Amore, dinamica dell'essere, amicizia, frutto estremo dell'amore

Parola tra noi
Luigi Giussani

Appunti dalla lezione introduttiva di Luigi Giussani agli Esercizi Spirituali della Fraternità di Comunione e Liberazione
Rimini, 3 maggio 1996


Questa mattina, leggendo il Corriere della Sera - come raramente mi accade, tradendo così l'indicazione che il mio carissimo Rettore della Facoltà Teologica di Venegono, quando dissi Messa, mi diede come consiglio: leggere tutti i giorni il giornale -, notavo la ricchezza sia quantitativa di nomi - noti o non noti - sia qualitativa delle persone citate, e improvvisamente mi è parso che il denominatore comune di tutte quelle citazioni fosse questo: ognuno di loro - più o meno seriamente - identificava il problema che la vita sua doveva affrontare e servire, con un particolare da lui fissato o fissatogli dalle circostanze di lavoro; con un particolare quindi scelto come tale, oppure indicato dalle necessità del suo lavoro, di qualsiasi tipo esso fosse.
Se il denominatore comune era uno solo - un particolare, il problema della vita ricondotto a un particolare, selezionato tra tutta la ricchezza dei fattori componenti il mistero del mondo o il gioco del mondo -, ne nasceva una confusione di Babele, una torre di Babele. Io incominciavo a paragonare la risposta dell'uno a quella dell'altro... una confusione da torre di Babele. E poi era come se ognuno - detto quello che doveva dire, identificato il punto su cui voleva responsabilizzarsi, detto quello che doveva dire per rispondere a tale senso di responsabilità -, se ne andasse via per il suo cammino, più solitario che in compagnia.
Non so dettagliarlo bene; né mi conviene farlo, per ora; riparleremo quest'anno di questa solitudine malinconica e presuntuosa, cinica, disperata, o pretenziosa di risultati che mai la storia, poi, consegna ad effetto.
E pensavo a come Dante parla del divino, così come a noi è stato dato di udire, di meditare, così che in un certo qual modo ci è quasi impossibile sganciarci del tutto dall'attrattiva di questa chiarità; quando Dante, introducendo al Mistero, parla di «luce intellettuale piena d'amore; amor di vero ben, pien di letizia; letizia che trascende ogni dolore»(1), ogni dolcezza.
Proprio «chiarità» ho detto. Le parole della terra, del presente, del passato, del futuro, come sentimenti, sono lette alla luce del sole. Ma che cosa fa la differenza fra noi che diciamo: «crediamo», partecipando con maggiore o minore intensità e fedeltà, ma partecipando, approvando quel che dice Dante, e tutti coloro che vivono così - come si deduce da quello che scrivono sul Corriere della Sera - e che oggi enumeravo (dieci, venti, trenta, quaranta...)?
Forse una parola dice tutto: c'è una semplicità che esige il percepire nella sua suggestività la parola di Dante; occorre una semplicità, una semplicità da bambini. È quanto dice Gesù nel Vangelo: «Ti ringrazio, Padre, perché hai svelato queste cose ai semplici e le hai trattenute nascoste a coloro che si credono di sapere. Sì, Padre, così piacque a te»(2).
Mi viene in mente un brano della liturgia ambrosiana: In simplicitate cordis mei laetus obtuli universa («nella semplicità del mio cuore Ti ho dato tutto, ho riconosciuto che sono Tuo tutto»); o un'altra frase di quella stessa liturgia: Notam faciam gloriam nominis mei in laetitia cordis eorum («renderò evidente la Mia presenza dalla letizia del loro cuore»).
Che immensa semplicità può cacciar via l'accusa di presunzione da una simile pace! Infatti, la letizia è proprio un lascito di Gesù: «Vi ho detto tutto quello che ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena»(3). Gesù parla addirittura di gioia poche ore prima d'essere fatto prigioniero ed ammazzato.
Nel grande discorso interamente redatto da Giovanni, negli ultimi capitoli (4) parla anche di letizia. E san Paolo riecheggia questa urgenza di letizia(5). Solo, letizia può esser data da una chiarezza, da qualcosa che al cuore appare chiaro, cui il cuore può accedere con umiltà, riconoscendo i propri limiti; questi non diventano obiezione al pensare, al vedere, al sentire e al fare cose che, senza questa compagnia che da Cristo proviene, è impossibile reperire altrove: è un'opera che eccede le mani che la fanno, le mani umane che la compiono.
E, infatti, sembra richiamare un po' queste cose il Volantone di quest'anno, dove appare una parola che apre l'orizzonte a capire il mistero di questo rapporto con Dio: la speranza. «La speranza - dice il Volantone - è una certezza nel futuro, in forza di una realtà presente». La certezza nel futuro può trovar ragione solo in qualcosa che è presente, visto, sperimentato, trovato o presentito nel presente.
È un presente che pone la questione della possibile speranza: letizia e gioia sono solo nella speranza. Perciò è la presenza di Cristo, resa nota dalla memoria, che ci rende certi del futuro; è la presenza di Cristo che può avere un nesso cogente col futuro, obbligante col futuro.
Oggi stesso, mi hanno fatto pervenire tre lettere. Queste tre lettere, che leggo fra le tante, mi hanno reso ancora più pensoso su questa impossibilità per il mondo, per la mia situazione d'uomo - qualunque essa sia - di essere lieto veramente o, addirittura, gioioso, che è una parola sovrumana: la parola «gioia» non esiste nel vocabolario, nel lessico dell'uomo. Per questo la complicazione è buia, equivoca, evidentemente equivoca troppe volte, comunque ultimamente tante volte inutile nei prodotti del pensiero e nell'atteggiamento che nella società mantengono i signori del Corriere della Sera di cui leggevo i nomi oggi.
La prima lettera ci viene dal cuore della Siberia, da Novosibirsk, dove il parroco è un nostro noto amico: don Pezzi. «Carissimo don Giussani, mi sembra questo tempo vivo di una drammaticità nuova, di un aspetto di drammaticità nuovo: l'accorgersi dello scorrere della umanità di Cristo nelle mie vene. Cos'è che dominava Cristo, l'umanità di Cristo? Era la gloria del Padre in Lui, nel Figlio, che fosse conosciuto, amato. Ma cosa domina la mia umanità? È lo scopo, lo scopo che sento essere della vita e del tempo mio e del mondo: la gloria di Cristo. Questo è più vero della meschinità dei miei tradimenti, che pure resta. Come avveniva nella coscienza dell'uomo Cristo? Avveniva come rapporto col Padre, come coscienza di essere il mandato dal Padre, per cui andava di qua e non di là. E come può avvenire per me? Come coscienza di un rapporto generativo reale, concreto, oggettivo, non deciso da me: rapporto che ho con don Massimo e la Fraternità in cui Dio m'ha messo, rapporto che mi apre e mi avvicina a te, al carisma, e in questo modo mi apre all'orizzonte della Chiesa tutta e a Cristo. In questi giorni pregherò perché la gente che partecipa agli Esercizi della Fraternità sia contenta [laeta: contenta], contenta di voler bene a Cristo, desiderosa di impattarsi con la realtà secondo quello scopo che è la Sua gloria nella storia. Tuo, per grazia del Signore. Don Pezzi».
Ed ecco la seconda lettera. «Carissimo don Giussani, ho ricevuto da alcuni giorni la lettera di Feliciani, in cui mi viene comunicata la designazione a responsabile regionale della Fraternità in questa regione; e volentieri rispondo accettando tale compito. Desidero comunicarti solo due cose delle tantissime che il cuore mi suggerisce. Primo: sono proprio grato di averti incontrato. Ti sono grato per aver suscitato in me e in tanti amici una fede così viva ed appassionante, e perché sei segno evidente della compagnia di Dio alla mia vita. Non poteva succedermi qualcosa di più bello, di più vero in tutta la vita [più semplice di così "se more"]. Secondo: sono grato della responsabilità a cui sono chiamato, perché in questi anni il rispondere sta diventando lentamente la modalità stessa della mia vocazione nella famiglia, nel lavoro, nel movimento, nel mondo. Chiedo al Signore che ti mantenga in mezzo a noi ancora per molto e che io possa umilmente seguirti perché, guardandoti, ami sempre più Cristo. Ti abbraccio. Domenico».
Questa terza è proprio semplice. «Caro papà, sono contento che predichi gli Esercizi Spirituali con don Giussani a Rimini, e aspetto di venire anche io quando sono grande come te. Andando a scuola tutte le mattine, ci hai fatto dire il Gloria a san Pampuri. Tu sei proprio un grande papà. Pietro» (di sette anni).
La fatica che abbiamo fatto venendo qui - che per tanti è grandissima, ma per tutti è grande -, la fatica che abbiamo accettato è perché questo lavoro dia frutto in noi, per quelli che ci stanno vicino e per la Chiesa tutta, per la nostra povera patria e per il mondo, tutto povero; dove non c'è Cristo c'è una povertà che si vede bene, una povertà che tocca le radici del nostro io umano - intelligenza e affezione.
Chiediamo a Dio, all'inizio di questi giorni, che ognuno di noi abbia lo spirito di questi tre amici (un prete, un responsabile della Fraternità e un bambino di sette anni), e ci dia la fede in Gesù e una speranza viva per il nostro futuro, perché è questa speranza che ci fa agire oggi: il futuro parte da oggi, ma ritorna innanzitutto all'oggi, rendendolo denso e affascinante. Sperare... ricordatevi cosa diceva il nostro Péguy: «Per sperare bisogna aver ricevuto una grande grazia»(6). Se non c'è questo presente d'esperienza di un grande dono, non si può sperare in un futuro: tutti avanzano senza speranza, senza reale speranza. E la grande grazia che abbiamo ricevuto è che abbiamo saputo che Dio è diventato uno di noi ed è con noi. Per questo - in piedi - chiediamo il dono dello Spirito Santo.

Discendi Santo Spirito

Il tema di questi Esercizi - è il mio breve messaggio di questa sera - non è mai stato affrontato, proprio tematicamente non è mai stato messo in prima pagina (chissà perché?). È la parola che Cristo ha riportato nel mondo come possibile realtà, che in Lui è vissuta come dedizione della vita e come sacrificio mortale, che il Padre ha richiesto a Lui come condizione per la salvezza di tutti gli uomini, perché la Sua pietà per l'uomo si realizzasse in un universale perdono, e in qualche cosa di più, come vedremo. Più del perdono? Sì, qualcosa di più che il perdono: la parola che usa il vocabolario cristiano è la parola «misericordia». Mentre il perdono è una realtà che, quasi matematicamente, si può anche ricostruire, quasi uno sente la possibilità di avvicinarsi ad essa - se uno ha sbagliato sette volte, sette castighi, è a posto; sette penitenze, è a posto -, la misericordia no! C'è una eccedenza, c'è una possibilità di eccedenza anche dall'aver ragioni adeguate al perdono - così almeno come appare a noi -, tanto da sembrare che Dio compia un'"ingiustizia" perdonando fin quello.
Il professor Lobkowicz - che è una delle personalità laiche più in vista, ma soprattutto più affascinanti per la sua fede e il suo spirito di sacrificio e il suo sforzo per far riconoscere, in tutto il mondo intellettuale e politico in cui vive, la Chiesa -, trovando un gruppetto di nostri ragazzi ad Eichstätt, disse: «Girando il mondo, mi sono avveduto che fra tutti i movimenti voi siete gli unici per i quali l'amicizia è una virtù». Virtù: l'espressione della vita dell'uomo in rapporto col Destino.
Ecco, l'amicizia è il tema di questi Esercizi, affrontato come iniziale abbordo, come approccio che dovrà diventare il punto di riferimento, il criterio di riferimento per tutte le Scuole di comunità, per tutti i raduni di Scuola di comunità, per tutti i raduni della Fraternità, per tutti i raduni delle comunità, per tutte le discussioni, perché l'amicizia esprime in suprema forma la grandezza dell'uomo: l'imitazione di Dio, che è l'uomo, cui è chiamato l'uomo.
Infatti, la natura dell'essere, la natura di tutto ciò che esiste, di tutto ciò che è reale, viene da Dio, fino all'ultima pur piccola forma di vita. La natura dell'Essere, come ce la presenta il Nuovo Testamento, la rivelazione di Gesù, il Mistero che fa tutte le cose così come ci si è rivelato attraverso il Figlio di Dio fatto uomo, attraverso Gesù, la natura dell'Essere è amore: Deus caritas est.
Se la natura dell'Essere è amore, allora nell'uomo, che è la creatura fatta a Sua immagine e somiglianza, la virtù suprema sarà questa caritas, questo amore.
«Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri»(7). In questo senso, giustamente, il nostro grande menestrello cristiano significativo del tredicesimo secolo, Jacopone da Todi, diceva quella frase famosa: Amore, amore, grida tutto il mondo; Amore, amore, omne cosa conclama; ogni cosa grida, può gridare «amore», se passa attraverso la coscienza, intelligenza e affetto, dell'uomo. E l'uomo, ogni uomo, grida «amore amore» a qualsiasi cosa veda o tocchi, di cui si serva, che rispetti e conosca.
Ma «amicizia», cosa apporta alla parola amore? In che senso è distinguibile dall'amore? Nel senso che l'amicizia è un amore reciproco. Un amore reciproco: senza reciprocità non c'è amicizia.
Ma, allora, è un calcolo? Innanzitutto non può essere calcolo questa abolizione della estraneità tra un uomo e l'altro uomo, chiunque sia l'altro. Chiunque sia l'altro! Non solo tuo figlio, non solo tua madre, ma l'uomo che passa per la strada e viene da chissà dove.
È abolita l'estraneità. Sto parlando di quello che è il miracolo umanamente più affascinante e persuasivo del fatto cristiano, della Chiesa di Dio, per chi la vive, per chi cerca di viverla, per chi chiede allo Spirito il dono di viverla.
Abolizione dell'estraneità non è calcolo, proprio perché è carità, cioè la natura espressa di Dio; essa coincide con l'espressione di Dio. Se l'attività di Dio è governata totalmente, esaustivamente da questa parola, essa, così radicalmente usata, vuol dire immediatamente l'amore, senza nessun tipo di calcolo. Senza nessun tipo di calcolo, senza nessun tornaconto: puro, amore puro, gratuità. Ecco perché si chiama caritas: charis è una parola greca che vuol dire gratuità, indica gratuità totale, assoluta, senza alcun calcolo: puro, nudo e crudo amore.
E questo già fa una differenza terribile nell'amicizia, se essa deve essere il darsi reciproco, totalmente gratuito amore. Si può capirlo di certi istanti supremi nel rapporto tra un genitore e un figlio, tra un uomo e una donna di cui egli fosse innamorato, nell'impeto di generosità in circostanze assolutamente eccezionali verso un proprio fratello; ma, normalmente, l'amore ha come un ritorno: suggestività, aiuto; non so, ognuno può riflettere su di sé.
Per chiarire bene quello che voglio dire, sento di non riuscire a trovare un'espressione migliore di quella contenuta nelle poesie di Ada Negri; in quella poesia - precisamente - intitolata Mia giovinezza, che incomincia così: «Non t'ho perduta. Sei rimasta in fondo/ all'essere. Sei tu, ma un'altra sei:/ senza fronda né fior, senza il lucente/ riso che avevi al tempo che non torna,/ senza quel canto. Un'altra sei, più bella [scrive a settant'anni questo!]./ Ami, e non pensi essere amata: ad ogni/ fiore che sboccia o frutto che rosseggia/ o pargolo che nasce, al Dio dei campi/ e delle stirpi rendi grazie in cuore»(8). Da quando avevo vent'anni e ho letto questa poesia per la prima volta, fino ad ora, non ho nessuna vergogna di leggerla e rileggerla, sentendo assolutamente un messaggio così puro come il messaggio di Cristo. Ami il fiore non perché lo cogli e lo annusi, ma perché c'è (l'Essere, il Mistero dell'Essere, cui partecipa quel fiore), ami il frutto non perché lo addenti, ma perché c'è. Ma soprattutto l'altro paragone è così chiaro e convincente: ami il bambino non perché è tuo, ma perché c'è. Quindi, senza tornaconto, senza calcolo, senza neanche il piccolo gusto, messo a tema, di vedere un bel bambino ricciuto.
Ma non è appena questa impossibilità di tornaconto, questa abolizione di tornaconto: è che nel bambino che si ama perché è - perché è! -, come nel frutto, come nel fiore, come in ogni cosa, che si ama perché è, è il Mistero che si affaccia. E, infatti, la madre dice: «Che ne sarà di questo bambino?!», e di tutte le altre cose l'uomo dice: «Di che cosa è fatta questa realtà, così precisa e così sfuggente proprio nella sua radice ultima?». Perché non si fa da sé; non c'è nessun fiore che si faccia da sé, non c'è nessun albero che si faccia da sé, non c'è nessuna creatura che si faccia da sé, e non c'è nessun uomo che si faccia da sé. Il Mistero, che sta dietro ogni cosa, è come la prospettiva inesorabile di ogni cosa che si vede.

Per questo, c'è un corollario molto grande per la nostra vita morale. La settimana scorsa, nella riunione del Consiglio di Presidenza di Cl, ci siamo domandati: «Possiamo recuperare le caratteristiche del nostro metodo, del metodo implicito nel nostro carisma?». Ho risposto che la prima implicazione metodologica del nostro carisma è l'aver imparato che l'accostare qualsiasi cosa - persona, ancora di più - deve partire da un'ipotesi positiva.
Che Dio sia amore, che la natura di Dio sia amore, vuol dire che lo scopo di tutto ciò che c'è è assolutamente positivo, assolutamente positivo!
Al funerale di un uomo che ha fatto moltissima carità, e che è morto tragicamente, alla moglie e ai figli dicevo, durante la Messa: «Quanto bene ha fatto quest'uomo! Ed è certo che Dio non può azzerare neanche una opera buona (una sola!) fatta dall'uomo! Perché se la natura dell'Essere è amore, quella sola azione può difendere vite intere».
Questo è l'interrogativo strano che la parola misericordia fa entrare dentro l'ambito della parola perdono, come una risposta che a noi pare "irrazionale", ingiusta o irrazionale, perché non ha ragioni - a noi sembra - sufficienti, non può aver ragioni sufficienti. E invece il Mistero supera questo! Non lo so in che modo. Forse potrà esservi utile questa citazione dal libro che abbiamo pubblicato per i tipi di Rizzoli, Kristin figlia di Lavrans. Ho constatato che, finora, nessuno ne comprende il filo segreto, che è questo: «L'ultimo pensiero chiaro [è scritto nelle ultime pagine, quando Kristin sta per morire] che ebbe fu che sarebbe morta prima che quei segni [i segni fatti misteriosamente da Dio sulla sua mano] fossero scomparsi, e la cosa le fece un gran piacere. Era un miracolo, qualcosa di incomprensibile, ma una cosa certa: Dio, ella lo sapeva, aveva stretto un patto con lei, un patto d'amore col quale la legava a sé in eterno, indipendentemente dalla sua volontà [è questo che ho chiamato «apparenza irrazionale o addirittura ingiusta»], dai suoi pensieri terreni, questo amore era esistito sempre in lei [è il «sì» di san Pietro], aveva agito come il sole sulla terra che dà alla fine i suoi frutti. Questi frutti nessuno avrebbe potuto distruggerli, né il fuoco dei desideri carnali, né l'orgoglio, né l'ira folle. Era stata serva di Dio, anche se ribelle, restìa, infedele nel cuore, con una preghiera falsa sulle labbra; una serva maldestra, insofferente davanti alla fatica, indecisa, ma Dio aveva voluto mantenerla lo stesso al suo servizio»(9).
Per questo l'anno scorso abbiamo letto nel libro della Bibbia intitolato alla Sapienza quell'inizio famoso: «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l'esistenza; le creature del mondo sono sane, in esse non c'è veleno di morte, né gli inferi regnano sulla terra, perché la giustizia di Dio è immortale. Ma l'uomo cerca la morte»(10).
Una positività totale nella vita deve guidare l'animo del cristiano, in qualsiasi condizione si trovi, qualsiasi rimorso abbia, qualsiasi ingiustizia senta pesare su di sé, qualunque oscurità lo circondi, qualunque inimicizia, qualunque morte lo assalga, perché Dio, che ha fatto tutti gli esseri, è per il bene, Dio è l'ipotesi positiva su tutto ciò che l'uomo vive. Anche se questa positività sembra talvolta essere vinta, in noi, dalle tempeste della vita, e quasi lasciare il posto a una capacità che l'uomo ha di ostilità, di odio contro la fedeltà di Dio. Qualche giorno fa abbiamo letto nel breviario, nel 66° capitolo di Isaia: «Rallegratevi con Gerusalemme [che è la comunità della Chiesa], esultate per essa quanti l'amate. Sfavillate di gioia con essa voi tutti che avete partecipato al suo lutto. Così succhierete al suo petto e vi sazierete delle sue consolazioni; succhierete con delizia all'abbondanza del suo seno. Poiché così dice il Signore: "Ecco io farò scorrere verso di essa la prosperità come un fiume; come un torrente in piena la ricchezza dei popoli. I suoi bimbi saranno portati in braccio, sulle ginocchia saranno accarezzati. Come una madre consola un figlio così io vi darò consolazione. Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore, le vostre ossa saranno rigogliose come erba fresca [le vostre ossa da morto saranno rigogliose come erba fresca]»(11).
E il Salmo 77 che abbiamo letto oggi dice: «I nostri padri continuarono a peccare e non credettero ai suoi prodigi. Allora Dio dissipò come un soffio i loro giorni e i loro anni con strage repentina. Quando li faceva perire, lo cercavano, ritornavano, e ancora si volgevano a Dio; ricordavano che Dio è loro rupe, e Dio, l'Altissimo, il loro salvatore; lo lusingavano con la bocca e gli mentivano con la lingua; il loro cuore non era sincero con lui e non erano fedeli alla sua alleanza. Ed egli, pietoso, perdonava la colpa, li perdonava invece di distruggerli. Molte volte placò la sua ira e trattenne il suo furore, ricordando che essi sono carne, un soffio che va e non ritorna»(12).
Uno dei più grandi peccati, perciò, che l'uomo può commettere, diabolico (la diabolicità può penetrare in noi ritornando con enfasi dopo il tentativo originale), per qualsiasi motivo - per motivo dei suoi peccati, per motivo della impossibilità a fare il bene che desidera, a riparare le breccie fatte nelle mura delle sue costruzioni dal tempo e dalle circostanze -, è perdere la fiducia in Dio. Dio, come misericordia, tutto vince. Certo, non bisogna dimenticare l'essenza della questione: per quanti peccati avesse fatto, Kristin c'era stata, Dio l'aveva scelta e lei aveva risposto: «Io ci sono stata, ho voluto starci».
Il cristiano, per vivere l'amore, non occorre faccia somme e addizioni di virtù e di perfezioni: deve - nonostante quel che è - accettare il disegno di un Altro, deve essere disponibile al volere di Dio. Questa è la sua vocazione, come mi diceva in un suo biglietto una nostra amica: «Caro abate - mi chiama "il suo abate" -, oggi ho scoperto una cosa: la vocazione è la stella che brilla nella notte oscura delle circostanze».


Ma occorre che passiamo a una seconda osservazione. Se l'amore è ciò che salva l'uomo facendolo partecipare, nella misericordia, alla natura stessa di Dio, la vita dell'uomo è pur così breve, è come un soffio: «Essi sono carne, un soffio che va e non ritorna»(13). Così, ognuno di noi, quando è "pressato" dalla imponenza evidente della pochezza delle sue cose, che cosa fa? Nella vita, che cosa faccio? Che cosa posso fare? Come sono utile? A chi sono veramente utile? E così tutti dubitiamo anche dei gesti più buoni.
Invece, è il contrario! Se Dio fa tutte le cose per il bene - essendo la sua natura amore -, ogni istante che l'uomo vive è grandissimo: è rapporto con l'Infinito, ogni istante è rapporto con l'Infinito, è grandissimo, come la morte di Cristo in croce, come l'istante della madre che partorisce, come l'istante della donna che lava i piatti, come l'istante dell'uomo che va al suo lavoro, tutti i giorni, la mattina alle otto, otto e mezza.
Se non si vive la fede nel Dio buono che ha fatto tutte le cose, nel Dio amoroso che ha fatto tutte le cose, allora tutto rimpicciolisce. Come soffriamo tante volte, anzi, tutti i giorni come siam tentati da questo, «tutto rimpicciolisce» negativamente, non val la pena, e tutto si perde. Invece, nel mistero dell'amore, nella grande Presenza del mistero dell'amore, tutto è grande! «Mamma, per te tutto è grande!» sentivo dire da una ragazzina a sua madre che andava a Messa a Tradate, i primi mesi del mio sacerdozio, mentre io passavo veloce in bicicletta: «Mamma, per te tutto è grande!». Ho frenato per aderire anch'io alla frase, ma ero già lontano, portato lontano dalla velocità della bicicletta.
«Morte, dov'è la tua vittoria?» dice san Paolo (14). Così san Francesco vuol morire sulla nuda terra: cos'è quel verme steso per terra? No, è san Francesco! Nome per il quale cielo e terra ardono di luce e di affezione.


In terzo luogo, ogni uomo è oggetto dell'amicizia, ogni uomo è oggetto di amicizia, parte dell'amicizia di Dio che si rivela in lui. Non solo ogni istante, ma ogni uomo è degno di quell'amore in cui Dio ci ha fatti creandoci, ogni uomo! Ogni uomo: non è possibile accostare un uomo, se non con questa coscienza. Anche la mattina quando vai in tranvai e il tram è pieno, e se tu sei cristiano hai detto le orazioni del mattino, puoi pensare che tutta quella gente, che non conosci, non solo non ti è estranea, ma capisci che devi dare la vita per loro, come Cristo. «Signore, ti offro la mia giornata e la mia vita per questa gente». Ma cosa vuol dire offrirla per loro? Perché abbiano soldi? Perché riescano nel concorso? Se Dio vuole queste circostanze, ben vengano; se Dio le vuole: non le ha volute per me, può darsi che non le voglia neanche per loro. È per il loro destino! Quante volte abbiamo dovuto riflettere su questo: guardare una persona che si dice di amare senza pensare mai alla prospettiva del suo destino, al destino del bambino davanti agli occhi della madre, della ragazza vicino al ragazzo che le vuol bene, di chiunque, dicevo prima. Di quelli che sono sul tranvai, di loro non conosco nessuno, ma non posso guardarli senza dire: «Signore, che destino avranno? Fa' che abbiano il destino della vita eterna con Te! Salvali, Gesù, come salvi me, come io sono sicuro che salvi me; per la tua misericordia, non per quello che io sono».
Tacito, grande scrittore di storia romana, parlando degli Ebrei del suo tempo diceva: «Essi sono tra di loro instancabilmente leali e soccorrevoli, ma verso gli altri ferocemente estranei ed ostili»(15). Ecco, che ciò non avvenga anche di noi! Perché non è da dirsi solo per gli Ebrei, ma è da dirsi per ognuno di noi! Quante volte, quante persone abbiamo conosciuto e quante volte le abbiamo accostate come se fossero estranee, e invece il loro destino apparteneva al nostro, perché il nostro era identico al loro, e amarle significava amare il loro destino.
Io ho usato la parola amicizia, ho riusato la parola amicizia: non può esserci amicizia tra di noi, non possiamo dirci amici, se non amiamo il destino dell'altro sopra ogni cosa, al di là di qualsiasi tornaconto.
E, invece, constatiamo queste rotture della unità, queste estraneità, a gruppi nella stessa stanza, nella stessa comunità, nella stessa parrocchia, nello stesso movimento. E là dove c'è una preferenza, essa è ben legata a un piacere, a una strumentalizzazione, a un tornaconto.

Per questo non abbiamo mai osato affrontare questo tema, ma quest'anno sarà il criterio con cui - dicevo prima - giudicare tutto. Che questa estraneità, Signore, non sia vera tra di noi, e che tra di noi sia vero l'amore innanzitutto, e quindi l'amicizia, il reciproco desiderio, che è augurio che il destino buono - cioè Tu, il Destino finale -, conforti e confermi ogni nostro rapporto e lo renda capace di qualsiasi generosità.
Questo tema sarà sviluppato domani in due principali lezioni. Do questa indicazione perché chi terrà le meditazioni domani è, per la prima volta, un sacerdote del movimento, ma non italiano, bensì spagnolo: don Garcia.
Io avevo detto che, se il movimento è internazionale, occorre che i sacerdoti di qualsiasi nazione o Paese possano parlare a tutti, perché gli Esercizi della Fraternità sono il giorno di ritiro per tutte le comunità del mondo. «Don Garcia, per esempio...», ho detto ridendo qualche settimana fa, e lui, naturalmente, è diventato rosso e si è schermito. Il giorno dopo dalla Spagna, da Madrid, è arrivata una telefonata: «Ci siamo radunati come centro del movimento e siamo disponibili a quello che il Centro di tutto il movimento internazionale decide: ognuno di noi è pronto».
Così, don Garcia domani terrà le due meditazioni: la prima, dal titolo «L'amicizia come metodo del rapporto tra Dio e l'uomo, tra Dio e la creatura», il mattino, e, nel pomeriggio, la seconda: «L'amicizia come sorgente della vera moralità». Limpido e chiaro, avrà un solo handicap: non parlerà nella sua lingua. Non è come me, che sono andato trenta volte in Spagna e tutte le volte, prima di parlare, dicevo: «Mi scuso perché non conosco lo spagnolo». Lui, invece, viene e parla in italiano, perciò anche noi siamo più attenti del solito, come gratitudine a lui per la generosità con cui ci serve.
Quello che don Garcia ci dirà domani dovrà diventare, di fronte al tema della Scuola di comunità di quest'anno - Alla ricerca del volto umano -, chiave di volta, perché l'origine del volto umano è Dio, quindi il rapporto di Dio con noi, e la grandezza del volto umano, lo splendore del volto umano, sta nella risposta positiva a Dio, nella moralità perseguita, desiderata, domandata. Così che abbiamo a capire finalmente il vero senso del proverbio che ci dicevano da bambini: «Tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare». Vedremo che, con serietà, dovremo cambiare la parola "mare" in quel mare immenso di abbandono e di nobiltà di cuore, di generosità e di fiducia, che si chiama "domandare". Il domandare lo scopriremo come inizio della vera moralità. Qui sta il segreto per cui la misericordia può perdonare anche senza sembrare di rispettare ragioni o giustizie. L'uomo che domanda, fosse distrutto dal suo male, l'uomo che domanda è veramente figlio di Dio. «Tra il dire e il fare c'è di mezzo il domandare» così ho accennato a una cosa grande, alla cosa grande cui ci accosteremo domani, al mistero della bontà di Dio. Ma ci accosteremo ad esso durante le meditazioni sulla Scuola di comunità lungo tutto quest'anno.


Note
(1) Dante Alighieri, Paradiso XXX, vv. 40-42.
(2) Cfr. Mt 11, 25-26.
(3) Cfr. Gv 15,11.
(4) Gv 14-17.
(5) Cfr. Rm 12, 12; Col 1, 24; 2 Cor 6,10. 13,11; Fil 3,1. 4,4; 1 Ts 5,16.
(6) Ch.Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù, Jaca Book, Milano 1986, p.167.
(7) Gv 13, 35.
(8) A.Negri, «Mia giovinezza», in Mia giovinezza, BUR, Milano 1995, p.78.
(9) S.Undset, Kristin figlia di Lavrans, BUR, Milano 1996, p.691.
(10) Cfr. Sap 1, 13-16.
(11) Is 66, 10-14a.
(12) Sal 77, 32-39.
(13) Sal 77, 39.
(14) 1 Cor 15, 55.
(15) Tacito, Historiae V, 5.