della sua condizione di creatura, stretta fra limiti di ogni sorta; egli deve altresì brancolare fra le dense ombre che ostacolano il cammino sul quale s'affatica la sua intelligenza assetata di verità; egli soprattutto sperimenta i vincoli pesanti di una fragilità morale, che lo espone ai più umilianti compromessi [e all'egoismo]. Non abbiate paura di richiamare gli uomini di oggi alle loro responsabilità morali! Tra i tanti mali, che affliggono il mondo contemporaneo, quello più preoccupante è costituito da un pauroso affievolimento del senso del male [l'abbiamo detto prima: l'uomo, per stare tranquillo, ha come arma il rinnegare o il dimenticare, ma questo è contro la ragione]. Per alcuni la parola "peccato" è diventata un'espressione vuota, dietro la quale non devono vedersi che meccanismi psicologici devianti, da ricondurre alla normalità mediante un opportuno trattamento terapeutico [basta un po' di psicanalisi e tutto si rimedia]. Per altri il peccato si riduce all'ingiustizia sociale, frutto delle degenerazioni oppressive del [cosiddetto] "sistema" e imputabile pertanto a coloro che contribuiscono alla sua conservazione [perciò basta cambiare sistema, scriveva cinquant'anni fa un grande poeta inglese, profeta della nostra epoca, Eliot: "Essi cercano sempre d'evadere/dal buio esterno e interiore/sognando sistemi talmente perfetti che più nessuno/avrebbe bisogno d'essere buono"(8), eliminando, cioè, la responsabilità della persona]. Per altri, ancora, il peccato è una realtà inevitabile, dovuta alle non vincibili inclinazioni della natura umana e non ascrivibile perciò al soggetto come personale responsabilità. Vi sono, infine, coloro che, pur ammettendo un genuino concetto di peccato, interpretano in modo arbitrario la legge morale e, distaccandosi dalle indicazioni del Magistero della Chiesa, si allineano pedissequamente alla mentalità permissiva del costume corrente"(9).
L'uomo di oggi, dice il Papa, cerca in tutti i modi di evitare la responsabilità, che è personale, proprio eliminando il peccato. La considerazione di questi diversi atteggiamenti rivela quanto sia difficile arrivare a un autentico senso del peccato, se ci si chiude alla luce che viene dalla parola di Cristo.
"Quando si poggia unicamente sull'uomo, sulle sue limitate e unilaterali vedute, si raggiungono forme di liberazione che finiscono per preparare nuove e spesso più gravi condizioni di schiavitù morale". È quello che disse il Papa nella finale del discorso fatto al Meeting di Rimini del 1982, quando affermò che l'uomo, nell'epoca moderna, ha fatto di tutto per rendere più umana, più vivibile la terra e la vita, ma l'esito è stato che l'uomo sta sempre peggio come uomo; e disse anche che questa degradazione appare inarrestabile.
La prima verità che l'Anno Santo richiama a noi, che Cristo Redentore ci impone è che l'uomo è peccatore. "Peccato", in tutte le lingue occidentali, qualunque sia la formulazione, vuol dire "venir meno", tanto è vero che è uguale a "difetto", che in latino vuol proprio dire "venir meno", come quando uno è in deliquio. Il peccato è venir meno a se stessi. Il peccato è dire di amare la donna, mentre non è vero, è dire di amare i figli, mentre non è vero, è dire di volere il bene dell'umanità, mentre non è vero; è il "non vero", tant'è che san Giovanni, nel Quarto Vangelo, identifica la parola "peccato" con la parola "menzogna"(10). Quando Cristo disse: "Tutti voi siete cattivi"(11), voleva dire che l'uomo è incapace di realizzare quello di cui sente l'esigenza come natura, è incapace di realizzare se stesso.
L'uomo che guardi se stesso non può evitare la tentazione di uno scoramento e, proprio per evitare questo, la mentalità sociale dominante cerca di eliminare la considerazione nella sua sostanza e di bocciare l'idea di peccato, mentre senza l'idea del peccato (che paradosso!) l'uomo è una marionetta, senza l'idea di peccato è un meccanismo, perché non avrebbe libertà.
Il Papa ha avuto il coraggio di dire, nel discorso all'Unesco del 2 giugno 1980, che senza il compiersi in Cristo la ragione non resta ragione.
La prima cosa che l'Anno Santo deve produrre in noi è, dunque, il risveglio del senso del proprio essere peccatori, della incapacità dell'uomo ad arrivare a ciò cui pure aspira in qualche sussulto ideale del cuore.
Io ripeto sempre un brano dello scrittore protestante Ibsen, in cui egli narra di un uomo che cerca in tutta la sua vita l'onestà assoluta. Nell'ultima scena, mentre sta ritto in mezzo al palco, vicino alla sua capanna a metà sul declivio del monte, improvvisamente sente staccarsi l'immane valanga che sta precipitandogli addosso e grida, mentre il frastuono della valanga diventa sempre più grande, a Dio: "Rispondimi, o Dio, nell'ora in cui la morte mi travolge! Può l'uomo, con tutta la sua volontà, riuscire a compiere un solo gesto perfetto?"(12). Non credo che queste siano delle astrattezze o delle sottigliezze proprie di certi spiriti: questo, a mio avviso, è il veleno o il rimorso che striscia dentro di noi ogni giorno e che ci beve le migliori energie. È il richiamo, innanzitutto, a ciò che siamo: sete di Infinito, impeto ideale, ma incapaci, anche nel più breve gesto di ogni giorno, di essere così gratuiti com'è legge per noi, per l'essere spirituale, d'avere l'amore gratuito, la capacità dell'amore gratuito, vero, netto, in tutto, all'uomo e alle cose, a se stesso. Dobbiamo continuamente coprirci con la menzogna per poterci sopportare, dobbiamo dimenticare o rinnegare per sopportarci.
Il Protestantesimo arriverebbe a questo punto e poi direbbe: "Però, nonostante noi siamo così, Cristo alla fine ci salverà". Chi ha visto il film "Dies irae", di quell'altro grande artista protestante, Dreyer, certamente ne sarà stato colpito, perché questa è l'idea fondamentale del grande spirito di Martin Lutero: un senso vivissimo di quello che l'uomo è e che Cristo ha svelato con chiarezza, dell'uomo peccatore; però questo Cristo, che ti svela come peccatore, quando morirai ti salverà lo stesso!

Misericordia, giustizia che ricrea
Non è così l'annuncio cristiano: infatti l'annuncio cristiano non è soltanto Cristo, Dio che arriva per te perché sei colpevole e peccatore, ma è Dio che muore e risorge e pone nella carne e nelle ossa dell'umanità la possibilità di appartenere a questa Resurrezione. La Resurrezione di Cristo costituisce l'inizio di un mondo nuovo, costituisce l'origine di una possibilità di ripresa non per l'uomo nell'aldilà, ma per l'uomo nell'aldiqua. Cristo risorto è più potente del peccato e della morte, insieme a Cristo noi possiamo -questa è la parola - cambiare. Siamo come ammalati da lungo tempo che non sono capaci di stare in piedi, ma che, con le braccia sulle spalle di un infermiere o di un familiare, possono incominciare a fare ancora dei primi passi.
Solo nella compagnia di quest'Uomo, che è Dio, l'uomo può cambiare e per questo la virtù propria, la caratteristica propria del cuore del cristiano è la speranza. La speranza non come è normalmente nella vita del mondo, che per affermarsi ha bisogno di mettere la censura, cioè di dimenticare, ma quella che nasce dalla considerazione chiara della propria miseria, del proprio peccato. San Giovanni ai primi cristiani dice, nella sua Prima Lettera, che noi abbiamo creduto all'Amore (13). Il riconoscere la Presenza di questo Dio diventato uno fra noi, di Te, o Cristo, questo mi riconforta e mi fa riprendere: mille volte sbaglio, mille volte io sono certo di Te, o Cristo, mille volte Tu mi ridai il coraggio di riprendermi. Quante volte dovremo perdonare? Sempre! Perdonare non vuol dire: "Mettiamoci una pietra sopra". Perdonare vuol dire far rivivere, far rinascere. La parola vera che il Papa usa per l'Anno Santo, la parola grande, la parola con cui Dio ha definitivamente definito se stesso (non il Dio del pensiero, non il Dio dei morti, ma il Dio dei vivi, il Dio vero, quello che è entrato nella storia) è la parola Misericordia.
Una ragazza, una volta, mi ha telefonato dalla casa di cura in cui era stata ricoverata e mi ha detto: "Sa, don Giussani, ho capito che cos'è la misericordia". Io ho chiesto, un po' stranito: "Cos'è?". "È la Giustizia che ricrea" e poi ha attaccato. Raramente i miei maestri mi hanno detto una verità così. "Giustizia che ricrea", perché non oscura ciò che sono, ma mi dà la forza di una Presenza, per cui mi ricostituisce mille volte al giorno. L'uomo non è più definito dal suo errore, ma è definito da questa Presenza, riconosce questa Presenza come tutto di sé. Questo si chiama "amore", perché l'amore è affermare un Altro. Perciò l'uomo non è più definito dal suo errore, ma è definito dall'amore, vale a dire dal riconoscere Te, o Cristo.
Una volta hanno trovato san Francesco d'Assisi nel sottobosco della Verna con la faccia per terra che ripeteva continuamente: "Chi sono io, chi sei Tu?". È questo l'annuncio dell'Anno Santo: una rinnovata speranza.

La speranza in una Presenza
In Guatemala, durante la visita pastorale del marzo 1983, Giovanni Paolo II ha detto che Cristo è la nuova arma di un mondo nuovo. Ma questa speranza non è poggiata sulle mie risorse o sulle risorse di quell'io proiettato che sono la società, i capi, le cose che l'uomo crea; questa nuova vita, questa speranza è fondata su questa Presenza. In fondo la fede è riconoscere una Presenza, e riconoscere questa Presenza ridà animo mille volte al giorno, in qualunque posizione ci si trovi, perfino nella morte, e quindi dà la capacità di aprirsi agli altri con purità, cioè con gratuità. Per questo Cristo, Redentore dell'uomo, non vale per l'aldilà solo, ma per l'aldiqua che è l'oggi, l'aldiqua che è quest'ora, che è tra un'ora, dentro la compagnia in cui sono, dentro la compagnia in cui sarò; perciò questa speranza non ha sponde, abbraccia il mondo.
Per sua natura questa speranza è sociale, per sua natura non esiste problema o esigenza o situazione umana da cui non si senta percossa e a cui non si senta interessata positivamente. La grande formula della vita cristiana detta da san Paolo è: "In spe contra spem"(14). Per questo il cristiano è eminentemente un uomo che si impegna nell'impatto con le persone e con le cose in qualunque condizione, anche quella politica, perché questa Presenza ha mosso le acque della nostra grande, terribile, orribile condizione, della nostra grande palude di impotenza, questa Presenza vi è entrata e ha mosso tutto, e queste onde vanno fino alle sponde estreme, vale a dire abbracciano il mondo fino agli estremi confini della terra. Per questo motivo non c'è più niente che al mio istante concreto sia estraneo; vivo, allora, il mio istante concreto con un tentativo di amore che si chiama, nel linguaggio cristiano, "offerta", per il mondo intero. Questa offerta mi fa piangere con dolore della mia meschinità e mi spalanca nella gioia di una speranza proprio perché non poggia su di me, ma passa attraverso di me, usa di me. Perciò, anche se sono così meschino da poter dare pochissimo, do questo poco. L'essenza più intima di ogni Anno Santo sta proprio in un movimento spirituale di fede e speranza, che fa convergere i fedeli, con un rinnovato slancio, verso Cristo Redentore. Un pezzo di questo movimento spirituale siete voi qui, ma questo movimento non può sussistere se non con la responsabilità di ognuno così com'è.

a cura di Andrea Tornielli

Note
1 Mt 16,26; Mc 8,36-37.
2 Cfr. Gal 2,20.
3 Cfr. Gv 6,22-71.
4 Cfr. Mt 11,28-30.
5 Cfr. Mc 1,27; Lc 4,32.
6 Gv 7,46.
7 1Tm 4,8.
8 T.S. Eliot, Cori da "La Rocca", Bur, Milano 1994, p. 89.
9 Giovanni Paolo II, Annunciate l'Anno di grazia del Signore, Ai Vescovi italiani durante la Celebrazione giubilare, 14 aprile 1983, in La Traccia, 1983, fasc. IV, pp. 367 ss.
10 Cfr. Gv 8,44.
11 Cfr. Mt 7,11; 12,34; Lc 11,13.
12 Cfr. H. Ibsen, Brand, Bur, Milano 1995, p. 240.
13 Cfr. 1Gv 4,16.
14 Rm 4,18
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