Un continuo inizio del popolo di Dio nel mondo, gloria di Gesù nella storia

Parola tra noi
Julián Carrón

Appunti dalla sintesi di Julián Carrón
all'Assemblea internazionale responsabili di Comunione e Liberazione

La Thuile, 28 agosto 1996



Dal lavoro fatto in questi giorni si capisce meglio
che cosa ci sta veramente a cuore. Come desidero, per ognuno di noi, che
capiamo bene le ragioni! Come desidero, per la mia carissima Francesca,
che capisca bene le ragioni! Però, come si interessa uno per il destino
della gente, delle persone, in pochi giorni! E quando avverte un tale interesse,
desidera che accada questo «capire le ragioni». Come ha detto
don Giussani all'ultima Equipe del Clu (cfr. Tracce, settembre '96),
quello che manca, tante volte, è proprio capire bene le ragioni,
capire bene «di che cosa si tratta», perché la vita non
è un problema sentimentale. Capire bene di che cosa si tratta ci
fa comprendere meglio che cosa ci sta a cuore, che cosa ci interessa veramente
nella vita e il punto sintetico dove guardare per non smarrirsi.

Che cosa abbiamo detto in questi giorni?

Quanto più uno entra in contatto con la realtà, quanto più
la realtà lo colpisce, tanto più essa lo rimanda a un Altro.
È la dinamica del segno. Come per la ragazza che trovasse un vaso
di fiori sul suo comodino: quanto più i fiori la colpiscono, tanto
più le viene voglia di sapere «chi», il «chi»
di questi fiori, le viene voglia di conoscere il volto di questo «altro»
che ha donato i fiori.1 È questo l'inizio della vittoria sul positivismo,
perché è come se lei non potesse rimanere ferma su quello
che vede: la realtà la rimanda oltre, oltre, la rimanda a questo
«chi», a colui senza il quale i fiori non sarebbero lì;
senza questo «chi» non si spiegherebbe la presenza dei fiori.
Quanto più quella ragazza si imbatte in quei fiori tanto più
le viene voglia di conoscere il volto di questo «chi». Così
è in ogni impatto con la realtà. «Chi sei Tu che riempi
tutta la vita della Tua assenza, che riempi tutta la vita della Tua presenza,
chi sei Tu?».2

Ma questo «chi» rimane sconosciuto a noi. Con tutte le nostre
forze, con tutta la nostra immaginazione, non riusciamo a scoprirne il volto;
quanto più lavoriamo tanto più è un'immagine che ci
facciamo di qualcosa che non conosciamo. Tutto lo sforzo di mettersi in
rapporto con questo Sconosciuto è stata la fatica di tanti uomini
lungo i secoli. Qui si capisce bene qual è la situazione dell'uomo,
di che cosa veramente si tratta nella vita. Quid animo satis? Che
cosa riempie il nostro animo, la nostra anima, il nostro cuore? C'è
sempre qualcosa che è al di là.

Ma, improvvisamente, un uomo entra nella realtà, come parte della
realtà che tu tocchi, vedi, senti: un uomo. È lui che prende
l'iniziativa, è lui che viene incontro alla nostra umanità,
che ha misericordia della nostra vita, del nostro destino: è lui.
È lui. Qui sta il cambiamento di metodo (come abbiamo imparato dalla
Scuola di comunità): non è più uno sforzo nostro, ma
è una iniziativa che prende lui di venire incontro a ognuno di noi.
Tale cambiamento di metodo rivela il nuovo che è capitato nella storia,
l'unica vera novità: l'unica vera rivoluzione è questa. Tutte
le altre sono diverse forme dello stesso sforzo che l'uomo compie per raggiungere
questo «chi», che rimane ignoto. L'unica vera novità, l'unica
vera rivoluzione è l'entrata del Mistero nella storia, l'entrata
di questo uomo. E questo si rivela in un incontro, come quello capitato
a Giovanni e Andrea. Quel giorno si erano alzati al mattino, come tutti
gli altri giorni. Andavano ad ascoltare Giovanni il Battista, il profeta.
Improvvisamente, si sono imbattuti in una Presenza, in una Presenza nuova,
eccezionale. Eccezionale. Avevano incontrato tanta gente, tante persone,
ma quell'uomo era diverso, perché con lui, stando con lui, si sperimentava
una corrispondenza straordinaria, che andava oltre quella di cui si poteva
fare esperienza umanamente nel rapporto con qualsiasi altra parte della
realtà. Quella corrispondenza è diversa da quella che un uomo
sperimenta vedendo il tramonto o incontrando la bellezza di una donna; è
una corrispondenza della stessa natura, ma diversa, straordinaria, che trapassa
la propria umanità, è qualcosa che ha profondamente a che
fare con la propria umanità, il proprio io che desidera, il cuore,
le esigenze di verità, di felicità, di giustizia, di pace.


Tale corrispondenza è l'inizio di un percorso che, nella convivenza
con Lui e stando attenti ai segni, finisce, per grazia, nella fede. Riconoscere
questo Gesù si chiama fede: la fede è il riconoscimento di
questa Presenza eccezionale in cui Mistero e segno coincidono. Lui, quell'uomo
che avevano davanti, questo uomo Gesù, è il Mistero che corrisponde
all'attesa del cuore.

Capite che cosa ci sta a cuore? A una persona che ha incontrato questo uomo
e che ama il proprio destino - che non trascura il desiderio del suo cuore,
che ama veramente se stessa - cosa sta a cuore se non questo uomo? Dove
uno incontra risposta alla sete di verità e di bellezza del suo cuore
come in Lui? Tutto questo è grazia. Che questo capiti nella vita
è grazia. Tutto è grazia, dall'inizio alla fine. È
grazia. Che Dio si sia fatto uomo è una cosa che nessuno può
fare, se non Lui. È grazia che io l'abbia incontrato. È grazia
che io lo riconosca. Che io lo abbia incontrato, che io lo riconosca, si
chiama «elezione». Dio mi ha eletto, mi ha scelto tra tanti uomini
per conoscere quello che è la risposta al mio cuore e al cuore di
tutti, affinché io faccia esperienza («esperienza», perché
è una Presenza che si può vedere e toccare) di quello che
è la risposta al desiderio del cuore di tutti.

Questo incontro, questo fatto, è l'inizio di una memoria. Pensiamo
ai discepoli. Stando con Lui, vedendo i miracoli, vedendo il modo con cui
guarda alle persone, vedendo come nessun bisogno è ignorato, come
ogni bisogno incontra accoglienza nel cuore di Gesù, entra nel cuore
di Gesù, vedendo queste cose vanno a casa tutti i giorni con gli
occhi riempiti di questi fatti (di questi fatti!), che hanno come protagonista
quell'uomo; così come noi ce ne andiamo via oggi con negli occhi
tutti i fatti che sono capitati, qui, in questi giorni. Il volto di questa
Presenza non si può più togliere dalla vita, non si può
togliere dalla memoria. E noi ci imbattiamo nella realtà con questa
Presenza negli occhi, senza paura. Ma perché questo «senza paura»
sia vero occorre che noi facciamo esperienza (esperienza!) della convivenza
con questa Presenza, con questi fatti; altrimenti il «senza paura»
non è possibile. Non sono le parole a togliere la paura. Quello che
toglie la paura di andare incontro alla realtà è una Presenza.
Pensate al bambino: con il suo papà, va dovunque; solo, gli fa paura
tutto.

Quello che toglie la paura nel vivere la realtà non sono le parole,
non è uno schema: è una Presenza, è la compagnia di
una Presenza negli occhi. Con questa Presenza negli occhi noi possiamo guardare
anche quegli aspetti della realtà che appaiono dolorosi. Mi ricordo
di un incontro di Scuola di comunità con gli studenti appena dopo
che uno di loro aveva avuto un incidente. Gli altri si domandavano: «Ma
come possono capitare queste cose? Come Dio può farci succedere queste
cose?». E io, rivolgendomi a uno di loro, dissi: «Se, quando ritorni
a casa questa sera, per strada incontri qualcuno che ti dà uno schiaffo
in faccia, cosa fai?». Siccome era ben messo, rispose: «Gliene
do due». E io: «Ma se, quando arrivi a casa, è tua mamma
che te lo dà?». Rimase zitto, e poi: «Le domanderei il
perché». Chiesi: «Qual è la diversità? Lo
schiaffo è lo stesso! La diversità è che quello che
incontri per strada è uno sconosciuto, la mamma, invece, non è
sconosciuta, ma una persona di cui hai la certezza che ti ama. Allora, quando
lei fa una cosa che non capisci, questo non introduce un dubbio, ma desta
una domanda».

Il problema della realtà è come noi arriviamo all'incontro
con la realtà: se noi vi arriviamo con alle spalle la convivenza
con una Presenza sulla quale abbiamo raggiunto la certezza che ci ama, quando
non capiamo qualche cosa, questo non introduce un dubbio, ma una domanda.
Perché, anche quando vediamo il volto doloroso della realtà
questa Presenza non si toglie dagli occhi - se abbiamo avuto vera esperienza,
vera convivenza nel tempo con questa Presenza. Se si toglie è per
qualcosa di cui non abbiamo fatto esperienza: vale a dire, non abbiamo raggiunto
la certezza su quella Presenza. Il problema non è la realtà,
non è come essa appare ai nostri occhi: il fatto è che noi
affrontiamo la realtà come se non ci fosse accaduto nulla, fuori
dal rapporto con quella Presenza. Perché questo è il positivo
di cui parlava Giancarlo Cesana ieri, durante l'assemblea, nella sua prima
risposta: il massimo del positivo è quella Presenza! È per
questo che noi possiamo andare incontro alla realtà senza paura.


La questione è che, nel tempo, noi non possiamo vivere le cose che
ci capitano senza pensare a Lui. Come Lazzaro, Marta e Maria. Il fratello
si ammala e loro non possono guardare alla malattia del fratello senza pensare
a Lui, senza pensare a quell'amico. Glielo vanno a dire. E sembra che a
Lui non interessi. Tarda un po'. «Se tu fossi stato qui, non sarebbe
morto!». Tante volte, quando non abbiamo subito risposta alle nostre
domande, ci sembra che a Lui non interessi più la nostra vita. «Se
credi, resusciterà». Gesù va e lo resuscita... «Per
mostrare la Sua gloria»3, dice il testo del Vangelo, per fare vedere
di più la Sua gloria, perché quello che salva la vita non
è semplicemente ritornare dalla morte per dover ancora morire. Il
problema è che si mostri di più chi è quell'uomo: la
Sua gloria. Anche quando sembra che Lui non risponda subito, facendoci attraversare
delle difficoltà, delle circostanze di cui non capiamo subito il
significato, non è perché Lui non ci ami più, ma perché
vuole qualcosa: che si manifesti di più la Sua gloria, che noi vediamo
la Sua vittoria nel tempo e nello spazio. «Questa è la vittoria
che vince il mondo: la fede»4. Il problema è solo che noi ci
siamo quando Lui interviene, che non ce ne siamo andati via.

La certezza si approfondisce nel tempo. Qui si capisce bene il valore del
tempo (che noi tante volte non capiamo): la certezza arriva nel tempo, così
come la certezza di un bambino che guarda sua mamma avviene nel tempo. Pensate
quante cose deve fare una mamma perché il suo bambino si attacchi
a lei, per farlo diventare veramente una persona. Gesù, per farci
diventare veramente uomini, per far sorgere questo attaccamento alla Sua
persona, questa certezza nella Sua persona, quanti fatti deve compiere.
Di quanti fatti abbiamo veramente bisogno per arrivare a questa certezza,
a questo attaccamento, così che, anche se la terra tremasse come
per il bambino: può tremare la terra, ma la certezza in sua mamma
rimane. È semplice, lo fa un bambino! L'unica cosa che fa la differenza
è che il bimbo non introduce niente tra il suo bisogno e la mamma:
non importa se sono le quattro del mattino, se è stanca... Non interpone
niente. Il suo bisogno è l'occasione per un rapporto, per un grido
alla sua mamma. Questo permette alla mamma di rispondere ai suoi bisogni.
Così si svela davanti al bambino il volto della mamma, chi è
veramente sua mamma per lui. È lo stesso nel rapporto fra Cristo
e noi: tutto quello che ci capita (i nostri bisogni, le circostanze che
dobbiamo attraversare) è perché si riveli chi è Cristo;
non «chi è Cristo» come nome, ma «chi è Cristo»
veramente, nella sua carne, perché Egli attraversa tutta la nostra
umanità. È una conquista che Lui fa della nostra vita, passo
dopo passo, cellula dopo cellula. E ciò avviene solo nel tempo. Altrimenti
non si arriva a una certezza. E senza certezza in Lui non si può
vivere. Lo vediamo benissimo quando ci troviamo davanti a circostanze che
ci sconcertano: ma il problema non è la realtà, è la
mancanza di certezza.

Capite, dunque, che cosa ci sta a cuore? Qual è lo scopo del percorso
che abbiamo fatto in questi giorni? Lo scopo è arrivare fino a questo
punto, perché senza l'incontro con questa Presenza e senza la strada
di convivenza con questa Presenza noi non arriviamo alla certezza: e senza
questa certezza nella Sua presenza non andiamo incontro alla realtà.
È questa la moralità: questa attrattiva che Lui, che la Sua
presenza suscita, questo attaccamento a una Presenza che affascina sempre
di più. Affascina di più perché uno vede che cosa capita
nella sua vita. L'affezione a Cristo non aumenta per il solo fatto che si
fa astrattamente la «meditazione» (come ci dicevano in seminario),
ma vivendo e stando attenti a quello che capita. Pensate ancora al bambino:
la sua affezione alla mamma come cresce? Pensando in astratto all'amore
di sua mamma oppure vivendo, vivendo le circostanze della vita, sperimentando
che cosa significa vivere la vita in compagnia di sua mamma? È nella
vita che si esprime il volto di sua mamma, chi è veramente questa
donna per lui. Lo stesso vale anche per noi, nel nostro rapporto con Cristo.
Perciò la certezza di cui abbiamo parlato si raggiunge nel tempo,
nella storia, nella vita, attraverso le vicende della vita, non girando
e rigirando il discorso.

Quando uno ha capito che questo è il problema della vita, che il
problema della vita è amare questo Gesù, comprende che cos'è
una vera amicizia. Se amare l'altro significa volere il suo bene, noi adesso
conosciamo che cos'è veramente il bene dell'altro, dell'amico, di
colui a cui desideriamo «voler bene» (cerchiamo almeno di capire
queste cose, perché così possiamo cominciare a domandare quello
che ci manca): non è semplicemente stare insieme, non è fare
delle cose, delle iniziative; il bene dell'altro è questo Cristo!
E non siamo amici, non ci vogliamo bene, se ci conformiamo a qualcosa di
meno di questo. Quando si incontrano due persone che si amano così,
che hanno questo amore reciproco, questo è un miracolo. «L'amicizia
- dice don Giussani - è l'avvenimento che il Signore del cielo e
della terra fa sorgere attraverso il suo Spirito, che agisce costituendo
il mondo di istante in istante, è un'occasione in cui il Mistero
mi fa imbattere, mi attira l'attenzione a un compagno di cammino, dapprima
estraneo, adesso - invece - intensamente guardato, osservato, desiderato
come possibile aiuto in quella occasione particolare per camminare insieme,
dentro quell'occasione, al destino. Meno del destino previsto, presentito
o implicitamente presente in una semplicità di cuore, non c'è
amicizia». Quanti problemi ci risparmieremmo nelle nostre comunità,
se lo scopo dell'essere insieme fosse questo e non: «mi guarda, non
mi guarda, ho questo ruolo...», perché non può essere
qui il problema della vita. Essere insieme per questo è stupido.
L'unico contenuto adeguato della nostra amicizia è la memoria: ricordare,
far presente, testimoniarci, aiutarci a non dimenticare Cristo. Domandiamo
che il contenuto della nostra compagnia sia che «pur vivendo nella
carne, viviamo nella fede del Figlio di Dio, che è morto e risuscitato
per noi»!5

Un'amicizia così, pian piano, diventa un popolo: uno dopo l'altro,
siamo scelti da Cristo per appartenere a questo popolo. Questo popolo è
l'insieme di coloro che Lo riconoscono, che riconoscono che «in Lui
tutto consiste», che «tutto è fatto per mezzo di Lui»6.
Perché un popolo lo si riconosce da quello che ama, come diceva sant'Agostino.
È il «per chi» si vive il criterio di giudizio per guardare
le nostre comunità: «per chi» viviamo, «per chi»
siamo insieme. Che vi siano, all'interno delle comunità, persone
che hanno la misericordia di destare, una volta dopo l'altra, questa domanda:
«per chi» viviamo, «per chi» stiamo insieme?, è
ciò che fa rimanere aperta la ferita, la ferita all'interno delle
comunità, che impedisce la dimenticanza. Senza tale aiuto vicendevole
non ce la possiamo fare. Dio ci ha messi insieme per testimoniarci l'un
l'altro «per chi» vale la pena vivere, di che cosa è fatta
tutta la realtà. E questo è la gloria di Cristo, come dice
don Giussani: «La gloria di Cristo è il fenomeno per cui gli
uomini riconoscono, per una grazia potente, per un dono potente, di che
cosa sono fatte le cose, gli uomini e le cose, di che cosa la realtà
è fatta. E la realtà è fatta di Cristo. La gloria di
Cristo è l'istante in cui un uomo capisce che tutto è fatto
di Cristo, lo grida: si chiama testimonianza»7. Lo grida, lo grida
con tutta la sua vita. Come la nostra amica che sta a Tunisi, e che insegna
italiano, non religione. Vedendola, le allieve hanno incominciato ad andarle
dietro. E i genitori (la Tunisia è un ambiente musulmano) si sono
allarmati e l'hanno accusata di proselitismo. Quando il preside della scuola
le ha domandato: «Ma tu hai parlato di Cristo?», lei ha risposto:
«Non ho mai parlato di Cristo». Ma era tutto lì, nella
sua persona, e perciò tutte le andavano dietro. Il professore di
religione, invece, non era mai stato accusato di proselitismo.

Anche davanti a fatti come questo, come possiamo dire che non si può
vivere in qualsiasi circostanza la testimonianza a Cristo? Di che cosa abbiamo
bisogno? Dobbiamo essere in cinquecento in ogni luogo di lavoro? Non è
un problema di numero, perché possiamo essere in cinquecento e non
testimoniare niente: è un problema di unità della persona,
che desta lo stesso interesse che destava Gesù, perché è
tutto lì. Non c'è ambiente dove non si possa vivere, testimoniare
questo, perché è la testimonianza che Cristo dà del
cambiamento che opera in noi: è Lui, è la sua gloria che brilla
davanti a tutti. È questa la missione assegnata a tutti noi. Che
di tutti noi si possa pregare così: «Roveto inestinguibile di
verità e di amore»; è questo roveto di verità
e di amore che affascina la vita, che può testimoniare davanti a
tutti che Cristo è tutto. Che si possa pregare di ognuno di noi (nel
suo lavoro, nel suo ambiente, nella sua famiglia), di tutti insieme nella
comunità, con queste parole: «Roveto inestinguibile di verità
e d'amore, ravviva in noi la gioia dell'agape fraterna». Perché
questo «Roveto inestinguibile», che è solo Lui, così
come ci ha fatto parte di Lui, ci fa anche parte di questo roveto nel mondo.
È questo che assicura, in un Paese musulmano, a New York o in Madagascar,
il continuo inizio del popolo di Dio. Solo questo. Solo l'essere un «Roveto
inestinguibile di verità e d'amore» per quello che ci è
capitato può assicurare il nuovo inizio: solo questo può ravvivare
in noi le nostre comunità, solo questo può ravvivare la gioia
dell'agape fraterna. Solo questo. Non è una strategia. Non è
la nostra forza. Noi torniamo a casa con questa certezza: solo l'essere
un «roveto inestinguibile di verità e d'amore» per quello
che ci è capitato ravviva le nostre comunità, ravviva il modo
con cui andiamo a lavorare, si tratti di fare lezione in seminario o di
curare i figli. Questo assicura il continuo inizio del popolo di Dio nel
mondo, nel tempo e nello spazio, gloria di Gesù nella storia.




Note
1 Cfr. L. Giussani, Il senso religioso,
Jaca Book, Milano 1991, p. 149-150.
2 Cfr. P. Lagerkvist, «Uno sconosciuto è il mio amico», in Poesie, Guaraldi/NCE, Rimini/Forlì 1991, p. 111.
3 Gv 11,1-44.
4 1 Gv 5,4.
5 Gal 2,20.
6 Gv 1,3; Col 1,16-17.
7 L. Giussani, Si può (veramente?!) vivere così?, Bur, Milano 1996, p. 275.