Il valore di alcune parole che segnano il cammino cristiano

Parola tra noi
Luigi Giussani

Riflessione sul significato della Croce e della Risurrezione
di Cristo
L'Osservatore Romano, 6 aprile 1996


La Pasqua, facendo memoria della croce e risurrezione
di Cristo, può essere occasione per richiamare a noi e a tutti il
valore di alcune parole che segnano il nostro cammino cristiano.

Ci anima un amore alla nostra umanità, cioè a quell'attesa
di compimento che ha ogni uomo: si tratta di riconoscere lo scopo dell'esistente
e della storia, con le loro croci e le loro risurrezioni. Per questo vogliamo
sviluppare il percorso dei termini che usiamo.



1) Secondo una certa ispirazione biblica definiamo volentieri con
la parola «cuore» quelle esigenze originali in base alle quali
l'impatto con la realtà viene criticamente appurato e la cui soddisfazione
giustificherebbe la verità della proposta.

Così è sintetizzabile il dinamismo della ragione: come
coscienza della realtà emergente nell'esperienza secondo la totalità
dei suoi fattori.

Meno della totalità non c'è ragione, onorando noi la ragione
come indispensabile strumento dell'io.

Lo sviluppo della dinamica della ragione si chiama cultura, cioè
coscienza critica e sistematica dell'esperienza: il termine «critica»
riferisce l'esperienza ad un punto supremo - totalità, abbiamo detto
-; «sistematica» riferisce l'esperienza alla coerenza ideale
nella storia e nel tempo. La più bella definizione di critica l'abbiamo
comunque trovata nella Prima Lettera ai Tessalonicesi (5,21): «Panta dokimazete to kalon katechete». Vagliate ogni cosa e trattenete il
valore.

In qualunque atto della ragione, elencati tutti gli identificabili fattori,
c'è un punto, un soffio, un'apertura, un punto di fuga imprevisto
- come riconosce Montale: «Un imprevisto è la sola speranza»,
o Kafka: «Esiste un punto d'arrivo» -, per cui ogni esperienza
che la ragione giudichi rimanda a una plaga misteriosa, a una realtà
di Mistero: Dio.

Non può la ragione pretendere di conoscerne anche solo un pezzetto,
ma unicamente di avvicinarsi al suo calore fontale e alla sua luce originale
attraverso insoddisfatte approssimazioni analogiche.

Il Mistero si fa conoscere solo svelandosi, prendendo lui iniziativa nel
collocarsi come fattore dell'esperienza umana, quando e come vuole. Ciò
è supremamente atteso dalla ragione.

A noi sembra che negare la possibilità di registrare questo sorprendente
disvelarsi del Mistero nell'esperienza, è rinnegare la ragione come
categoria della possibilità, cioè come rapporto con l'Infinito,
appunto con l'esistenza del Mistero tenebrosamente, ma sicuramente registrata.



2) C'è un avvenimento, un fatto assolutamente originale
eppur accaduto: un uomo si è detto Dio. Dio ha voluto rendersi familiare
all'uomo - con tenerezza - come suo compagno di cammino verso il destino
per cui l'ha creato, redimendone le debolezze, anche le più sproporzionate
all'ideale.

Questo avvenimento implica la fondamentale assunzione della promessa fatta
profeticamente al popolo ebraico, e suo adempimento, cioè il compiersi
della profezia come fatto della storia.

Di fronte alla storia ebraica non c'è vibrazione di coscienza umana
più simpatetica e più umile - quasi domandasse scusa della
sua certezza, a chi ha portato «pondus diei et aestus», cioè
ha portato tutto il peso della storia precedente -, e più pacifica
nell'affermare il già avvenuto compimento per tutto l'universo nell'ebreo
Gesù di Nazareth morto e risorto.

Che Cristo sia Dio non è un reperto della ragione, ma reperto della
ragione è l'incontro con un'umanità presente, eccezionale
rispetto a tutte le altre, senza paragone corrispondente alle esigenze del
cuore. «Chi è questo uomo?», dicono gli amici e i critici
intenditori. La risposta sconcertante e imprevedibile è accettata
per l'evidenza di verità e la sicurezza di fiducia senza paragoni
introdotte dalla convivenza con Lui e giudicate secondo gli ideali della
ragione. «Io sono il Verbo di Dio che ha bussato alla casa dell'uomo
per esservi ospitato, anzi per esserne parte».

Sant'Agostino dice: «Quid fortius desiderat anima quam veritatem?»;
domanda e risposta sono nell'altro antico aforisma: «Quid est veritas?
Vir qui adest».



3) Il realismo della presenza di Cristo assume nel tempo la forma
di una compagnia che si motiva interamente come fede in Lui. Lui
è la verità e la vita. È la Chiesa, segno in cui c'è
la presenza personale Sua, metafisicamente «corpo mistico» e
nella storia «popolo» - Paolo VI parlò di una «entità
etnica sui generis» -, segno comunitario e storico, la Sua presenza
in noi in ogni momento del tempo. Fine della storia è lo svelarsi
del valore assoluto della Sua presenza, contingente nella Palestina, e coestesa
per energia dello Spirito a tutto il tempo della Chiesa.



4) Moralità non sono leggi di dinamismi più
o meno scientificamente scoperti nelle mosse del divenire umano dall'analisi
razionale, ma l'attrattiva scoperta e ragionevolmente riconosciuta
di fronte a quella presenza eccezionale cui si aderisce, si ama nella semplicità
(originalità) del cuore, a cui si riferisce l'adesione tentativamente
realizzata nell'atto - «Sì, io ti amo», di san Pietro
-, imitandola, cioè seguendone la modalità di attuazione esistenziale.

Si tratta della caratteristica dello sforzo umano dall'interno di una debolezza
originale, la cui abituale incoerenza è perdonata, cioè ridotata
nell'amore di una capacità di ripresa continua.

Moralità è l'intensità e la tensione di questa ripresa.



5) La compagnia cristiana e l'oggi del mondo.

La festa della Pasqua e tutte le feste cristiane sono la iniziale ma certa,
provvisoria ma autentica, esperienza della promessa antica.

L'essenza del tempo, cristianamente parlando, è festiva
per la presenza di un compagno con il quale qualsiasi avventura di lavoro
è possibile, indizio certo di un'immagine ultima compiuta; e con
il quale qualsiasi parzialità ed estraneità è investita
di una tensione unificante che organizza i caratteri della personale esistenza
in capacità di rapporto con tutti gli altri uomini chiamati all'opera
di Dio, e quindi introduce un volto di socialità compiuta.

Il nostro cuore è invaso dall'immagine creata da Giovanni Paolo II
nella Tertio Millennio adveniente: «Il tempo in realtà
si è compiuto per il fatto stesso che Dio, con l'Incarnazione, si
è calato dentro la storia dell'uomo. L'eternità è entrata
nel tempo: quale "compimento" più grande di questo? Quale
altro "compimento" sarebbe possibile?».



6) In questa fede si sviluppa la speranza per cui qualsiasi
tentativo umano di liberazione, personale o collettivo, è onorato
e consacrato nella sua positività eterna, come veicolo profetico
che tiene desta un'attesa di totalità che si manifesterà alla
fine della storia. «È giunta l'ora. Padre, glorifica il figlio
tuo, come il figlio tuo ha glorificato te».

Questa speranza escatologica genera un'attività che tende all'incontro
con ogni presenza umana così impegnata (ecumenismo) e, data l'approssimazione
inevitabile di ogni costruzione poeticamente consistente, affaccia ad ogni
morte - cioè ad ogni termine - la misericordiosa vittoria del bene.

Così l'amore è possibile anche col nemico, col tiranno,
per la carità dell'Ultimo e per l'Ultimo, come passione di offerta
al Divino, anche quando essa non è consapevole, di tutte le fatiche
umane.