Natale: motivo della vita come lavoro

Parola tra noi
Luigi Giussani

Appunti da una conversazione di Luigi Giussani con un gruppo di Novizi dei Memores Domini. Milano, 15 novembre 1998


È la prima volta, dopo tanti anni, che sento cantare, ricantare, quei bellissimi «commenti biblici» che ha fatto padre Cocagnac, perché questi canti possono essere punti di meditazione tutte le volte che l’animo nostro è, in qualche modo, oberato. Questo canto è bellissimo [1]: la Bibbia, la parola di Dio, l’atteggiamento di Dio con l’uomo è dentro lì, non nella tua paura o nel tuo tremore o nella tua presunzione, non nel giudicare l’esito di quello che fa Dio su di te perché ti lascia nella debolezza, per cui sbagli e sei umiliato da questo.

Comunque, sento un dissesto nel modo di stare davanti alla realtà, davanti al proprio destino e, quindi, davanti a Dio, un dissesto nell’animo della maggior parte della gente in cui mi imbatto, nella maggior parte di voi, quando prendo un rapporto e ne prendo consapevolezza. E quello che mi dà chiarezza maggiore nel guardarvi e nel tenervi presente è che l’abbiamo superato, per amor di Dio, per grazia di Dio, anche noi nella nostra vita. Perciò, vi parliamo non per difendere o farvi schiavi delle nostre idee, ma come uomini, uomini come voi, secondo tutta la ricchezza che Dio ha dato all’uomo.
Parlare così è parlare come «idealmente» della vita. Ma parlare idealmente della vita vuol dire identificare lo scopo della vita e la strada per andarci, che per nulla è pensabile o immaginabile da ognuno di voi, ma è data: la salvezza dalla nostra dissipazione, dalla nostra contraddizione, dalla nostra ingenerosità, la salvezza da questo ci è data. Anche questa. Ci è data la vita e ci è dato il perdono del male fatto nella vita e ci è data la rielezione, la rinascita: tutto ci è dato, perché Dio è tutto in tutto [2] e non c’è la possibilità di eccepire a questa formula che ha usato san Paolo, in nessun modo (rileggete gli Esercizi alla Fraternità dell’anno scorso [3], perché io credo che sia l’espressione più avanzata del nostro modo di concepire la vita, del nostro modo di sentire).
«Non c’è ideale - diceva Malraux - al quale possiamo sacrificarci, perché di tutti noi conosciamo la menzogna [tutti gli uomini sono bugiardi: questo lo dice chiaramente anche la Bibbia, e i salmi [4] specialmente], noi che non sappiamo che cosa sia la verità» [5].
Questa è una declinazione dell’anima di un uomo qualsiasi oggi. Perché se un uomo è appena appena un poco abituato a pensare a se stesso, a sentire se stesso, intellettualmente essendo portato a darsi la spiegazione di tutte le cose - di tante cose o delle cose di cui sente il gusto o l’utilità o la necessità, o delle cose di cui è costretto a pensare -, questa è proprio una frase che definisce il valore di tutte le nostre dizioni, perché anche noi a un ideale non ci siamo ancora sacrificati del tutto. Però ci siamo sacrificati: è la coscienza della vocazione nel senso cristiano della parola, comunque sia inteso; veramente consapevoli o con la testa nel sacco o nel tentativo d’affermare quel che si sente nell’ambito in cui siamo (nel seguire la compagnia: il seguire la compagnia può darci l’impressione che ci siamo sacrificati a un ideale).
Ma sacrificarsi a un ideale vuol dire sacrificare la vita a quell’ideale, perciò sacrificare quello che viene d’istinto e quello che si deve fare, sacrificarlo ogni giorno, ogni ora. Per questo la Bibbia, parlando di Dio, si sofferma spesso - specialmente nel Deuteronomio, nei più antichi libri - sulla necessità che l’uomo pensi a Dio stando in casa, uscendo di casa (come dice il sesto capitolo del Deuteronomio [6]; e san Paolo ritorna a tutti questi dettagli [7]).
«Non c’è ideale al quale possiamo sacrificarci [con l’ideale non abbiamo rapporto se non nel sacrificio, perché l’ideale vuol dire il senso di quel che facciamo, e il senso di quel che facciamo non lo possiamo avere se non sacrificando la modalità con cui facciamo (pensate cosa dicono a me, vecchio, queste cose: come fanno vedere lo strisciare di una vita, tutti i giorni ripresa al mattino ma strisciando, come quando si va in un posto dove c’è pericolo, dove si teme o dove non si vuole esser visti e si sta lì, si gira attorno)], perché di tutti noi conosciamo la menzogna [di tutti: anche mia, anche tua, perché se non c’è questa coscienza, è falso anche quello che dici degli altri, giochi anche con gli altri, rendi fessi anche gli altri]». Mi ricordo la prima volta che l’ho letta, come mi ha fatto pensare questa frase: «perché di tutti noi conosciamo la menzogna, noi che non sappiamo che cos’è la verità».

Ma noi sappiamo cos’è la verità! «Io sono la verità e la vita» [8] ha detto un uomo, l’unico che abbia detto nella storia questa cosa. Noi conosciamo la verità, ma anche qui portiamo tutta la nostra grettezza o tutta la nostra equivocità: è come se mancasse alla nostra vita quell’impeto - suscitato tre volte al giorno, mattino mezzogiorno e sera, quando si dice la preghiera (l’Angelus, per esempio) - che a mezzogiorno ritorna a galla dal mare di nebbia in cui è stato al mattino e alla sera rispetto al pomeriggio.

Comunque, questo brano ieri sera mi ha fatto pensare anche al salmo ottavo... Quando noi, leggendo il breviario, a un certo punto sentiremo il cuore e la testa spalancarsi e capire quella parola che diciamo, sarà un giorno non solo non nefasto, ma nemmeno un giorno brutto della nostra vita, o facile a dimenticarsi, perché i salmi dicono l’uomo, l’uomo «uomo», con tutti i suoi sentimenti, in tutte le occasioni così contraddittorie, così accavallantesi (non c’è cosa che a noi sia stata detta o cosa che a noi sia stata chiesta di fare che non abbia percosso e trapassato la nostra umanità, cambiato la nostra umanità nella verità e nell’affezione, nell’intelligenza e nell’affezione).
Rileggiamo l’ottavo salmo:
«O Signore, nostro Dio,
quanto è grande il tuo nome su tutta la terra:
sopra i cieli si innalza la tua magnificenza
[al di là del visibile si innalza la tua magnificenza].
Con la bocca dei bimbi e dei lattanti
affermi la tua potenza contro i tuoi avversari
[sembra vana questa cosa, perché la bocca dei bimbi e dei lattanti non sente la lotta che c’è tra la parola di Dio, la rivelazione di Dio, la presenza di Dio, e ciò che appare loro (e non sanno che queste apparenze sono gli avversari). Ma è se mantiene la bocca del bambino e dei lattanti che l’uomo grande capisce Dio e la Sua potenza nella lotta con gli avversari, perché lo sente in sé (che cosa sia la conoscenza è il problema fondamentale della gnoseologia e della filosofia, di una filosofia umana, perché il problema della conoscenza è il rapporto tra sé e la realtà: così come si concepisce la conoscenza, si concepisce il rapporto tra sé e la realtà). Insomma, si potrebbe dire: «Con la semplicità difesa nella nostra maturità affermi la tua potenza contro i tuoi avversari»],
per ridurre al silenzio nemici e ribelli.
Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissate,
che cosa è l’uomo
[cos’è mai l’uomo?] perché te ne ricordi
e il figlio dell’uomo perché te ne curi?»
.
Ma questo - scusate - mi trovo a dirlo tutte le volte che debbo andare a compiere gesti in cui devo essere aiutato, perché da vecchi è così! Per il bambino questa non è una sofferenza, un sacrificio per l’ideale, cioè per il senso di quel che fa. «Non c’è ideale al quale possiamo sacrificarci»: non c’è senso della vita che possiamo sorprendere, perché tutto quello che si dice nella mentalità moderna come tale è menzogna.
Eppure l’hai fatto [questo uomo] poco meno degli angeli [poco meno di Te: «degli angeli» è una formula biblica per dire «manifestazione di Dio». L’angelo è la manifestazione di Dio], di gloria e di onore lo hai coronato [di gloria e di onore: non appena i re o i presidenti delle repubbliche; non i capi di stato maggiore o i professori universitari. Hai coronato di gloria e di onore ogni io: di gloria nella realtà che si modifica, nella realtà che prende le sue forme, nell’evoluzione, e di onore (lo fai sentire nella sua dignità e gli altri lo devono guardare secondo questa sua dignità, piccolo e disfatto come possa essere un uomo). E perché, perché hai fatto così? Perché l’hai coronato di gloria e di onore?].
[Perché] gli hai dato potere sulle opere delle tue mani [potere sulla realtà, sul cosmo: questa è l’intuizione e il riassunto di tutto quello che si può dire della storia: «gli hai dato potere sull’opera delle tue mani», sulla creazione], tutto hai posto sotto i suoi piedi».
Capite da dove è nato il degrado dell’uomo? Da qui! L’uomo, sentendosi fatto con questo potere, degrada tutto, tende a degradare tutto: «Io sono la misura di tutte le cose» diranno della ragione, confondendo che cosa sia la ragione con una pretesa loro, con una pretesa: «La scienza è contro la Chiesa» (invece la scienza è contro la Chiesa quando non è scienza, ma preconcetto che si scarica addosso alla realtà ecclesiale e a ciò che dice Dio).
Dentro questo salmo c’è la definizione dell’uomo come destinazione, come senso della sua vita (senso della sua vita è il rapporto con chi lo crea: «Con la bocca dei bimbi e dei lattanti affermi la tua potenza»).
Ma perché Dio dà valore al piccolo gesto, all’istante che passa, quando l’uomo cerca di esprimersi? Perché l’uomo è rapporto con Sé. Dicevamo altre volte che tutto il cosmo giunge a un certo punto di evoluzione o di qualificazione, in cui diventa autocoscienza [9]: si chiama io quel punto. L’io è l’autocoscienza del mondo, del cosmo, di sé. E allora il cosmo, realmente come è, è la disposizione del contesto in cui il rapporto con Dio vive, il rapporto col Mistero vive.
Perciò, capite che parlare di lavoro è una cosa veramente interessante, se per lavoro intendiamo quello che noi non possiamo non intendere (eppure non l’intendiamo neanche un po’, la maggior parte di noi, tutti i giorni!). Il lavoro è una cosa grande, come la piccola realtà dell’uomo che dice: «Signore, che cosa è mai l’uomo perché tu te ne rammenti, te ne ricordi?». In mezzo a tutte le bestie e le bestioline del cosmo l’uomo è come un centesimo, un millesimo, un decimillesimo delle bestiole che ci sono in ogni ambito. Ma la grandezza dell’uomo - l’onore e la gloria dell’uomo - dipende dal fatto che l’uomo, il singolo uomo, è rapporto con l’infinito; e per vivere ciò che l’uomo è, per realizzare la sua persona - perché la felicità è la finale di questo processo: la penetrazione dell’eterno è questo processo - l’uomo deve prendere in mano lui tutto quello che Dio ha fatto.
Questo ottavo salmo di Davide, a un certo punto, uno lo dice tutti i giorni.

Ma io adesso vorrei proprio dire che cosa è il lavoro per un cristiano, come Cristo ha usato questa parola. Usando questa parola non con Cristo, tutto decade e diventa violenza: violenza per il potere o violenza subita senza più riscossa possibile.
L’approfondimento della parola lavoro, che dico adesso nei suoi elementi più rilevanti, è forse l’inizio del cambiamento che noi dobbiamo assumere nella società in cui siamo: cambiamento del modo con cui trattiamo noi stessi nella società che abbiamo, perché Cristo, Dio, offre l’occasione del cambiamento attraverso le condizioni della società in cui uno vive. Non è la società lo strumento che porta a noi la forza di Dio, ma la grande Presenza è continuamente data dalla Chiesa attraverso i sacramenti e le espressioni di fede del popolo cristiano. «Dio, mia forza e mio canto sei tu» [10], forza e canto: potenza operativa e creativa; e perciò sorgente della gioia e, prima ancora, della letizia - perché la gioia è di certi momenti, la letizia deve diventare normale, il sottofondo di ogni giorno -.
Il lavoro per un cristiano è come l’aspetto più concreto, più arido e concreto, più faticoso e concreto, del proprio amore a Cristo.
L’amore a Cristo, a buon conto, richiama il fatto - più di qualsiasi altro rapporto - che l’amore è un giudizio dell’intelligenza che trascina con sé tutta la sensibilità nostra, tutta la sensibilità umana. Altrimenti il giudizio è qualcosa di gretto, come il giudizio di cui certa magistratura di questi tempi dà abbondanti esempi; ma anche come noi moralisti, che dal pulpito sottolineiamo sempre le cose come debbono essere e quindi giudichiamo gli atti non secondo quella tensione al meglio e al giusto che rende morale ogni uomo: pesiamo soltanto l’esito negativo o il tradimento che a noi non rimproveriamo, ma agli altri sì.
L’amore a Cristo è un giudizio dell’intelligenza. L’amore - non solo «l’amore a Cristo» - è un giudizio, implica un giudizio. Il giudizio è un riconoscimento di verità, è un riconoscimento dell’essere. Il giudizio è lo sguardo all’essere che viene percepito come da un bambino: l’esito della realtà che emerge ai miei occhi è uno stupore. Se si mantiene questo, si capisce da lì come è stato fatto l’uomo nel guardare tutto, riguardo a tutto. Le certezze nascono di lì, le evidenze della certezza nascono di lì, altrimenti diventano una definizione del potere, cioè di un’estraneità che sempre riduce e cambia a seconda dei suoi tornaconti: il potere non vuole altro che sudditi, nel senso di schiavi.
Perciò, il lavoro ci costringe a diventare più cristiani, a ripensare al nostro amore a Cristo, a ripensare a come io vivo, all’utilità con cui vivo e per che cosa sia stato dato tutto.
Il lavoro come l’aspetto più concreto - più arido e faticoso (e concreto, però!) - del proprio amore a Cristo: concreto vuol dire l’aspetto più esistenziale, più inserito nelle cose che ci circondano, nelle circostanze.
Mi sono soffermato sulla sottolineatura che l’amore a Cristo (ma non l’amore a Cristo appena, ma anche al tuo compagno, a quello che vorresti far tu con altre persone, o l’amore della mamma verso il figlio) è un giudizio dell’intelligenza che trascina con sé tutta la sensibilità umana. La sensibilità umana è per dire l’esigenza compiuta della promessa che è la vita, della promessa che è la nostra struttura originale. L’intelligenza vuol dire riconoscere che Gesù è Dio, Dio è diventato uomo: riconoscere questo. Se c’è un uomo che è Dio (come si legge nel vangelo di Natale, come si dice nell’Angelus), l’inserimento di un bisogno, di una necessità o di una situazione nel dialogo con questo uomo - la preghiera, cioè - è la sincerità e la serietà di essere uomini. «L’intelligenza trascina con sé tutta la sensibilità umana»: davanti a questo uomo la mia intelligenza non può non trascinare con sé tutta la mia sensibilità! Dovrebbe accadere - tu lo devi ammettere - anche per la tua sensibilità che non si muove, perché non la richiami, tra l’altro! Tu sei passivo, ultimamente passivo e ti aspetti che la compagnia faccia in vece tua, ti aspetti che le formule e le cose ripetute facciano al posto tuo, si mettano al posto tuo. Invece no, sei tu che... Eh, non posso adesso ricordare cos’è la libertà: andate a rileggere gli Esercizi alla Fraternità dell’anno scorso [11].
Il lavoro come l’aspetto più concreto e arido e faticoso del proprio amore a Cristo: parlo di questo perché la volta scorsa avete messo a tema la memoria di Cristo, il valore della memoria di Cristo; perciò con questo mio intervento mi attacco a tirare delle conclusioni dalla supposizione che per voi sia stato un richiamo reale quello della memoria.

Per sua natura l’amore a Cristo compone il desiderio che domina la vita, quello della felicità; ma lo compone in modo tale da farlo diventare vero, con una constatazione: che il nostro desiderio della felicità diventa desiderio che tutti gli uomini raggiungano la felicità. La mia povera mamma era così religiosa e ho capito dopo tutto quello che mi dava, e che razza di gratitudine dovevo avere per lei, per Dio che mi si è dato attraverso lei: perché tutte le sere, venendo a farmi sotto le coltri - io lo ricordo da cinque anni in su, fino a quando sono andato in seminario (compivo dieci anni) -, neanche una sera ricordo in cui non fosse venuta a dire: «Pensiamo ai poveri...», «Pensiamo a quel che è successo in Giappone», «Pensa alla guerra che c’è in Cina» Mi richiamava tutto questo, anche quando ero un po’ grandicello, i primi anni di seminario, dove nessuno ci diceva della Cina e tanto meno della povera gente (sì, ci dicevano: «Ai poveri bisogna dare la nostra offerta»).
È l’amore a Cristo che per sua natura compone il desiderio che domina la vita, cioè soddisfa il desiderio che domina la vita come promessa indiscussa, perché la promessa è la natura del nostro cuore: intelligenza e affettività (giudizio che si tira dietro tutta la sensibilità del cuore). Di fronte all’essere della realtà, di fronte alla realtà che emerge ai tuoi occhi, tu sei colpito: è evidente che c’è questa persona davanti, è evidente che questa persona ti vuol bene, perché si curva verso di te - la zia si curva verso di te bambino e tu senti che la zia è parte della mamma! Io avevo, per esempio, una zia zitella, ma era molto intelligente. A 50 anni si è accorta di non potersi più sposare (!) e ha fatto un gruppo di zitelle in parrocchia, che ha composto la vita di tante. «Composto», cioè pacato, resa pacata la vita di tanti, perché affermando ciò che è al fondo della propria esistenza l’uomo riposa, come dice un salmo di Compieta: «In pace mi corico e subito mi addormento» - [12].
Ora, cos’è il lavoro, per essere una cosa così definitiva e decisiva (ho detto che il lavoro è l’aspetto più concreto dell’amore a Cristo)? Pensate a chi va alla Pirelli o alla Fiat stamattina per otto ore (stanno tentando di organizzare uno sciopero, che adesso è sconsigliato da un certo sindacato perché è contro il governo: la prima cosa è salvare il governo, poi viene rimediare alla disoccupazione, stare attenti alla giustizia Ma non la giustizia concepita come lo strumento per eliminare gli avversari!). Il lavoro è l’espressione totale della persona. Se quel che abbiamo detto prima è giusto, cioè in quanto l’uomo è rapporto con l’infinito, con l’eterno, col Mistero - si può dire così: «rapporto col Mistero», per spiegare di più la realtà, la verità di quanto dico -, allora il lavoro veramente prende tutto e tutte le espressioni della persona. Si chiama lavoro tutto ciò che esprime la persona come rapporto con l’infinito. Perché per il muratore o il minatore i gesti che fanno, mettendo su un mattone o zappando un sotterraneo, sono rapporto con Dio: per questo devono essere rispettati, per questo devono essere oggetto di giustizia reale e di amore anche, e quindi di aiuto. Perché? Perché sono lavoratori e perciò sono esseri chiamati ad amare Cristo. Perché c’è questo nesso tra amare Cristo e il lavoro? Perché il lavoro è la forma espressiva della personalità umana, del rapporto che l’uomo ha con Dio (Gesù definisce Dio l’eterno lavoratore) [13].
Nella lettera agli Efesini san Paolo dice [14]: «Non cesso di render grazie per voi, ricordandovi nelle mie preghiere, perché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria [generatore della gloria], vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui [possiamo dirlo di noi questo augurio]. Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente [gli occhi della mente, che diventano, poi, come corollario, occhi fisici che vedono quello che gli altri non vedono, anche nelle apparenze] per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi [che tesoro di gloria racchiude il nostro seguire i santi: “Guardate ogni giorno al volto dei santi e traete conforto dai loro discorsi” [15] aveva scritto don Villa su una parete della casa posticcia e di breve durata che ha avuto, in una parrocchia centralissima di Milano, che è quella di piazza San Babila] e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza [della sua presenza, meglio. Qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di me] verso di noi credenti secondo l’efficacia della sua forza che egli [il Mistero] manifestò in Cristo [nell’uomo Cristo], quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli [Cristo, con la sua morte e risurrezione, esprime tutto l’uomo, l’uomo nell’handicap della sua esistenza, da bambino, quando deve crescere come un animaletto, e da grande, quando si confonde dentro le sue idee], al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si possa nominare non solo nel secolo presente ma anche in quello futuro. Tutto infatti ha sottomesso ai suoi piedi e lo ha costituito su tutte le cose a capo della Chiesa, la quale è il suo corpo, la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose».
Cristo, che costruisce nel tempo il suo corpo, che dilata il suo corpo, il corpo dell’io di Cristo (lo dilata con la forza che il Mistero, il Mistero dello Spirito Suo, dà a lui, perché il Mistero lo ha preso, fatto e preso, fatto e portato nella natura stessa di Dio: fatto uomo, Dio si è fatto uomo), questo Cristo, Dio fatto uomo, ha avuto sottomesso ai suoi piedi tutto (tutto!) e il Mistero «lo ha costituito su tutte le cose a capo della Chiesa», perché tutte le cose diventano sue, dimostrano che quest’uomo è il Signore di tutto, esprime quello che il Mistero è nelle cose. «Lo ha costituito su tutte le cose a capo della Chiesa [la quale è la modalità e il luogo in cui tutte le cose, attraverso la coscienza attiva dell’uomo chiamato, dell’uomo battezzato, dell’uomo che ha conosciuto Cristo, partecipano in qualche modo del suo corpo]. Tutto infatti ha sottomesso ai suoi piedi e lo ha costituito su tutte le cose a capo della Chiesa, la quale è il suo corpo [Chiesa come corpo di Cristo], la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose». La Chiesa è il luogo di colui che si realizza interamente in tutte le cose, di colui che ha la padronanza, la signoria su tutta la storia. Per questo diciamo che il senso della storia è la gloria di questo uomo, è che tutti diano gloria a questo uomo: perché il corpo di questo uomo è la pienezza che si realizza interamente in tutte le cose. La pienezza di tutte le cose è come un fiume che porta al mare, e il mare dove tutto confluisce è Cristo: nella storia tutto confluisce a lui. Come confluisce a lui? Questo fiume immane incomincia come un ruscello; questo ruscello diventa sempre più largo assimilando tutte le cose: è come un’acqua che incomincia da una sorgente e prende tre centimetri di larghezza, poi ne prende trenta, ne prende quaranta e poi ne prende centomila. È la Chiesa nella storia lo strumento perché tutti gli uomini vengano a Cristo. Così, partendo da pochi, con un misterioso eppur constatabile dinamismo che si chiama testimonianza della fede, la Chiesa ha dato a Cristo tutta la sua storia.
Se il lavoro è l’espressione dell’uomo sulle cose, l’amore a Cristo c’entra, è alla radice, perché di Cristo sono tutte le cose. Questo si vedrà alla fine del mondo, l’ultimo giorno, ma il metodo di Dio, il piano di Dio implica che questo ultimo giorno sia preceduto dalla storia della Chiesa come corpo di Cristo, sia preceduto dalla storia del corpo di Cristo nel tempo.

In che modo noi concorriamo a compiere la Chiesa, a compiere il dovere che ha la Chiesa, il compito che ha la Chiesa? Come noi contribuiamo a rendere più ricco il corpo di Cristo, a dare gloria a Cristo, che è lo scopo e il senso della vita di ognuno che è chiamato a questo (l’unico criterio che, da tutta la sua defezione o debilitazione, l’uomo deve avere)? Come noi concorriamo a questo? Se viviamo - e quanto più viviamo - ogni azione, ogni espressione della coscienza di noi stessi che diventa soggetto di un’azione, se affrontiamo le nostre azioni secondo la mentalità di Cristo, non secondo la mentalità del mondo che è o espressione di un istinto o di una reazione, oppure espressione di potere, di possesso. La differenza tra il rapporto giusto dell’uomo con la donna e il rapporto sbagliato, traditore, è qui. Perché il rapporto non è affrontato secondo la mentalità di Cristo: Cristo non è niente in quel rapporto, non c’entra niente, c’entra l’istinto o il calcolo, per cui il rapporto diventa sempre - sempre! - violenza.
Nella misura in cui l’uomo vive la fede in Cristo, la memoria di Cristo in tutto quel che fa, in quella misura la Chiesa vive, rivive, si dilata e, dilatandosi, prende anche altri, come vedrete quando mediterete sulla missione.
In questi mesi mi sono arrivate tante lettere in cui si diceva: «La verginità che utilità ha?», «Il centuplo quaggiù dov’è?», «E poi, senza bambini - dicono le donne -, senza bambini non è essere veramente donne». Nonostante tutta la verosimiglianza che questi giudizi hanno, sono giudizi che dicono di un tipo di intelligenza che non ha avuto la grazia di avere come oggetto il fatto cristiano, l’avvenimento cristiano: non l’hanno visto. Come quando la prima volta sono andato in Brasile in nave: a un certo punto, dopo Gibilterra, ho visto un cosino in alto, un triangolo in alto e ho domandato al capitano: «Capitano, cos’è?». «È la vetta del vulcano di Tenerife» (dopo, passando al ritorno, l’ho visto giù dall’aereo!). Siamo arrivati sotto Tenerife “bordando” tutta l’isola alle otto di sera; quando avevo domandato al capitano così eran le otto del mattino: ci abbiamo impiegato dodici ore per vederlo ‘sto vulcano [16]! Ma nessuno dei compagni di viaggio aveva visto quel triangolo posato sopra tutta la nebbia e riapparso tra le sei e le otto del pomeriggio.

Comunque, io volevo dirvi che il nesso tra lavoro e Cristo è un nesso oggettivo, perché di Cristo è tutto ciò che c’è: è il Signore, Rex universi; in Cristo tutto diventa una cosa - uno! -, come ridirà la liturgia di Cristo Re. Christe cunctorum dominator alme [17]: o Cristo, di tutto Signore fecondo.
La fecondità della vita dell’uomo non è data necessariamente dall’avverarsi in lui dell’esperienza che fa il gatto con la gatta e il cane con la cagna (o il toro con la vacca, per dire un paragone più dignitoso!), ma perché diventa generatore di creature che sono sulla strada della completezza, sulla strada della felicità: rivela il senso della vita, educa al senso della vita, testimonia il senso della vita (il senso della vita essendo dato da Cristo, quel Cristo che si rende presente nel mondo, nella storia, attraverso la dilatazione del suo corpo).
Vi ricordate il paragone che facevo dei bambini che sono ai piedi di Gesù [18]? I più piccoli vedono una mano che va sulla loro testa, e vedono questo vestito rosso, questa tonaca rossa e non vedono la faccia di quel che è su; ma anche dopo tanti anni, anche da vecchi, ricorderanno quei momenti. La veste di Cristo siamo noi, adesso, in questo passaggio fulmineo che è la vita: «un soffio è la vita dell’uomo» [19], dice il salmo 89. «Un soffio è la vita dell’uomo»: quando avrete settanta, settantasei anni sarà evidente questo (mentre si è giovani non si capisce, perché sembra tutto presente a sé!).

Essendo, dunque, il lavoro l’espressione della persona con le cose e la realtà presente, è l’amore a Cristo che rende più capaci di lavorare. È una cosa totalmente diversa quando uno va al lavoro per amore di Cristo, quando uno nella memoria di Cristo lavora: c’è un’attenzione alla totalità, una finezza nel giungere a tutti i capillari, una pazienza nell’ampliarsi del tempo, un rispetto, perciò, del tempo che ci vuole, e poi una non mormorazione, un non lamento delle circostanze che ti fanno diventare sgradito il particolare. Anzi, è ravvivato in lui il senso d’una fraternità che si ponga anche di fronte a chi gli ruba la casa, al potente, al signore, al padrone (ma dovrebbero allora usare di più questa solidarietà tra di loro: contro i sindacati che non sono molto determinati dal valore del singolo, ma da un giudizio in funzione del proprio valore politico!).
L’amore a Cristo c’è nella misura in cui uno sente questa missione che è nel lavoro, questa natura del lavoro. Il rapporto con Dio è rapporto con Cristo, perché il Mistero si è rivelato in quell’uomo, e tante cose che quell’uomo ci ha detto sono squarci di luce nel buio del Mistero (ma non ci è stato rivelato tutto; e non solo, perché, per esempio, dicono a Cristo: «Quando è che verrà quel giorno, l’ultimo giorno?». «Di quel giorno e di quell’ora nessuno sa, neanche io» [20]. Il Mistero non si può esaurire perché si comunica. Lo scopo di Dio, creando un uomo, è stato creare uno che lo riconoscesse; ha creato un rapporto familiare, che le prime pagine della Bibbia specificano con accenni, come: «Dio scendeva a parlare con loro sul limitare della sera» - vi ricordate che la Bibbia dice così? -) [21].
Se noi amiamo Cristo, lavoriamo meglio, perché comprendiamo. I lavoratori che erano con me sui treni della Nord dal seminario di Venegono a Milano, le prime volte che venivo giù per Gs (anche tre volte al giorno, un’ora e mezza per venire, un’ora e mezza per andar su, quindi quando venivo tre volte al giorno era un bell’affare!) [22], quei lavoratori lì non capivano (e quindi son diventati comunisti. I comunisti desiderano il potere come un cristiano desidera il Paradiso! E adesso al potere sono saliti! Non sono saliti loro: sono saliti con la partecipazione di cattolici. Ma questo è accaduto perché certe associazioni cattoliche avevano più il senso dell’organizzazione che neanche il desiderio del recupero del proprio rapporto con Cristo e del rapporto della società con Cristo).
Comunque, il rapporto con Cristo decide della verità del lavoro: con qualsiasi cosa. Il lavoro è l’espressione dell’uomo che usa, manipola tutto ciò che gli sta attorno. Innanzitutto il proprio corpo, la moglie, i figli, la mamma, il papà: tutto è lavoro, perché è espressione dell’io. Se questa espressione dell’io è vissuta nella memoria di lui, allora diventa tutto diverso, è destinato a diventare tutto diverso. Quante volte uno mi dice: «Ma c’è un mio compagno di lavoro che è stato colpito da quel che dico o da quel che faccio o dal mio atteggiamento, e mi ha detto: “Ma come mai sei così?”». Questa è la domanda che tutti fanno prima di rassegnarsi a essere cristiani come noi: «Come fate a essere così?».
Perciò, il lavoro, in tutta la sua gamma, è proporzionale all’amore a Cristo. Ma è vero anche l’inverso: che l’amore a Cristo rigenera tutto il nostro lavorare. L’amore a Cristo, cioè, non è vero, se non interviene in qualche modo nella grande - come dire - kermesse del nostro lavoro. Ma il lavoro non si può amare, se non si ama Cristo: il lavoro si subisce, si tollera; ci si adatta («perché devo prendere i soldi al ventisette del mese»).

Quando parlerete o parleremo della “casa” e della “regola”, parleremo di lavoro: è lavoro quello. Alzarsi al mattino, andare lì dove dite le Lodi e vedere quelle facce, quattro, cinque, sei, dieci facce, vederle così slavate o così senza motivo per iniziare la giornata, perché la maggior parte di noi è così, o non vederle neanche, perché non sono venute (e questo è peggio ancora): è lavoro sopportare o tollerare questo, vincendo un katéchon, un ostacolo (perché per andare a lavorare alle otto alla Pirelli tu devi superare l’ostacolo del partire di casa alle sette!). È l’amore a Cristo che spiega tutto questo e che rende non «tollerabile», ma amoroso il rapporto che abbiamo con tutti gli uomini e con tutte le cose, questa espressione di noi che noi non avremmo mai previsto, non avremmo neanche supposto. L’amore a Cristo rende possibile tutto, semplificando tutto.
L’amore a Cristo è un giudizio dell’intelligenza - vi dicevo - che trascina con sé tutta la sensibilità umana; è un giudizio sul rapporto che ho con certe persone o certi ambiti o certo pezzo di Chiesa dove si capisce che Cristo c’è, perché si cambia tutto in nome di lui, perché c’è un influsso su chi ci va. Il giudizio dell’intelligenza è: «Qui c’è Cristo»; questo dà uno shock, dà un colpo alla nostra persona, alla nostra personalità, alla nostra storia, e così desta un’evidenza e un gusto, una certezza, un gusto di certezza, che è proporzionale a come noi facciamo le cose: incomincia a costituire vero il rapporto.
Andare all’università, dopo, a insegnare o a essere insegnati, o andare alla fabbrica dove tu sei capo, vice capo o vice sottocapo oppure sei solo uno come gli altri, il far questo è lavoro il cui soggetto adeguato è l’amore a Cristo. Perché Cristo è il senso di tutto e la memoria di Cristo è l’antefatto di ogni realizzazione, di ogni creazione. Quando le nostre dita plasmano - come quelle di Dio il cielo e le stelle - quel che si fa, rendono presente Cristo in quel che si fa. Per questo val la pena andare al lavoro.

È da compiere questa premessa a tutto quanto leggerete o sentirete dire del lavoro. Io ci ho insistito, perché è strano sentir parlare del fatto che il lavoro sia l’aspetto più concreto anche se arido, più arido e più faticoso, del proprio amore a Cristo!
Ragazzi, dobbiamo dire che Cristo è così interessante che non si può toglierlo, non si può più toglierlo: dov’è entrato e ha dato un pugno nello stomaco, dove c’è stato un sussulto, dove c’è stata un’apertura d’occhi per un minimo di stupore, la tua vita è chiamata a destarsi tutta a questo primo impulso. Perché se non ci fosse Cristo, non sarei che una creatura finita [23]. Chi lo diceva? San Gregorio Nazianzeno. Oppure?

«Quando ho incontrato Cristo mi sono scoperto uomo» [24] diceva Mario Vittorino nel IV secolo, l’ultimo grande retore. Oppure quel che avevo scritto su un’immaginetta del mio seminario - una faccia di Cristo di Carracci -: «Io penso di non poter più vivere se non lo sentissi più parlare» [25].
Dobbiamo chiedere alla Madonna la grazia di credere veramente e con letizia, perché non c’è nessuna verità più evidente di questa nella nostra vita e perché l’evidenza porta con sé tutto il flusso della sensibilità umana. Per questo non si può conoscere, se non si conosce con affezione: senza affezione non c’è conoscimento, ma proiezione di un preconcetto sulla cosa. È lo stupore che la cosa ci ingenera che rende l’intelligenza capace di afferrarla (il bambino è così). Come dice il salmo: «Tu mi hai visto, mi hai conosciuto nel ventre di mia madre» [26], così noi dobbiamo pensare Dio. O come quando Cocagnac fa cantare «Oh, si tu savais combien je t’aime, tu retournerais Jérusalem», «Ritorneresti, Gerusalemme, a me, verresti ancora a me, se tu sapessi quanto t’amo»: più che scusarsi, deve prevalere l’attaccamento a Cristo!

Però, per parlare di queste cose dobbiamo concepire tutti i nostri rapporti come offerta a Cristo. Allora prendiamo qualsiasi cosa perché il rapporto con essa diventi parte della veste di Cristo, che è il corpo di Cristo che si dilata in tutta la storia. Per questo Cristo è presente, totalmente presente, e non solo attraverso l’Eucarestia! L’Eucarestia è il segno grande, il Mistero che si identifica col segno; ma tutto il contesto umano - che si esprime sommamente nell’Eucarestia, che esprime il suo rapporto col senso della vita e col Mistero nell’Eucarestia -, tutta la vita umana è questo oggetto. Così l’uomo spinge la mano e prende la cosa e la plasma, e allora gli altri, e allora il mondo, passando di lì, vedendo una cosa plasmata in quel modo, è stupito e domanda: «Ma come mai, come mai qui c’è questa roba? Non c’è nessun posto nel mondo in cui ci sia uno stabilimento che faccia questa cosa così!».


Note
1 AM Cocagnac, «Chant de penitence», in Il libro dei canti, Jaca Book, Milano 1976, pp. 520-521.
2 1 Cor 15, 28.
3 Tu o dell’amicizia, Appunti dalle meditazioni di L. Giussani per gli Esercizi della Fraternità, suppl. a «Litterae Communionis - Tracce», n. 6, giugno 1997.
4 Cfr. Sal 51, 5; 61, 5; Is 59, 3; Ger 6, 13; 8, 10; 9, 4.
5 «Il n’est pas d’idéal auquel nous puissions nous sacrifier, car des tous nous connaissons les mensonges, nous qui ne savons point ce qu’est la vérité» (A. Malraux, La Tentation de l’Occident, Bernard Grasset, Paris 1926, p. 216).
6 Cfr. Dt 6, 6-9.
7 Cfr. Rm 14, 8; 1 Cor 10, 31; 1 Ts 5, 10.
8 Cfr. Gv 14, 6.
9 Cfr. L. Giussani, «Tu» (o dell’amicizia) , BUR, Milano 1997, p. 329.
10 Cfr. Es 15, 2; Sal 117, 14; Is 12, 2.
11 Tu o dell’amicizia, Appunti dalle meditazioni di L. Giussani per gli Esercizi della Fraternità, op. cit., pp. 17-18.
12 Sal 4, 9.
13 Cfr. Gv 5, 17.
14 Ef 1, 16-23.
15 Didachè, IV, 2, in I padri apostolici, Città Nuova editrice, Milano 1978, p. 32.
16 Cfr. L. Giussani, Si può (veramente?!) vivere così? , BUR, Milano 1996, p. 137.
17 «Christe cunctorum», Inno della dedicazione del tempio, in Analecta Hymnica Medii Aevi, vol. 27, a cura di C. Blume, Leipzig 1897, p. 265.
18 Cfr. Tu o dell’amicizia, Appunti dalle meditazioni di L. Giussani per gli Esercizi della Fraternità, op. cit., p. 31.
19 Cfr. Sal 89, 9.
20 Cfr. Mt 24, 36; Mc 13, 32.
21 Cfr. Gen 3, 8.
22 Cfr. L. Giussani, «Tu» (o dell’amicizia) , op. cit., pp. 52-53.
23 Cfr. san Gregorio Nazianzeno, «Carmina» II/I, carme LXXIV, vv. 4-12, in Patrologia Graeca, XXXVII, Paris 1862, coll. 1421-1422.
24 M. Vittorino, In epist. ad Ephesios, libro II, cap. 4, v. 14, in Marii Victorini Opera exegetica, vol. II, ed. F. Gori, Vindobone 1986, p. 16.
25 Cfr. A.J. Möhler, Dell’unità della Chiesa, Tipografia e libreria Pirotta e C., Milano 1850, p. 52.
26 Cfr. Sal 138, 13.