La fede dentro il bisogno dell'uomo: l'esperienza del Divino

Parola tra noi
Luigi Giussani

La fede dentro il bisogno dell'uomo: l'esperienza del divino

Milano, 25 maggio 1999


C'è stata un'epoca in cui ero travagliato, come coscienza d'uomo, quindi anche criticamente teso, dal pensiero gramsciano (che ognuno conosce) per il quale era evidente il fatto che non si dovesse più perseguitare la Chiesa, come il comunismo, tanto comunismo aveva fatto fino ad allora, perché, diceva, la Chiesa come valore intrinseco è morta, il messaggio cristiano si è esaurito; infatti non è più incidente, non appare più come interessante all'uomo e al giovane di oggi; si tratta soltanto, quindi, del proseguimento un po' meccanico di un certo cultualismo, nel quale si rifugia e può rifugiarsi ancora un po' di quell'aura, di quel sentimento religioso naturale che, in qualche modo, ogni uomo mantiene per natura, anche sotto tutte le ceneri di questo mondo.
Invece, facendo i primi passi e i primi raduni con gli studenti liceali, mi accorgevo che non era vero. Incominciai ad accorgermi che non era vero. L'incidenza c'era, eccome! Si manteneva l'interesse, eccome! Il problema mi sembrò, allora, chiaramente ricondursi a una questione di metodo. Significa - pensavo - che il contenuto cristiano, il messaggio cristiano come tale è valido ancora oggi come nel passato; presente come lo fu duemila anni fa, con tutte le sue caratteristiche genetiche e storiche, il fatto cristiano interessa ancora: si tratta, dunque, di un metodo da riscoprire, di una modalità di comunicazione. Questa modalità può essere stata smarrita, persa, dagli uomini di Chiesa o dai credenti che abbiano preferito il verbo mondano - il punto di vista dominante della società, la cultura dominante nelle scuole e nelle università -, cioè un tipo di cultura che non può essere veicolo semplicemente accettato del verbo cristiano, perché il verbo cristiano è incidente proprio per la sua costituzionale, originale, nativa, diversità. Allora mi ricordavo spesso di una frase, apparentemente antiecumenica, di un libro di Monsignor Garofalo, letto quando ero ancora al liceo, che incominciava così: «Il cristianesimo entrò nel mondo in polemica col mondo». Forse questo era il primo ambito in cui il mantenimento dell'interesse per il cristianesimo poteva trovare una certa facilità. Perché anche in me, anche in noi, è così: il cristianesimo è dettato o arriva alle orecchie del nostro cuore e della nostra coscienza in opposizione, in contrasto, in lotta, in polemica con quello che normalmente pensiamo, che normalmente sentiamo e con il modo in cui normalmente ci comportiamo.
Evidentemente l'alternativa, una volta notata, non poteva che urgermi e spingermi a parteggiare per la seconda ipotesi.

Così mi divenne sempre più chiaro il valore di presenza che il fatto cristiano ha. Anzi, è questa la caratteristica da cui abbiamo imparato subito a definirlo: è un avvenimento del passato che è presente. La caratteristica di questo avvenimento del passato, di questo messaggio che viene su da tanti secoli, è di essere un messaggio al mio presente; se lo ascolto, se lo tengo in considerazione, risulta essere suggestivo per il mio presente cento volte di più di ogni altro competitore, e il passato stesso prende a illuminarsi come essenza di questo presente che mi cambia. Il cambiamento, la capacità di trasformare, la capacità di far diventar diversi, questa inesauribile speranza di purità maggiore («Chiunque ha questa speranza in Lui [in Gesù di Nazareth] si purifica come Egli è puro»(1)), insomma, questo divenne sempre più evidente davanti alla nostra coscienza, ai nostri occhi, ai nostri occhi fisici, perché i compagni e gli amici che, sentita la mia parola, si comportavano meglio e reagivano meglio che neanche io stesso, erano come un conforto inatteso anche se, almeno immaginativamente, non ancora identificato. Comunque, in questa percezione rimaniamo ancora adesso attenti. La vigilanza suprema nostra è cioè nel tener limpidi gli occhi su questa alternativa. Solo questa serietà d'esperienza, per cui l'antico fatto, nella «memoria» - come si dice con parola biblica e con parola liturgica -, come memoria, si trasferisce continuamente nel presente, e l'avvenimento rimane avvenimento nel presente, con la sua forza di provocazione e la sua forza di ripresa, che cambia il presente, può mantenere vivo l'interesse per il cristianesimo.
Quando ho sentito parlare della vostra esperienza che era stata creata, questa Compagnia delle Opere, quando l'ho vista, ne ho avuto notizia, ho notato la sua permanenza, ho incominciato, su Tracce, a leggere vostre testimonianze in lettere, in notizie, ho ringraziato Iddio che l'urto pieno di letizia e di speranza con cui ero penetrato nella porta del liceo statale Berchet continuava, continuava nell'immaginazione vostra che creava opere «contro tutto e contro tutti», piccole o grandi che fossero, tentativi di dar compimento a esigenze del vostro animo, del vostro cuore, tentativi di corrispondere a ciò cui vi provocavano le circostanze, per amore della famiglia, della moglie, dei figli; ma anche per una sanità istintiva vostra, ché l'uomo non può concepire la vita come lo stare fermo tenendo le mani in mano e basta.

Spero, quindi, innanzitutto di rappresentare l'animo di tutti, di tutte le persone che hanno ispirato l'incontro di oggi. Io sono profondamente persuaso, come cristiano - anzi, sono restato cristiano solo per questo -, che la fede cristiana non è concepibile come separata (in qualunque modo separata) dallo sforzo che l'uomo fa per vivere dignitosamente, cioè per vivere col suo lavoro. Per questo la parola «lavoro» è un termine su cui abbiamo giocato tanta ricerca faticosa e speso tante parole con serietà. Sarebbe brutta una fede senza le opere, come ci dice san Giacomo. Però ho sempre pensato: «come sarebbero brutte anche le opere senza la fede!»(2). Può darsi che qui ci sia qualcheduno tra noi che abbia le opere e non abbia la fede. Fratello, ti dico, tu mi sei maestro in quello che fai, io ti sono amico in quello che ti suggerisco, non come giudizio, ma come invito affettuoso: guarda che se la tua opera è illuminata anche dalla fede, è come se diventasse più fresca, è come ossa da morto, dopo tanta fatica, «ossa da morto che sono rigogliose come erba fresca» dice un passo della Bibbia(3).
Non si può concepire la fede come nesso col Destino reale che non c'entri con quanto l'uomo, con tutta l'immaginazione che ha e con tutta la fatica che fa, rischia nel suo lavoro (perché il rischio educativo non è soltanto la scuola, è anche il lavoro, anzi è il lavoro) per dar da mangiare ai figli, per creare novità tra la gente, per far star meglio, quindi, perché la vita nella società sia più facile e anche più sicura, perché sia più dolce la convivenza nel mondo. Ciò che vorrei richiamare in questo momento è che sono cristiano perché non posso concepire la mia fede separata dalle vicende della vita, e non trovo altro che sia così corrispondente, così adeguato nella sua risposta, nella mobilitazione di tutte le mie energie di fronte alle vicende della vita, non trovo niente di più adeguato che questa fede.
La parola «lavoro» esprime - ho detto prima - quanto di faticoso e di rischioso c'è in tutte le espressioni della vita. Ho sperimentato anch'io (ma quanti di voi mi sono maestri in questo) che la vita come lavoro ha come compagnia suprema, come suo contesto adeguato, la fede che la storia ci ha portata: dalle pagine della Bibbia, dall'ardita, drammatica, tragica e triste memoria ebraica, è diventata come una presenza evidente. Dice un brano della nostra preghiera liturgica ambrosiana: «Renderò evidente la mia presenza nella letizia del vostro cuore», che corrisponde all'ultima raccomandazione di Gesù: «Vi ho detto tutte queste cose affinché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena»(4). Parlava di «gioia» poche ore prima dell'assassinio!
Andiamo al fondo della questione. L'avvenimento di Cristo, se è accaduto, c'entra con l'adesso; c'entra talmente che è un modo per cambiare efficacemente l'adesso, più efficacemente di tutte le risorse sociali che si possano immaginare, perché la parola «gioia» non può essere lo scopo assicurato da alcuna risorsa sociale pur nuovamente concepita. Perciò, rappresento l'animo vostro se il mio augurio a voi può essere anche fatto in questi termini: il dovere di chi ha la fede - di ognuno di noi che abbia la fede - il dovere supremo è proprio quello di dimostrare, di testimoniare la verità dell'avvenimento di Cristo attraverso la letizia che sa mantenere anche nelle circostanze peggiori della vita, la letizia essendo il paragone eccezionale, vertiginoso, di un cambiamento avvenuto. Un po' come diceva Raissa Maritain: «Il nostro male è come un grande peso che una grazia rende sereno, lieve». Ma io dico queste cose perché sono sicuro che per molti fra noi esse ripetono qualcosa che la loro vita ha già testimoniato a sé e agli altri.

In questo senso, noi siamo persuasi della nostra fede, anche perché essa risulta, così, profondamente razionale - razionale! -. Nella Scuola di comunità abbiamo studiato e ristudiato e sempre sentito ripetere che è razionale ciò che corrisponde alle attese del cuore dell'uomo. L'attesa del cuore dell'uomo è l'attesa di una letizia, è l'attesa di un cambiamento che «perfezioni», che «soddisfi», secondo il profondo senso latino dei termini. Razionale è ciò che corrisponde alle attese che l'uomo ha tutti i giorni alzandosi al mattino, più di tutto quello di cui i giornali diano notizia, su cui la stampa dia pareri, di cui la suggestività della televisione tenti di persuadere tutti. La fede, così centrata sugli interessi della nostra esistenza quotidiana, sperimentata così interessante, così determinante il nostro comportamento nelle circostanze quotidiane, diventa quella plaga, quel livello del nostro essere in cui la razionalità, la ragionevolezza e l'affetto alla realtà che ne nasce, la fedeltà e la lealtà con la realtà stessa, vengono incrementati.
Julían Carrón, il nostro grande amico spagnolo che sta studiando così egregiamente per dimostrare sempre più persuasivamente (a suon di critica letteraria con alto valore scientifico) la contemporaneità dei documenti evangelici alla vita di Cristo, è abituato a dire - e lo ripete spesso - che «la realtà è testarda». La realtà è testarda. Tu la dimentichi, la metti da parte, la neghi, fai finta di non accorgertene, ma a un certo punto essa riemerge nella sua pretesa: «Devi passar di qui, devi passare di qui per arrivare dove vuoi tu! Non per arrivarci alla fine della tua vita, ma giorno per giorno!» - il grande, ultimo giorno non sarà che il riflesso dell'ascesi di ogni giorno -. Veramente, quello che dice Julían Carrón, lo dice anche un famoso romanzo di Bulgakov, Il Maestro e Margherita. Chi ne ha visto anche solo il film ricorda la scena dei due professori universitari sulla Piazza Rossa che stanno discutendo con sicumera delle pretese «matte», di gente poco preparata, di affermare che Cristo è storico e che i documenti di questa storicità sono nelle mani di tutti, perché sono i Santi Evangeli. E mentre così discutono, arriva un terzo professore universitario, vestito come loro. «Di che cosa state parlando?». «Stiamo parlando di questo e di quest'altro: è assurdo che un uomo dell'epoca moderna ancora difenda la storicità di Cristo e, soprattutto, la storicità dei documenti che ne dimostrano l'avvenimento datato». Questo terzo individuo si allarma e dice con impeto: «No, no: avete torto voi!». Una discussione feroce. Quel terzo individuo era il diavolo, era un travestimento del diavolo. Come dice il Nuovo Testamento, anche i demoni credono all'esistenza di Dio, debbono credere all'esistenza di Dio per forza, et contremiscunt (ne hanno una fifa blu). «Perché - diceva il terzo incomodo - i fatti sono ostinati». Ciò che è stato fatto, ciò che è diventato fatto nella storia, nel tempo umano, è ostinato: continua a riproporsi, non c'è verso di toglierlo via, di strapparlo via.
Invece, che cosa altri dicono, altri che non dicono quel che dice Gesù, documentato nel Santo Evangelo? Che cosa ci dicono per farci star buoni, in ordine, in un ordine tollerabile? Ci condannano prima di interrogarci. Oppure prendono possesso di tutti i giornali, lasciando inebetiti tutti, nel senso che tutti si irrigidiscono, perché nell'uomo perseguitato da un pensiero omologante, da una proposta omologante, non può non irrigidirsi il fervore suo creativo e tendere a diventare zero.
Voglio semplicemente dire che la fede, corrispondendo alla nostra vita di ogni giorno, avendo un potere di cambiamento - d'influsso e di cambiamento - nella vita di ogni giorno, la fede è utile, in tutti i sensi. Lo dice san Paolo: pietas, la pietà, il senso di Dio, è un ottimo fattore per risolvere tutte le cose, avendo la promessa sia per il futuro che per il presente. Altrimenti gli altri, uno è costretto a notare, hanno una sola risorsa, in qualunque modo sia concepita: la violenza. Non la scelta, la libertà che sente, percepisce la vicinanza, la prossimità di qualcosa che corrisponde al cuore e con essa stringe amicizia e leale legame di corrispondenza: invece che questo, gli altri hanno una sola risorsa, che è - ripeto - la violenza.
Quando ero in quinta elementare, nel 1932, c'era il testo di Stato per tutta l'Italia. I cinque anni delle elementari avevano il testo di Stato ogni anno. Quello di quinta elementare narrava una storia che interessava soprattutto due figure: un certo Sergio e un certo Cherubino (è un puro ricordo di 64 anni fa, ma mi pare di ricordarmi bene). Erano due amicissimi, opposti come carattere e come rendimento. Sergio intelligente, lindo, ordinato, era amicissimo - come spesso succede in questi casi - del più scavezzacollo della classe, di Cherubino, che pure era intelligente, ma era ignorante perché se ne infischiava della scuola e di tutto. Mi ricordo di una certa pagina in cui, in fondo a sinistra, c'era la notizia di un diverbio sorto tra i due. Alla fine Sergio dice: «Vedi, dunque, che io ho ragione!». E Cherubino gli risponde: «No, tu non hai ragione, altrimenti ti picchio!». Mi è ritornata in mente l'altro ieri, come simbolo della situazione in cui, non i bambini, ma tutta la gente oggi si trova ed è mantenuta: «Tu non hai ragione, perché io sono più forte di te» diceva Cherubino.

Se la fede è così razionale nei suoi effetti che ti rende più capace di attuare quello che il tuo cuore sente più giusto e più desiderabile - perché la fede è come un suggerimento e, nello stesso tempo, il crearsi di un clima, la sorgente di un clima, che rende cento volte più facile impegnare il cuore ed ottenere per il nostro cuore quello che esso desidera -, in che cosa, più precisamente, la fede può dimostrare questa sua preminenza sulla intelligenza delle filosofie umane, quindi di tutte le filosofie politiche, non come contraddizione, ma come superamento possibile, come preminenza? Il fenomeno umano in cui si vede come la fede possa intervenire con maggior ampiezza, maggior concretezza, maggior comprensività, maggior equanimità di equilibrio e, nello stesso tempo, maggior forza suggeritrice di generosità e di ingegno e di genialità, è quel fenomeno umano che designiamo con il termine «bisogno»: di fronte al bisogno, fino a quella soluzione che si può ammettere o non ammettere come soprannaturale nella sua fattura, ma che il termine «miracolo» indica chiaramente per tutti, per chi crede e per chi non crede. È una cosa strana, eccezionale e strana, è una soluzione eccezionale e strana. Dio ha scelto come metodo di rapporto con l'uomo la familiarità (è padre, è madre). Se è familiare con me, non è da stupirmi, anzi è da attendermi, che ogni giorno intervenga col suo aiuto in modo a me sorprendentemente sensibile, in modo tale che mi sorprenda nella mia restante incredulità, ma anche nella mia attesa.
In che modo, dunque, la fede aiuta il bisogno, aiuta nel fenomeno umano supremo che è il bisogno? Dico «supremo» perché qualsiasi scoperta ci fa arrivare a un traguardo in cui il bisogno è più grande, diventa più grande, diventa diverso e più grande. Ecco, mi pare che questo definisca la grandezza di tanto vostro atteggiamento (documentato così bene nella rivista nostra mensile, diventata preziosa per chi voglia conoscere la nostra esperienza e per noi stessi, che ci rende consapevoli della grazia che abbiamo addosso): la fede rende così commossi di fronte al bisogno dell'altro che questo diventa come un bisogno mio. Commuove, la fede, di fronte al bisogno che incontro, al punto che è come se fosse un bisogno mio. Questo io l'ho capito due o tre anni fa, per la prima volta, leggendo, dopo centinaia di volte che l'avevo letta, quella pagina del Vangelo in cui Gesù se ne andava per i campi con i suoi apostoli. Lungo gli stretti sentieri dei campi viene un funerale dal paese vicino, che si chiamava Nain. Portavano al sepolcro un ragazzo, adulescens, un giovincello. Dietro c'era sua madre che urlava, povera donna. Sfido io, aveva perso il marito, e quello era l'unico figlio. Piangeva. Gesù si informa immediatamente, balza in avanti, s'accosta alla donna e le dice: «Donna, non piangere!», da un certo punto di vista «irrazionalmente». Perché come fa una donna a cui è morto l'unico figlio ed è vedova a non gridare dietro il feretro che viene portato al cimitero? Come fa a non gridare? Fa' prima quello che hai fatto dopo qualche minuto! Restituiscile il figlio vivo, e dopo potrai dirle: «Donna, non piangere»! E invece no. Gesù abbandona gli apostoli, fa un passo avanti e dice: «Donna, non piangere!». E io, contemplando come spesso faccio, ricontemplando questa pagina del Vangelo, capisco che è più miracolo questo «Donna, non piangere!», che neanche la risurrezione stessa del figlio. La fede ci fa partecipare a questo amore senza confine all'uomo, all'altro.
Di fronte al mio bisogno, io che cosa faccio? Mi ci butto con tutta l'intelligenza, con tutte le risorse, chiedo aiuto agli amici, chiedo aiuto all'autorità, chiedo aiuto a tutti, metto tutti insieme - metterei insieme possibilmente tutto il mondo per soddisfare il mio bisogno -, ma quello che faccio per me, lo farei per chiunque altro. Quello che accade a me, il bisogno mio, è come il bisogno che senti tu. Se tu senti un bisogno, non posso dormir tranquillo se non faccio qualche cosa per il tuo bisogno. Vedere, per esempio, un disoccupato (per citare la piaga terribile di oggi, quella socialmente più grave) non può farmi star fermo, se ho la fede. Sì, se ho una certa sensibilità umana! Dico che la fede favorisce questa sensibilità. «Disoccupato» vuol dire uno che non lavora; nella misura in cui uno non lavora, non capisce più se stesso. Dice san Tommaso d'Aquino che l'uomo capisce se stesso osservandosi nel lavoro, mentre lavora, in opera. L'uomo che lavora è come se si mettesse sotto la luce radiografica e vedesse tutti i fattori di cui è costituito, che entrano in gioco nella serietà del suo gesto. Per questo vedere un disoccupato non può far star fermo uno che ha la fede.

E qual è, finalmente, il modo con cui la fede ci fa affrontare il bisogno?

Prima di tutto, di fronte a qualsiasi bisogno - anche il più disperato -, ci fa partire da una ipotesi positiva, direbbero i filosofi o gli scienziati: ci fa partire sempre da una ipotesi positiva - come il Padre, di fronte alla corruzione ultima dell'uomo, parte dalla misericordia - a costo di creparci: e creparci, allora, non è più negativo, ma diventa positivo.
In secondo luogo, la fede ci fa affrontare il bisogno costringendoci, sospingendoci, attirandoci, «costringendoci» - dicevo addirittura - a metterci insieme: ci fa mettere insieme, ci fa fare-con, mette insieme la libertà delle persone. Non ci fa arrestare nella contemplazione o nell'orgoglio fatuo di un'epoca in cui dei pezzi di ferro, congegnati in un certo modo dalla scaltrezza dell'uomo, facciano a meno dell'uomo stesso, del lavoro stesso dell'uomo, del suo impegno. Perché l'umanità fiorisca nella vita dell'uomo, l'impegno dell'uomo come coscienza di sé, come intelligenza viva, attenta, e come affezione a ciò che con essa si vede, è insostituibile: non c'è niente che possa sostituire, nel cammino che l'uomo fa per una maggior contentezza, una maggior soddisfazione, una maggior spiegazione di sé, non c'è niente che possa sostituire l'affettività umana, cioè l'amore.
Fare-con, mettersi insieme. E chi impedisce questo incomincia quella delinquenza che va a terminare anche nei mali peggiori. Come ricordava Giovanni XXIII nella sua Mater et Magistra, laddove elenca i diritti fondamentali dell'uomo. Uno dei diritti fondamentali dell'uomo è quello di associarsi. Per che cosa? Per soddisfare, per rispondere al suo bisogno. Ma, certo, questo mettersi insieme non può che essere «libero». Non si può obbligare: diminuisce la capacità fino a sopprimerla del tutto. «Libero» vuol dire cosciente dello scopo, cosciente di ciò che aiuta questo scopo, cosciente delle condizioni di sacrificio inevitabile. La parola «sacrificio» non diventa più un pericolo, non diventa più un'obiezione come per tutta la gente di ora, sì che essa richiama alla mente alcuni versi che Leopardi scriveva nella sua giovanissima età, ne Il pensiero dominante, quando parlava «di questa età superba, che di vote speranze si nutrica, vaga di ciance e di virtù nemica; stolta, che l'utile chiede, e inutile la vita quindi più sempre divenir non vede».
Tante delle cose dette distinguono l'impegno generoso, realizzato insieme ad altri generosi compagni di cammino, operatori di ciò che civilmente si chiama «volontariato», dall'impegno del cristiano che agisce per fede. Sarà interessante discorrere tra noi della diversità che c'è tra l'impegno del volontariato come concepito dalla società di oggi e l'impegno cristiano. In fondo, il volontariato è un impeto generoso che, a un certo punto, muore in se stesso perché lo Stato, che dapprima lo incita, non può offrire la forza per continuarlo, e tante volte non dà neanche i soldi promessi. Quasi come diceva san Paolo della morale in genere: la morale farisaica era precisa nel notare le leggi, e nel difenderle - per questo il fariseo era stimato, era l'uomo stimato dal popolo -, ma queste leggi non davano all'uomo l'energia e la forza perché fosse capace di attuarle. L'uomo di fronte alla legge sempre, sempre, chiunque sia - perciò: «non giudicate!» - sbaglia.

Vi auguro che possiate aiutare gli uomini in questo povero mondo, dove, per stare meglio, si fanno star peggio gli altri, eccetto quelli che possono ritirarsi nelle loro torri - come narra, per esempio, la storia dei conti Finzi Contini, il cui mondo è stato poi distrutto dalle vicende, perché niente resiste al tempo -. Non si può avere come ideale di costruire qualcosa in cui rinserrarsi per viverci tranquilli, lasciando la tempesta agli altri.
Comunque, nel contributo che la fede può dare nell'affrontare il bisogno, creando cooperazione e quindi una realtà umana nuova, già «più umana», trasformata, cambiata proprio nella volontà di aiutare chi è povero e chi ha più bisogno; in questo contributo la fede cristiana può essere utile a qualsiasi governo, perché le cose valgono per gli esiti di positività che danno. La fede può essere utile a qualsiasi governo - qualsiasi governo ci fosse a Roma o qualsiasi governo ci fosse a Mantova -. Perciò noi speriamo che in questa nostra compagnia siano presenti uomini di tutte le epoche, di tutte le idee e di tutti i partiti, perché tutti possano vedere. C'è un fattore (anche spiegato diversamente da come interpreta la nostra fede) che si richiama a Cristo e al suo avvenimento, c'è un fattore eccezionale come rendimento: immaginatevi quaranta persone che debbano essere buttate nel baratro dove devono crepare, nella fossa dove devono morire soffocate, e uno, mentre viene calato nella fossa, grida e strepita che lui è padre di famiglia e ha tanti figli; un altro, a cui non toccava essere internato e ucciso in quel modo, si fa avanti e dice: «Vado io al suo posto!»; dopo un po' di tergiversazione le guardie tedesche dicono: «Va bene, vai tu al suo posto». Sapete bene chi era: padre Kolbe. Morì così. Ed è una cosa eccezionale, un avvenimento eccezionale: di cui la storia della nostra compagnia è ricca. Leggete fedelmente Tracce ogni mese e ne vedrete documentazione in abbondanza. Non dico tutta della statura di padre Kolbe. Ma la statura di una coscienza che si impegna e di un sacrificio che si compie, di un servizio che si dà, non è nella fama che si genera: è davanti a Dio, davanti all'Infinito, che sembra, al nostro grido e al nostro parlottare, un immenso silenzio.
Grazie.

Note
1 Gv 3, 3.
2 Cfr. Gc 1, 26.
3 Is 66, 14.
4 Gv 15, 11.